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Verso lo Strega. Meglio morire Edith?
L’inciampo degli angeli custodi. Bruck ha una storia da raccontare
L’ordine di arrivo della cinquina Strega vede al primo posto “Due vite” di Emanuele Trevi, 256 voti. Al secondo posto, “Il pane perduto” di Edith Bruck, 221 voti e già premiata con lo Strega Giovani (in giuria, studenti tra i 16 e i 18 anni, di 60 scuole superiori in Italia e fuori). Si sentiva il terrore serpeggiare, quando Furio Colombo ha proposto il libro della scrittrice ungherese naturalizzata italiana che in occasione della laurea honoris causa all’Università di Macerata disse “La mia università si chiama Auschwitz”: fu deportata a 13 anni, riuscì a sopravvivere, e dopo un passaggio in Israele ha scelto Roma. Penultimo libro, nel frattempo La nave di Teseo ha pubblicato le poesie “Tempi”.
“Nascere per caso / nascere donna / nascere povera / nascere ebrea / è troppo / in una sola vita”, scriveva Edith Bruck in una poesia di “Versi vissuti”. Ecco perché il terrore serpeggiava tra gli oltre 60 concorrenti (numero record, da quando basta uno solo degli Amici della Domenica come presentatore: segno sicuro del fatto che già mettere insieme due letterati italiani è cosa ardua, utile a ridurre il numero dei libri in gara). Edith Bruck ha una storia da raccontare, intrecciata con il Novecento. L’ha già raccontata e continua a raccontarla. (Anche lei è stata coinvolta nella polemica 2021, saputo che “Due vite” di Emanuele Trevi era già stato in parte pubblicato: “I libri in gara devono essere al 100 per cento inediti?”. Risposta: “Non necessariamente”).
Pagina 69 – su 123 – appartiene al capitolo “Nuova vita”. Il primo è “La bambina scalza”, la citazione in apertura è firmata Nelo Risi che fu marito della scrittrice, accudito negli ultimi anni di vita (“Ti lascio dormire” è la lunga lettera postuma a lui indirizzata). Le parole annunciano ancora una volta “la storia / quella vera / che d’un sol colpo / ti privò dell’infanzia”. Leggiamo l’incontro con il fratello David, dopo la liberazione dei campi e il fortunoso arrivo a Budapest. Da lui la protagonista (sembra insieme a una sorella, ma bisogna lavorare con quel che offre la pagina, e qui abbiamo solo il nome Judith) viene a sapere della morte del padre. David si è invece salvato grazie a una cugina, e promette di raccontare più avanti le sue peripezie: “La nostra voglia di dire ci fermentava dentro; al contrario di Judith io mi stavo gonfiando di parole, e presto quasi raddoppiai il mio peso da quaranta a ottanta chili”.
Disorientamento: “Ma in che mondo siamo tornate? Ma perché abbiamo lottato tanto per la nostra sopravvivenza?”. Se lo domandano le due ragazze quando un bacio promesso è preceduto da una perentoria richiesta: “Lavatevi!”: sospettiamo nella riflessione un po’ della Edith Bruck adulta.
Qualcosa deve essere successo anche poche righe dopo, al pensiero: “Sarebbe stato meglio morire che baciarla”. I nostri “meglio morire” sono frequenti, insistiti e insensati. Pronunciato da una ragazzina uscita dai campi di concentramento, “meglio morire” suona come un inciampo. Forse, degli angeli custodi che hanno aiutato la novantenne scrittrice.