Foto: Maximilian Scheffler

La nebulosa anticapitalista svilisce Marx e Freud sproloquiando sul nulla

Alfonso Berardinelli

Le vuote supposizioni sulla relazione fra psicoanalisi e politica: l’ultimo esempio arriva dall'Argentina, con il pamphlet di Jorge Alemán che di efficace ha solo il titolo

Poveri Marx e Freud! Due pensatori così sobri, scettici, empirici prima che teorici, che ora vengono evocati e politicamente impugnati da nuovi anticapitalisti con l’immancabile aggiunta (rinfrescante? annacquante?) di Heidegger e Lacan, due eminenti impostori che giocano con le tre carte dei loro vacui non-concetti o feticci terminologici passe-partout. Esiste internazionalmente un gruppo, o tendenza, o scuola teorico-politica che imperversa, soprattutto nelle università, con le sue sbilenche costruzioni e i suoi patchwork bibliografici i cui pilastri sono da un lato il mostro capitalistico o impero del male hobbesiano e totalitario, e dall’altro il fantasma o mito di una alternativa radicale e globale, ontologica e comunisteggiante, neo-utopica e gestuale, in cui l’atto puro sovversivo, alternativo in essenza, fa balenare di continuo non il crollo, ma la dissoluzione istantanea del capitalismo con tutti i suoi “apparati” e “dispositivi”. Per criticare questa nebulosa culturale, credo che siano sufficienti un po’ di senso del ridicolo e una certa renitenza alle infatuazioni.

 

I primi attori in scena che recitano queste spettacolari teorizzazioni sono stati Toni Negri e Alain Badiou, Slavoj Zizek e Agamben. Ma vedo che qua e là ne compaiono sempre di nuovi: seguaci, adepti, replicanti, che a volte, secondo i gusti, aggiungono sostanziali riferimenti a Foucault o a Deleuze o ad Althusser (siamo sempre e immancabilmente nell’inebriante Parigi 1960-1980): varianti necessarie a riattualizzare Marx sottraendolo al marxismo, ai vari marxismi, a volte anche freudiani, del Ventesimo secolo. Vedi Horkheimer, Adorno, Marcuse.

 

L’ultimo esempio di cui vengo a sapere è l’argentino Jorge Alemán: è appena uscito un suo pamphlet intitolato “Capitalismo. Crimine perfetto o emancipazione” (Castelvecchi editore, pp. 120, euro 15). La cosa migliore del libro è il titolo, ma purtroppo è solo una promessa non mantenuta. Vi si trova un ulteriore concentrato della nuova religione, una specie di anarchismo mistico-comunitario, ma astratto, molto astratto.

 

Nella volontà di superare la classica sinistra novecentesca, non vengono esclusi Marx e Freud, la cui patriarcale autorità conquistata sul campo fa sempre comodo. Salvo aggiungere a Marx una buona dose di Heidegger, nazista mascherato da neometafisico, e a Freud il più incomprensibile e illusionistico degli psicanalisti, Jacques Lacan, il cui utilizzo politico appare assai dubbio. Ecco un esempio piuttosto scoraggiante della prosa di Alemán: “Nella relazione psicoanalisi-politica, si stabilisce un legame tra termini costituiti in modo tale che questa congiunzione si presenta in modo instabile, i cui pezzi non combaciano. La psicoanalisi e la politica sono campi che saranno sempre aperti a molteplici congetture. Per questo motivo, piuttosto che avanzare spiegazioni che tendono a inglobare entrambi, dovremmo cercare di capirli in termini di collisioni, scontri o impatti che propiziano il luogo di nuovi interventi teorici […] è importante e interessante nella sequenza psicoanalisi-politica che precisamente non sia intesa come una relazione di complementarità. In questo modo, l’esercizio è particolarmente fecondo quando la posta in gioco all’orizzonte non è altro che la costruzione di un’ipotesi di emancipazione” (p. 7).

 

Provo a tradurre. Che cosa sia emancipazione non viene detto, e in più non si tratta che di un’ipotesi. Non basta: è un’ipotesi ancora da costruire. Dunque, per ora, quasi niente. Tutto è fin dall’inizio teoricamente instabile. Si tratta solo di congetture: e in più molteplici. Insomma, si parla di psicanalisi-politica: ma fra i due termini o campi c’è collisione e scontro. Cioè? Stanno insieme o no? La relazione di complementarità non c’è e non deve esserci, ma sarà fecondo cercarla. Qualche pagina dopo si legge questa definizione: “L’aspetto specifico e determinante del neoliberalismo consiste nell’essere il primo regime storico che cerca con tutti i mezzi di raggiungere il fondamentale e primo dominio simbolico, raggiungendo i corpi e catturandoli attraverso la parola nella loro dipendenza strutturale”.

 

Formule come “primo dominio simbolico” e “dipendenza strutturale” alludono al mondo di una teoria generale della società, se non a un’antropologia nuova attraverso nuovi simboli, a cui si aggiunge una “cattura dei corpi”. Essere generici è qui, insomma, un metodo, il metodo. Una nuova teoria del capitalismo non si vede. Né si vede una teoria dell’emancipazione. Niente, propriamente, si vede. Di tutto, generalmente, si parla. O meglio: si fa l’ipotesi instabile di parlarne. Il lettore rimane intellettualmente e politicamente in sala d’aspetto. E a un certo punto se ne va. L’oratore intanto continua a parlare.
 

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