Le incomprese
Nell’essere madre c’è la solitudine, la guerra, la ribellione. Il rapporto con i figli e un ruolo che cambia. Da “Maternal” a Kazuo Ishiguro
Torno spesso a un racconto ferrarese di Giorgio Bassani. Lida Mantovani è una ragazza madre, una giovane ingenua che si è fatta ingannare da quello che avrebbe dovuto essere il suo grande amore. E’ un racconto immenso nel perimetro di un sottoscala. Al centro di questo racconto ci sono due donne: Lida e sua madre che prima di lei ha avuto la stessa sorte. Nel condividere l’abbandono e la solitudine di madri per caso sono diventate amiche, complici; si spartiscono la malinconia come un pezzo di pane. Ireneo, il bambino nella culla, e loro due a lavorare insieme, a cucire i panni di altri nel loro piccolo appartamento; sospirano all’unisono, ma non parlano mai dell’accaduto. Ogni tanto la madre tenta un riferimento, poi lo lascia cadere nel vuoto; s’incanta a osservare la figlia, la scruta, dice Bassani, e quello sguardo sembra un abbraccio di due compagne di sventura. D’un tratto la madre la prende per le spalle, la fa alzare e la trascina davanti allo specchio. Le dice di guardare come sono diventate uguali; sottolinea una somiglianza fisica che rivela molto altro. Tra loro due che lavorano all’unisono come una piccola melodia ci sono solo sguardi d’intesa per chi debba andare ad aprire la porta. Ciascuna per sé fantastica sulle infinite cose della propria vita che potevano essere e non sono state. Parla, Bassani, del destino che ci si trasmette come un’identità; parla della solitudine delle madri al di sotto dello sguardo di chi passa per strada.
Ho pensato a Lida Mantovani mentre guardavo Maternal, il nuovo film di Maura Delpero premiato con la Menzione Speciale al Festival di Locarno 2019 e ora finalmente nelle sale. Maternal è ambientato nell’Hogar, un centro religioso italo-argentino per ragazze madri, un luogo paradossale in cui la maternità precoce di giovani madri adolescenti convive con il voto di castità delle suore che le hanno accolte, tra regole rigide e amore cristiano.
Sono tutte donne in questo film: le suore nei loro abiti bianchi, figure quasi interscambiabili, e poi le ragazze, con vestiti rimediati e succinti, i capelli tinti, le unghie colorate, i rossetti, le scarpe col tacco, ma tutte bambine – come Lu e Fati –, con i loro figli avuti per caso, messi al mondo perché è capitato, perché doveva andare così, non si poteva prevenire in nessun modo. Solo donne, sottratte allo sguardo e al rumore del mondo. Come nel racconto di Bassani, c’è un dentro e c’è un fuori. Il dentro che riguarda il femminile e il materno e un fuori evocato solo per come si raffronta a questo femminile. Anche Lu, il corpo sensuale ma troppo magro, i capelli decolorati, il trucco eccessivo, ha una bambina. Lu si preoccupa di non potersi fare la ceretta alle gambe e all’inguine, e chiede a sua figlia di rubare i rotoli di scotch dal deposito del convento: basta applicare le striscioline sulla gamba e tirare con uno strappo netto per avere gambe (quasi) perfette. Ci si mette tantissimo tempo, ma non importa: loro di tempo ne hanno un’infinità. Si depila, si tinge, si trucca Lu, perché non ne vuole sapere di stare in convento. La vita la chiama. Vuole uscire, vuole fare l’amore con un uomo che conosce e che ama, che la riempie di promesse e di botte, che se ne infischia di lei. Ma Lu vive solo dentro ai suoi occhi, acquattata nel desiderio che lui mostra nei suoi confronti, anche se dura poco, anche se in fondo sa che non le servirà a cambiare vita, ma ci spera sempre, si inganna sempre, di continuo; perché ingannarsi di continuo è un modo per continuare a vivere. Lu è come la balorda e sbandata Mara di Caro Michele, il romanzo Natalia Ginzburg; la ragazza che dice di essere incinta del protagonista, anche se non è sicura, e in questa sua insicurezza c’è la levità di chi si fa ingannare dal mondo. Mara è la ragazza senza dimora né lavoro che si porta dietro il suo bambino da una parte all’altra della penisola, sperando di trovare prima o poi qualcuno che si prenda cura di lei.
