il foglio del weekend
Un Gulag mentale
Dai sovietici ai nordcoreani, la battaglia contro il politicamente corretto in America è portata avanti anche da chi è fuggito dai regimi comunisti
“Come in Urss la censura è giustificata dal bene superiore. Allora la Rivoluzione mondiale, oggi la Giustizia sociale”, scrive la scienziata della California University Anna Krylov
Nel 1976, sul New York Times, il celebre linguista dell’Mit Noam Chomsky denunciò la sorte di un dissidente in Unione Sovietica: “Il noto linguista russo Igor Mel’cuk è stato licenziato dall’Istituto di linguistica di Mosca, dove ha lavorato negli ultimi vent’anni. Mel’cuk è stato attaccato per la sua difesa di altri cittadini sovietici, inclusi Daniel e Sinyaysky. Come membri della comunità internazionale dei linguisti ci sentiamo in dovere di esprimere la nostra grande preoccupazione”. Mel’cuk oggi fa il linguista a Montreal, in Canada, ed è molto preoccupato da quello che vede nelle università che lo accolsero dopo l’esilio in America. “Ho passato metà della mia vita nell’ex-Urss come ricercatore all’Accademia delle Scienze”, ha scritto sul Wall Street Journal. “Ho vissuto il Grande Terrore e la mia esperienza mi permette di vedere le inevitabili conseguenze dell’assalto odierno alle istituzioni della repubblica americana: la loro irreparabile distruzione. La folla che avanza non si occupa di difendere i diritti delle minoranze: vuole il potere”.
Gli esuli europei hanno sempre occupato una posizione privilegiata nel valorizzare la fragilità e la bellezza della libertà di espressione e di pensiero. Lo studioso del più grande degli imperatori tedeschi medievali Federico II di Svevia, lo storico Ernst Kantorowicz, non ebbe altra scelta che lasciare la Germania nazista nell’annus horribilis 1939. Non bastava che la sua grande biografia sull’imperatore fosse piaciuta al ministro Goebbels. Kantorowicz era ebreo e doveva andarsene. Ottenne la cattedra di Storia medievale a Berkeley, dove, pur anticomunista, in piena temperie maccartista Kantorowicz si rifiutò di firmare il giuramento di anticomunismo perché aveva in orrore un simile giogo intellettuale. Fu licenziato e trovò lavoro a Princeton grazie all’intercessione del fisico Robert Oppenheimer.
Sempre a Berkeley un altro esule, Czeslaw Milosz, quello della “Mente prigioniera”, qualche anno dopo rifiuterà un altro tipo di giogo. “L’atmosfera nelle università americane è modellata dai rivoluzionari del Sessantotto. Ora sono diventati professori, ma nel frattempo non hanno fatto molti progressi. Berkeley è pieno di questi bizzarri fossili. In questi giorni devi essere ‘politicamente corretto’, il che significa che devi essere dalla parte dei neri, contro il razzismo, per tutto ciò che è progressista”.
Alla domanda su quali fossero le differenze e le somiglianze tra la repressione sovietica e il politicamente corretto in stile occidentale, il dissidente Vladimir Bukovsky rispose nello stile del suo celebre galateo: “Stanno diventando sempre più simili. La maggior parte di questa merda ha avuto origine nei campus degli Stati Uniti. Ero a Stanford a metà degli anni Ottanta e guardavo con stupore come esplose il politicamente corretto. Ho sempre incolpato della censura persone come Stalin o Beria, ma ora ho capito che anche molti intellettuali la vogliono! Vorranno sempre essere oppressori perché fingono sempre di essere oppressi”.
Oggi a combattere il politicamente corretto in America ci sono molti esuli dai regimi comunisti, come l’ex refusnik sovietico Nathan Sharansky, che in un lungo saggio qualche mese fa ha spiegato che il politicamente corretto è nato in Unione Sovietica. Vedono il condizionamento ideologico, la proscrizione di un numero di parole, l’obbligo di celebrare l’ideologia anche quando la realtà la sconfessa, la partecipazione a rituali di odio pubblico, la denuncia di chi contraddice i diktat e, pur nell’evidente differenza fra un sistema che uccideva e uno che al massimo ti cancella, sono atterriti dalle somiglianze.
“Clarissa” è una professoressa emigrata negli Stati Uniti pochi anni prima della caduta dell’Unione Sovietica. Non usa il suo vero nome, perché teme ritorsioni professionali, nel curare un blog dove pubblica alcuni dei più grotteschi diktat accademici “woke”. “C’era una pratica in Unione Sovietica in cui si diceva alle persone di riunirsi in gruppi di lavoro e scrivere lettere al giornale per denunciare poeti o artisti famosi” ha detto Clarissa. “Lo vediamo oggi su Twitter. La gente lo adora perché permette a una piccola persona di distruggere completamente qualcuno che ha fatto qualcosa di grande. In Unione Sovietica, quando ero giovane, il cinismo era ovunque. Nessuno credeva in niente. Pensavo che il cinismo fosse la cosa peggiore del mondo. Non è. La cosa peggiore del mondo è la mancanza di cinismo e di differenza critica, l’accettazione di tutto in modo acritico. Queste persone oggi credono davvero a tutta questa ideologia woke. Ed è questo che fa davvero paura”.
