Il Foglio arte
A Venezia, la Biennale di architettura tra moralismi e noia
La rassegna non comunica alcun senso di urgenza e non sorprende. Un tuffo nel passato e il dubbio: è sempre necessaria una mostra di architettura?
"Le esposizioni e le mostre hanno cambiato il carattere dell’architettura americana degli ultimi quarant’anni probabilmente più di qualsiasi altro fattore”, ha affermato Alfred Barr, primo direttore del Museum of Modern Art a New York, nell’introduzione al catalogo della celebre mostra “Modern Architecture” del 1932. Quasi un secolo dopo, nell’era di un vero e proprio boom di mostre, assistiamo a un crescente scetticismo verso la capacità di questo medium di essere uno spazio di sperimentazione e di comunicazione del nuovo. Tolta questa funzione, sempre più spesso assolta dal virtuale, ci domandiamo: oggi, le mostre di architettura a che cosa servono?
L’ultima Biennale di Venezia purtroppo non fa che confermare questa istanza. Inaugurata al pubblico il 22 maggio, s’intitola come un involontario omaggio al movimento moderno. Nonostante le ovvie assonanze del “How do we live together?” con le grandi questioni sull’abitare del XX secolo, oggi rinforzate dalla pandemia, la mostra, sia nello statement curatoriale, che nella sua esecuzione spaziale, non comunica nessun senso di urgenza e non sorprende con delle risoluzioni acute. Presentata come una serie di ricerche e riflessioni un po’ accademiche e spesso moralistiche, riferite ai nuovi dogmi del political correct degli ultimi cinque anni, risulta anche priva di un ragionamento spaziale. A parte qualche rara eccezione, il Padiglione Centrale e i lunghissimi 300 metri dell’Arsenale lasciano uno strano senso di noia, suscitando una forte perplessità sulla necessità di una manifestazione del genere.
Le mostre di architettura sono una prassi molto recente in confronto alla lunghissima storia del costruire. La nascita delle mostre nel senso in cui le conosciamo oggi è attribuibile agli anni Venti, cioè all’inizio del movimento moderno. Ma è con la sua storicizzazione e il suo ingresso nelle collezioni museali a partire dalla fine degli anni Sessanta, che si ha una vera diffusione delle mostre d’architettura. Se gli allestimenti della prima metà del secolo si distinguono per la ricerca di dispositivi innovativi per celebrare la nuova architettura, traendo ispirazione anche dalla pubblicità e dalle vetrine commerciali dei department stores, le esposizioni del dopoguerra introducono un cambio di tono.
Il mutamento del contesto politico e sociale dopo il 1968 genera una crisi disciplinare e una conseguente necessità per gli architetti di rimettersi in discussione. Gli eventi espositivi diventano lo strumento principale per riflettere in maniera più o meno diretta sulle forze politiche ed economiche dietro alla produzione architettonica. Sono viste non solo come luoghi di esibizione, ma anche come occasioni di dibattito e, in casi estremi, di critica e protesta (si pensi alla XIV Triennale) trasformandosi spesso in contesti per tali dibattiti, dove gli oggetti esposti e l’allestimento fanno parte della stessa istallazione immersiva. La spettacolarizzazione degli allestimenti di questi anni coincide con la progressiva affermazione del neoliberalismo, conformandosi alle aspettative della società dei consumi. Esattamente ciò che molti architetti cercavano di mettere in discussione.
È interessante che proprio questo clima di incertezza porti alla decisione di inaugurare la prima Biennale di Architettura a Venezia nel 1980. Diretta da Paolo Portoghesi e intitolata “La presenza del Passato”, la mostra critica l’incapacità dell’architettura contemporanea di essere compresa dalla “gente comune” cercando di ripensare il rapporto con la storia. Questo presupposto curatoriale produce diverse interpretazioni, la maggior parte delle quali si traducono nella legittimazione del gioco stilistico storicista, istituzionalizzando il linguaggio del postmodernismo, mentre l’insieme della mostra inaugura la lunga stagione della spettacolarizzazione dell’architettura. I due misfits al tono generale della “Strada nuovissima”, la più scenografica e criticata parte della mostra, composta da una sequenza di facciate d’autore (commissionate agli architetti internazionali), furono le istallazioni di Frank Gehry e OMA. Gehry presentò una struttura in legno, semplice e leggera, un omaggio alla tradizione americana del balloon frame (anche il tema del padiglione degli Stati Uniti di quest’anno), mentre OMA, al posto di una facciata in stile, appese un telo astratto e traslucido. Dichiarata sovversivamente “un’anti-facciata”, rappresentava un richiamo alla nuova sobrietà in contrasto all’atteggiamento storicista prevalente. Dietro alla stoffa, un allestimento sui primi progetti di “preservation” di OMA che anticipò quello che diverrà una grande ricerca sul complesso rapporto con la storia, che culminerà nella mostra “Cronocaos” alla Biennale del 2010.