E ritrovo questa stessa solitudine delle madri in altri libri di oggi, anche se in modi diversi. La apprezzatissima Guadalupe Nettel ha scritto un libro bello e terribile sulla maternità: La figlia unica. Laura che non vuole figli e si fa chiudere le tube, e poi Alina che invece prova di tutto per rimanere incinta e quando ci riesce, dopo pochi mesi, le danno la più terribile delle notizie: sua figlia non ha sviluppato il cervello in modo completo e dopo la nascita non sopravviverà se non allo stato vegetativo. La maternità si trasforma nel luogo del paradosso: quella stessa donna che aveva tanto desiderato un figlio ora si ritrova a desiderare che non rimanga in vita, perché sarebbe una semi vita, sarebbe durissima e piena di sofferenze. Quella di Nettel non è solo la storia di Laura, Alina e Doris, ma anche la messa in scena dell’antinomia che lega le donne all’idea del materno. Il desiderio di un figlio come imperativo biologico o istinto inalienabile e il desiderio della propria vita nella sua pienezza, della propria autorealizzazione: come se le due cose non si potessero mai incontrare, come se non ci fosse mai concesso di desiderare tutto, ma solo di scegliere e pentirci della nostra scelta.
In Maternal la contrapposizione è tra Lu e suor Paola, la giovane suora che culla e consola i bambini, soprattutto la figlia di Lu quando Lu scompare per inseguire la sua vita. La contrapposizione è il cortocircuito di un mondo chiuso, in cui da un lato c’è la maternità precoce delle ragazze e dall’altro quella assente delle suore. Come a dire quanto il materno sia complesso, pieno di contraddizioni, di allontanamenti e ritorni. Suor Paola con la bambina si toglie il velo, si fa vedere come donna, la stringe a sé durante la notte, devia dal percorso intrapreso, così come deraglia Lu che non dà più notizie di sé. E’ qui che, come tra le righe dei romanzi che mi tornano alla memoria, ogni donna è sola di fronte al materno e alla possibilità di plasmarlo secondo la propria visione del mondo. E questa solitudine, questo ripensare incessantemente al proprio ruolo spesso si trasforma in una guerra tra madre e figlio, tra madre e figlia.
Lalla Romano nel 1969 scriveva Le parole tra noi leggere con cui poi vinse il Premio Strega. Un libro poetico, un libro disperato che suona terribile: un’indagine amorosa sull’estraneità che divide lei e suo figlio, così analitica da sembrare l’autopsia di un rapporto. Per tutta la narrazione non chiama quasi mai per nome suo figlio, per tutta la narrazione è soprattutto un “lui”. L’indagine si avvale di tutte le prove: compiti in classe, disegni, poesie, frammenti di diario. Non c’è solo la memoria, ci sono i cassetti, gli armadi di famiglia. Lalla Romano ricompone per strati il proprio figlio. Succhiava il latte con ferocia poi lo rifiutava, scalciava nel ventre, era già in lotta, aveva uno sguardo nero lungo già in fasce; scriveva poesie, era moralista, magro col naso adunco, camminava sbandando tagliandole la strada, era dissacrante; l’unica affinità tra di loro era quel gusto per i fiori, gli stessi. “A cosa ti serve essere intelligente?” gli chiedeva lei. “A farmi compagnia con me stesso” rispondeva.
Lalla Romano cerca di leggere suo figlio come si farebbe con un libro, cerca le ragioni della loro incomunicabilità. “Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia”. Il libro in effetti è un accerchiamento. Anche se poi il vero oggetto dell’indagine è la madre: una donna che cerca sé stessa, la propria autenticità, forse la propria colpa. “Suo figlio non esiste, è una sua fantasia” le dice qualcuno, seminando il dubbio sulla parzialità dello sguardo, sulla lente deformante della letteratura. In questa solitudine di madri siamo lì a immaginarci i nostri figli, a volte cancellando gli atti più atroci come fa Carmen Totaro nel suo romanzo appena uscito: Un bacio dietro al ginocchio (Einaudi). Una madre, una figlia la loro incomunicabilità e un inizio verticale, con la madre chiusa in bagno, il gas acceso a simulare un tentativo di suicidio; un figlia fuggita, scomparsa, e la domanda solo sussurrata nel pensiero, il dubbio sulle intenzioni della ragazza; l’indicibile. Perché il rapporto tra madre e figlia è sovente quello di due solitudini che stridono e poi si riavvicinano, in un continuo scambio, una specie di marea che si alza e si abbassa tra amore e odio, rabbia e dedizione, dolcezza e crudeltà come ben sapeva la Francesca Sanvitale di Madre e figlia (1980), ma anche la Carla Cerati di quel libro lucido e bellissimo che è La cattiva figlia (1990).