C’è invece chi ci mette il nome. Come un grande matematico nato nella Romania di Ceausescu da una famiglia ebraica comunista nel 1950, Sergiu Klainerman (è uno dei “geni” del Premio MacArthur). Oggi Klainerman, dalla sua cattedra a Princeton, è impegnato in una battaglia non con i numeri, ma a difesa della libertà di parola.
Il chimico Tomas Hudlicky, che arrivò in America dalla Cecoslovacchia comunista, è un famoso professore universitario in Canada. Ha scritto un saggio per Angewandte Chemie, il più importante giornale al mondo di chimica, dove ha criticato le quote riservate alle minoranze nel mondo della ricerca come “antiscientifiche” e non meritocratiche. Risultato? Articolo rimosso, scuse della rivista e un terzo dei membri del comitato internazionale (che include molti Nobel) dimessi. “L’assunzione di pratiche che suggeriscono o impongono l’uguaglianza è controproducente se si traduce in discriminazione nei confronti dei candidati più meritevoli”, aveva scritto il chimico. Le poche parole di solidarietà al professore sono arrivate dalla Repubblica Ceca. Jan Konvalinka, vice rettore dell’Università Carolina a Praga, ha detto che la famiglia di Hudlicky è “sfuggita alla Cecoslovacchia comunista e ha costruito la sua casa nel libero occidente. Sarebbe ironico e preoccupante se le stesse forze di censura e intolleranza che costrinsero Hudlicky a uscire dalla sua terra natia lo mettessero a tacere in Canada”. Derek Lowe su Sciencemag ha paragonato il trattamento di Hudlicky a quello degli scienziati sotto il nazismo.
Il saggio definitivo sul “woke” è stato pubblicato lo scorso autunno sul giornale russo Novaya Gazeta a firma di Yulia Latynina, scrittrice e giornalista russa nota per essere una critica di Putin ed erede di Anna Politkovskaja. Latynina lo ha chiamato “socialismo infantile”. Usa il linguaggio “delle epurazioni di partito e dell’autoflagellazione pubblica nella Cina maoista”. Presto nessuna azienda potrà fare a meno dei servizi di questi preziosi specialisti della “diversità”, “proprio come l’Armata Rossa non poteva combattere senza i commissari politici”. E’ il “meraviglioso nuovo mondo del socialismo woke”.
Nei giorni scorsi sul Journal of Physical Chemistry Letters è apparso il saggio di una scienziata nata in Unione Sovietica e che oggi insegna all’Università della California (è una delle principali ricercatrici di quantistica molecolare). “Sono diventata maggiorenne durante un periodo relativamente mite del governo sovietico, dopo Stalin” ha scritto Anna Krylov. “Eppure, l’ideologia permeava tutti gli aspetti della vita e la sopravvivenza richiedeva una stretta aderenza alla linea del partito ed entusiastiche dimostrazioni di comportamento ideologicamente corretto. Leggere il libro sbagliato (Orwell, Solzhenitsyn, ecc.), o anche un libro di poesia che non era nella lista approvata dallo stato, poteva metterti nei guai”.
Krylov stabilisce un paragone fra la cappa ideologica che ha vissuto in Unione Sovietica e l’attuale politicizzazione della vita scientifica e culturale in Occidente. “I comitati ideologici erano alla ricerca di individui il cui sostegno al regime non era sufficientemente entusiasta. Non era raro essere puniti per essere stati troppo silenziosi durante le assemblee politiche o per essersi presentati in ritardo alle celebrazioni di massa (come le manifestazioni di maggio o novembre). Una volta ho ricevuto un avviso per aver promosso un’agenda imperialista presentandomi in jeans a un evento scolastico”. Avanti veloce fino al 2021, un altro secolo. “La Guerra fredda è un ricordo lontano e il paese indicato sul mio certificato di nascita e sui miei diplomi scolastici e universitari, l’Urss, non è più sulla mappa. Ma mi ritrovo a vivere la sua eredità a migliaia di chilometri a occidente, come se vivessi in una zona d’ombra orwelliana. Sono testimone di tentativi sempre maggiori di sottoporre la scienza e l’educazione al controllo ideologico e alla censura. Proprio come ai tempi dell’Unione Sovietica, la censura è giustificata dal bene superiore. Allora era la Rivoluzione mondiale, nel 2021 è la ‘Giustizia Sociale’. Come in Urss, la censura è imposta con entusiasmo anche dal basso, dai membri della comunità scientifica, le cui motivazioni variano dall’idealismo ingenuo alla cinica presa di potere. Oggi ci viene detto che il razzismo, il patriarcato, la misoginia e altre idee riprovevoli sono codificate in termini scientifici, nei nomi delle equazioni e nelle semplici parole. Ci viene detto che per costruire un mondo migliore e per affrontare le disuguaglianze sociali, abbiamo bisogno di epurare la nostra letteratura dai nomi delle persone il cui curriculum non è all’altezza degli alti standard degli autoproclamati portatori della nuova verità, gli ‘Eletti’. Ci viene detto che dobbiamo riscrivere i nostri programmi e cambiare il modo in cui insegniamo e parliamo”.