Possiamo criticare oggi la spensieratezza dell’esposizione e l’effetto fiera, sicuramente calcolato, ma, nonostante questo, la “Strada nuovissima” riuscì a costruire una complessità tematica, traducendola in un’istallazione efficace che si confrontasse in modo critico con lo spazio dell’Arsenale. Intesa come un modo di pensare tramite l’architettura, e non solo dell’architettura, fu in grado di trasformare le idee e gli oggetti esibiti in un eccesso di significato e in un’esperienza forte.
Sappiamo che la condizione dell’architettura come oggetto espositivo è sempre ambigua. Da un lato l’architettura, intesa come l’edificio (l’originale), è sempre assente dalla mostra, e, in quanto assente, viene rappresentata tramite altri dispositivi (disegni, modelli o istallazioni). Dall’altro lato, il confine tra l’architettura in mostra e l’architettura della mostra non è mai ovvio e andrebbe ridefinito a ogni esibizione. Secondo lo storico dell’architettura Jean-Louis Cohen, c’è una differenza fondamentale tra una mostra d’arte e una mostra di architettura. Mentre la prima espone l’opera stessa (l’oeuvre), la mostra di architettura si focalizza sull’insieme del progetto, sulla sua rappresentazione e sul lavoro intellettuale che c’è dietro (l’ouvrage). Questa distinzione, fatta all’interno di una discussione con Rosalind Krauss per la rivisita October del 1999, sospende le perplessità che hanno accompagnato le mostre d’architettura da un secolo.
In effetti, le mostre che lavorano sul superamento di questa dicotomia, sul confine tra l’architettura e la sua rappresentazione, che concettualizzano criticamente il contenuto esposto e il suo allestimento, generano il surplus di conoscenza e di esperienza che danno un senso alla visita. Oggi, quando lo spazio disciplinare è sempre più eroso e il mandato dell’architettura continua a essere minato da una molteplicità di forze, gli architetti si trovano ad applicare il pensiero e metodo progettuale non solo agli edifici, ma alla città e all’ambiente in senso più vasto, compreso lo spazio virtuale. Questa smaterializzazione del soggetto ha comportato la necessità di un ulteriore ragionamento su come comunicare alla “gente comune” le nuove urgenze e i temi dell’architettura. Come tradurli in maniera chiara e comprensibile nello spazio fisico senza scadere nelle ricette del passato?
A mio avviso, sono state poche le Biennali di architettura che ci sono riuscite. Tra le più recenti, “Fundamentals” e in particolare, la sezione “The Elements of Architecture” di AMO e Rem Koolhaas (2014), concepita come una riflessione sull’impasse attuale della disciplina a partire da 15 componenti basilari di un edificio (porta, finestra, soffitto, pavimento, ecc), e allestita nello spazio del Padiglione centrale come un archivio immaginario. Forse un altro esempio paradossalmente preciso è l’istallazione fallita di Junya Ishigami “Architecture is Air” alla Biennale del 2010. Secondo la leggenda, a causa dell’intervento imprevisto dei gatti dell’Arsenale la notte prima del vernissage, l’istallazione è crollata, trasformandosi in un intreccio invisibile di fili di carbonio sparsi a terra. Incompresa dai visitatori, l’istallazione virtuale (nel senso più letterale del termine) riceverà comunque il Leone D’oro, e rimarrà nella storia non solo come sfida all’aria “strutturale” e al vuoto, ma anche come una provocazione involontaria che esprime le contraddizioni dello stato della disciplina con un’efficacia che “How we live together” non ha saputo raggiungere.