La solitudine è nell’idea stessa di madre, perché idea da farsi e disfarsi di continuo lontano dagli sguardi esterni, dai giudizi, dalla tradizione. Ogni madre lo sa: bisogna riscriversi da capo, e la scrittura si fa nel silenzio, senza confusione intorno.
C’è una scena bellissima in Maternal. Le suore allestiscono una discoteca per le ragazze madri, che hanno bisogno di divertirsi, di scatenarsi, di vivere il dentro con qualche spiraglio del fuori. E così, a ritmo di musica e sotto luci colorate, vediamo queste giovani donne vestite per l’occasione dimenarsi sensuali, sotto lo sguardo dei loro bambini e delle suore ai lati della pista. Non c’è nessun altro, nessun invitato, è come una festa di famiglia. La festa si conclude con la distribuzione delle ostie in forma di patatine. Delpero non solo riflette sulla complessità del materno, ma anche sentirsi donne dentro a una visione totalmente maschilista: donne come oggetto del desiderio. La vita per Lu, e per altre come lei, esiste solo nel momento in cui ci sentiamo desiderate, volute da un uomo: le ragazze modellano i vestiti arrivati con le donazioni sulle proprie misure, e mentre cuciono fantasticano sull’incontro giusto, l’uomo che le porterà via con sé.
Racconta l’autrice irlandese Emilie Pine in Appunti per me stessa (Rizzoli), uscito da pochi mesi, della sua giovinezza sbandata, fatta di droghe, feste e amnesia di sé. Racconta di come sia difficile per molte ragazze sottrarsi al desiderio altrui. Il desiderio degli altri è inevitabile e ci si sottomette con un atteggiamento sacrificale, senza accorgersi della parzialità della visione e del fatto che ci sta auto-infliggendo millenni di subordinazione senza neanche saperlo.
Eppure anche un figlio può essere un oggetto del desiderio, certe volte fino all’accanimento, altre semplicemente oltre la propria coerenza, come capita a suor Paola. Diceva Natalia Ginzburg nelle Scarpe rotte – racconto delle Piccole virtù che la ritrae a Roma insieme all’amica Anna Zucconi a lavorare insieme in un appartamento sul progetto di una rivista – di sentirsi diversa dall’amica senza figli. C’è qualcosa che la fa sentire legata indissolubilmente ai propri bambini, è una limitazione della propria libertà, ma anche una salvezza per certi versi. Una madre resiste sempre alla tentazione di “buttare la vita ai cani”, di abbandonare la propria strada e il senso di sé. A differenza di Lu, suor Paola sembra saperlo, come lo sa il piccione nel libro di Guadalupe Nettel, che cova le uova del cuculo ben sapendo che non si tratta di un suo pulcino, ma rispondendo a qualcosa al quale non può sottrarsi.
In molti di questi percorsi la solitudine delle madri e dei figli sembra annullarsi nel momento in cui i figli vengono cresciuti e condivisi come si faceva una volta nelle grandi famiglie. I bambini dell’Hogar che sono bambini di tutti, anche delle suore. Il bambino di Marta in Caro Michele, perché di lui si interessano nelle loro lettere tutti i personaggi di quel libro bellissimo. I bambini di Lazzaro felice, il film di Alice Rohrwacher, nella loro famiglia allargata di contadini, dove quasi non si sa chi sia figlio di chi. La maternità in ogni sua forma, e in un senso più ampio, è il tema di questo secolo. Lo è quando si tratta di un dubbio come per Sheila Heti in Maternità, lo è anche quando Kazuo Ishiguro in Klara e il sole lo mescola ai temi dei corpi artificiali. Il materno è da sempre un tema universale, con la forza che hanno i temi universali di farsi incessantemente particolari. Abbiamo ancora bisogno di parlarne, perché sono le donne a cambiare nel tempo e a ritoccare la propria visione della vita e di loro stesse, a ribellarsi alla propria solitudine urlando quella solitudine, riempiendola di nuovi significati e sfumature. Scrive Anne Enright, la grande scrittrice irlandese: “Ciò che mi interessa non è il dramma di essere un bambino, bensì quello di essere una madre”.