Krylov vede oggi all’opera una “caccia ai fantasmi in stile sovietico” che riguadagna terreno. “Nuove parole vengono cancellate ogni giorno e ho appena saputo che la parola ‘normale’ non sarà più usata sulle confezioni di sapone Dove perché ‘fa sentire la maggior parte delle persone esclusa’. E’ in gioco il nostro futuro. Come comunità, siamo di fronte a una scelta importante”.
Due anni fa nel Vermont, lo stato più liberal d’America (del senatore Bernie Sanders) e bastione della controcultura progressista, il Middlebury College invitò il filosofo polacco Ryszard Legutko. Seguendo il solito schema, gli studenti lanciarono una petizione accusando Legutko di “xenofobia, razzismo, misoginia”. E hanno chiesto al dipartimento di Scienze politiche di annullarne la conferenza. Tre ore prima del discorso di Legutko, l’ateneo gli ha inviato una email dicendo che la sua presenza non era più necessaria e che era stata cancellata la conferenza a causa di “potenziali rischi per la sicurezza”. “Durante i giorni del totalitarismo comunista, gli studiosi dell’occidente si sono recati nelle nazioni del blocco orientale per tenere lezioni e seminari clandestini”, ha detto Keegan Callanan, che dirige il Forum Alexander Hamilton e che aveva invitato il politico polacco. Ora un intellettuale del movimento dissidente polacco Solidarnosc come Legutko, responsabile intellettuale di Solidarnosc e direttore del celebre samizdat (rivista clandestina, ndr) Arka, non è benvenuto negli atenei americani. Dopo il disinvito formale, Legutko viene chiamato a parlare dal professore Callanan su suggerimento di un gruppo di studenti che non volevano ripetere l’incidente di Murray. Venne introdotto di nascosto nell’auto di uno studente del campus ed è entrato nell’edificio attraverso la porta sul retro. Quando stava uscendo dalla stanza, il capo della sicurezza avvicinò Legutko, offrendogli una uscita sicura dal campus. “Demons in democracy” è il libro in cui Legutko traccia un parallelo fra il conformismo sotto i sovietici e quello odierno.
“Vi stanno costringendo a pensare nel modo in cui vogliono che voi pensiate. In America ho visto così tante somiglianze con quello che ho visto in Corea del nord che ho iniziato a preoccuparmi”. A parlare così nei giorni scorsi è stata la più famosa disertrice nordcoreana, Yeonmi Park, di cui in Italia Bompiani ha pubblicato “La mia lotta per la libertà”. Ha frequentato la Columbia University ed è stata immediatamente scioccata da ciò che ha visto in classe, il sentimento anti-occidentale e il politicamente corretto, che le ha fatto pensare “che neanche la Corea del nord è così matta”. Non poteva credere che le sarebbe stato chiesto di “censurarmi così tanto” in un’università negli Stati Uniti. “Ho letteralmente attraversato il deserto del Gobi per essere libera e ho capito che non lo sono libera davvero”. Andando alla Columbia, la prima cosa che ha imparato è stata “spazio sicuro”, ha raccontato Park. “Ogni problema, ci hanno spiegato, è a causa degli uomini bianchi”. Alcune delle discussioni sul privilegio dei bianchi le hanno ricordato il sistema delle caste nel suo paese natale, dove le persone venivano classificate in base ai loro antenati. E’ stata rimproverata per aver detto che le piacevano gli scritti di Jane Austen. “Ho detto ‘amo quei libri’. Ho pensato che fosse una buona cosa”. Ma le hanno detto: “Sapevi che quegli scrittori avevano una mentalità coloniale? Erano razzisti e bigotti e ti stanno inconsciamente facendo il lavaggio del cervello’”. Anche in Corea del nord gli studenti erano abituati a tacere. “Mia madre mi aveva insegnato a non sussurrare nemmeno, perché gli uccelli e i topi potevano sentirmi. Mi disse che la cosa più pericolosa che avevo nel mio corpo era la mia lingua. Quindi sapevo quanto fosse pericoloso dire cose sbagliate in un paese”. E’ triste, Yoemni, nel vedere come l’America pensa di essere un paese ingiusto e razzista. “E’ incredibile, ma non so perché le persone stiano impazzendo collettivamente”.
All’inizio abbiamo citato il dissidente russo Andrej Siniavskij. Nel 1975 rilasciò una intervista alla Rai, che fu impietosamente tagliata da Enzo Forcella. Era troppo forte l’anticomunismo dello scrittore che aveva portato in spalla la bara di Boris Pasternak. E Siniavskij commentò: “Liberarsi da una censura per finire sotto un’altra, che strano destino!”. Ci risiamo.