il foglio del weekend

Un decennio italiano e allegro nello specchio dell'arte

Maurizio Crippa

Il passaggio dagli anni Settanta della politica a un clima sociale diverso. Visto prima e in profondità

“Stanno chiudendosi adesso non solo gli anni Settanta, ma dieci/undici/dodici anni di Creatività, non solo letteraria”, scriveva Alberto Arbasino nel 1980, giustamente messo in evidenza (bold) da Luca Massimo Barbero in apertura del suo saggio curatoriale in catalogo: “Gli anni Ottanta iniziano negli anni Settanta”. Si chiedeva Arbasino che giudizio sarebbe rimasto di quel decennio-dodicennio (“decennio lungo”, si potrebbe dire per fare il verso a Hobsbawm). Del resto persino uno come Arbasino era già in ritardo, nel 1980. Per la generazione della contro-cultura giovanile (“il Tutto a buon mercato, e il Nulla a carissimo prezzo”, chiosava lo scrittore) il dodicennio dei Settanta era finito il 14 giugno 1979 all’Arena di Milano, nel concerto-funerale per Demetrio Stratos che fu il funerale di un’epoca. E Achille Bonito Oliva aveva già forgiato, appellandosi alla forza della Transavanguardia, il senso di un passaggio molto più che cronologico. Luca Massimo Barbero, curatore alle Gallerie d’Italia di questa mostra ambiziosa, di idee, spiega subito che gli anni Ottanta (dell’arte italiana) non solo erano iniziati prima, ma erano in realtà già finiti (o si potrebbe dire compiuti, giunti all’età adulta) nel 1982, nell’83. Del resto di lì a poco sarebbe uscito anche il più bel supplemento culturale di quei decenni che stabiliva già in testata, già nel 1985, che si era a  “Fine secolo”. Per dire quanta fu la portata storica, culturale, e perché no esistenziale, della cesura di quel decennio: gli Ottanta.


In verità nessuno può dire se gli anni Ottanta (dell’arte, della moda) fossero già chiusi o invece aprissero, quando Fiorucci invitava tutti, domenica 9 ottobre 1984, nel suo negozio in San Babila a vedere i suoi “walls” illustrati da Keith Haring. E non era accaduto mai. Più semplicemente, era iniziato qualcosa di importante. Si era entrati tutti, chi di forza chi precipitato chi risucchiato dal vortice, nel pieno del decennio liberato. L’ultimo (l’unico) decennio liberato, quasi felice, italiano. Lo si dica con prudenza: è il decennio che iniziò alla stazione di Bologna e con la fine solo provvisoria degli anni di piombo, e non tutto andò poi bene. Ma era anche il decennio che nasceva con una musica diversa, la voglia di ballare e di andare a la playa solo per il gusto di farlo, con il Mundial Rossi-Tardelli-Altobelli e la televisione invadente (ma con l’invenzione liberatoria dello zapping), con la cultura alta mescolata a quella bassa (o giù di lì).

 

Di tutto questo – e dei riti liberatori, apotropaici, arcitaliani che segnarono i nostri anni Ottanta – ovviamente non si occupano la mostra né tantomeno le riflessioni e ricostruzioni dei saggisti in catalogo.  La sezione saggistica – il corpo centrale – dell’ottimo catalogo edito da Gallerie d’Italia / Skira per la mostra “Painting is back.” (col punto) si apre proprio con un titolo avvertenza: “Come non dedicare questo volume agli eroi mitici e ignoti degli anni Ottanta”. I “polimorfi e vitali anni Ottanta, quelli in cui esplose il “ritorno alla pittura” come “un ritorno alla ‘felicità del dire’ alla felicità e alla capacità rapace di riportare all’interno dell’opera tutta la pittura come contemporanea”, sono una grande scoperta, per chi non c’era e per chi era distratto. Sono gli anni di “una risposta al diktat del decennio precedente”, di pittori liberati dalla “costrizione del dover dire” che maturarono, con buon anticipo sui tempi, la percezione di un grande mutamento. Chia, Clemente, Cucchi erano già nella mostra “Europa 79” a Stoccarda, che preannunciava un fervore iniziale. Bonito Oliva scriveva lo stesso anno che “la trans-avanguardia ribalta l’idea di un progresso dell’arte tutto teso verso l’astrazione concettuale”. Iniziava un (breve) decennio felice per l’arte, in cui la creatività pura si riprendeva il posto suo, senza più sottoporsi al giudizio politico. 


Per chi voglia approfondire la bellissima mostra curata da Barbero, c’è un catalogo particolarmente ricco, c’è la Napoli culla della nuova arte che diventa terra naturale d’elezione per artisti rabdomanti come Andy Warhol. Ci sono le Biennali che, proprio dal 1980, registrano come sismografi il grande terremoto che aveva riportato l’arte italiana al centro del mondo. Ma si può anche saperne meno, come visitatori tranquilli alle Gallerie d’Italia, e farsi sorprendere da una libertà evidente, da una massa esplosa di colori, di gialli e rossi e verdi, di figure e di paesaggi e di giochi e rimandi. Una serie di inciampi, di rimbalzi, che colgono in pieno quello che Barbero e la mostra non hanno bisogno di stare a spiegare: gli anni Ottanta. Il senso del decennio che segnò la fine delle ideologie del Novecento.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"