Le eroine non devono morire. Un podcast salva Madame Bovary
La prima puntata di “Vive!” condanna alla noia pure Flaubert. Letteratura e rivendicazioni a sfondo morale continuino a stare separate. Ciò che un lettore chiede a un libro e al suo narratore è soprattutto la meraviglia del racconto
A Madame Bovary ne hanno fatte tante. Non parliamo degli inaffidabili corteggiatori Rodolphe e Leon, né del marito noioso e inetto, né del merciaio che la spinge a comprare quel che desidera, pagherà in comode rate. Parliamo di chi ha riscritto il romanzo di Flaubert dalla parte del marito tradito (Jean Améry o Laura Grimaldi, entrambi decisi a rivalutare il modesto dottore di campagna). O di Woody Allen, che in un racconto regala a Madame Bovary un nuovo corteggiatore, un professore di Letteratura in cerca di romanticismo. Finisce non si sa come nel romanzo, per lo stupore degli studenti: “Chi è l’ebreo pelato che a pagina cento bacia Madame Bovary?”. O di “Gemma Bovery”, il moderno fumetto di Posy Simmonds.
Altrettanti omaggi, che non avevano ragione diversa dalla letteratura. Prima del romanticismo, con il suo dannato carico di autenticità e originalità, le storie si scrivevano e riscrivevano. Si ribaltavano. Si tiravano fuori dall’“Amleto” di Shakespeare due personaggi come Rosencrantz e Guildenstern, amici del pallido principe di cui alla fine della tragedia viene annunciata la morte, senza che si fossero fatti notare prima.
Letteratura, non rivendicazione. Ma siccome le buone intenzioni rovinano ogni cosa che toccano, dopo una “Carmen” fiorentina con finale vittorioso (per Carmen, crepi Don José, così volle il regista Leo Muscato), arriva il podcast “Vive!”. Eroine della letteratura che non vanno più incontro alla morte, come voleva lo scrittore che le ha inventate, ma felici corrono incontro a un nuovo destino. Prima vittima della resurrezione, Madame Bovary che tanta fatica costò a Gustave Flaubert: avanzava poche righe per volta, cancellava, si tormentava. Seguiranno le puntate dedicate a Didone, Anna Karenina, Ofelia, Francesca da Rimini (i crediti: scrive Alessandra Sarchi, producono storielibere.fm e il Piccolo Teatro di Milano, in collaborazione con il Corriere della Sera).
La tesi è che i romanzieri – tutti maschi – costringano le loro eroine alla morte, meglio se tra atroci tormenti, onde colpire l’immaginazione del lettore, ricavandone fama e si spera ricchezza. Non è una gran scoperta, neanche originale. Edgar Allan Poe aveva già confessato, per tutti quanti: “Una bella fanciulla morta è il tema più poetico che ci sia”. Flaubert è il primo nella lista dei torturatori, indugia a descrivere i tre strati della bara, così come era a tre strati la torta di nozze.
L’aveva notato Vladimir Nabokov nelle sue “Lezioni di letteratura”, mentre osservava stupefatto i suoi studenti universitari che leggevano “Madame Bovary” commuovendosi per la sua triste sorte da casalinga inquieta. Dimenticando che non abitava nel pianerottolo accanto, l’aveva creata Flaubert con le sue sole parole. Aveva il diritto di darle il destino che voleva: il nostro diritto di lettori è apprezzare la meraviglia del racconto. Le letture edificanti stanno da un’altra parte, nella loro noiosa abbondanza.
E invece no. Tutto deve essere risarcimento e rivendicazione. Madame Bovary nel podcast “Vive!” prende penna e inchiostro (nero come l’arsenico sulle sue labbra), e scrive a Flaubert una lettera: “Voglio dirti quanto sei stato crudele: volevi che il mio cadavere perseguitasse il lettore, mi hai fatto intelligente e insieme ottusa” (come se fosse facile). Finite le lamentele, decide che sarà lei a raccontare la propria storia: “Mi saranno sorelle tutte le donne che hanno preso in mano la penna per raccontare la loro vita vissuta”. Eccome no, ci voleva anche quest’altra sciagura nel mondo: la convinzione che ogni donna arrabbiata, seduta a tavolino con la sua lista dei torti, sappia scrivere come Gustave Flaubert.