La ragione d'un imprevisto
“C’è speranza?”, la domanda che fa da titolo al libro di Julián Carrón, è la più razionale che ci si possa porre. A maggior ragione di fronte a una pandemia che ha scardinato tutte le nostre certezze
Mano a mano che affondavo nelle pagine di questo libro (Julián Carrón, C’è speranza? Il fascino della scoperta, Editrice Nuovo Mondo, 4 euro) si confermava l’impressione che ho avuto sin dal giorno in cui conobbi il suo autore tanti anni fa a una conferenza in università con seguito di cena in una trattoria romana: questo è un uomo razionale. Alla fine del libro l’evidenza è questa: è così razionale che non cede alla tentazione di diventare razionalista.
Il razionalista dice di credere nella ragione, in realtà crede nelle proprie idee, finisce per chiudersi in sé stesso e tenta di chiudere anche il mondo nella sua testa, nei suoi schemi, nel già saputo.
L’uomo razionale sa che il mondo è più grande della sua testa e ragionevolmente vive spalancato all’imprevisto. Il razionalismo costruisce sistemi, la ragione li scopre.
“Un giudizio permanentemente aperto e senza pregiudizi […] è l’unico che rispetti ed esalti il dinamismo della ragione (che è apertura alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori)” (p. 155). La domanda che fa da titolo a questo libro “C’è speranza?” è la più razionale che ci si possa porre, sempre, e a maggior ragione di fronte a una pandemia che ha scardinato tutte le certezze che noi, “figli della cultura cosiddetta occidentale” abbiamo irragionevolmente coltivato affidandoci agli “schemi della razionalità calcolante della scienza e della tecnica” (p. 87). E’ la domanda nella quale si sente “la vibrazione della ragione”. E’ la domanda che sorge inevitabile di fronte a quasi quattro milioni di morti e al disastro di intere economie. E’ una domanda che tentiamo di soffocare in vari modi – e Carrón li analizza tutti – perché non ci rassegniamo alla fine di un’illusione, all’esito paradossale della parabola della modernità, “in cui l’io ha preteso di porsi al centro, come padrone di sé stesso e delle cose, e la ragione si è eretta a misura della realtà”. Ma “la realtà sembra sfuggire alla pretesa signoria dell’uomo” (p. 31) e non basta il pur comprensibile ottimismo dell’“andrà tutto bene”, spazzato via dalla seconda ondata, dalle cui ceneri riemerge la domanda: “C’è speranza?”. Perché, come diceva Václav Havel, la speranza è diversa dall’ottimismo, ottimismo è fare una cosa pensando che avrà successo, speranza è fare una cosa perché ha un significato, indipendentemente dall’esito.
E’ il disorientamento che confessa Mario Vargas Llosa – citato da Carrón – quando dice: “La pandemia ci ha colti tutti di sorpresa perché avevamo l’impressione che la scienza e la tecnologia avessero dominato la natura. Siamo rimasti scioccati nello scoprire che questo non era vero. […] E forse non è un male affrontare la realtà in modo meno ottimista” (p. 130). La nostra speranza – si è detto allora – è nel vaccino. “Ma quando alla malattia non c’è rimedio?”, chiede Carrón. E cita la lettera di una madre il cui figlio è affetto da una sindrome incurabile: “Penso a mio figlio: è avere la salute che ci dà speranza? Lui allora sarebbe spacciato […] Guardare il suo corpo mi rimanda al desiderio di bene che ognuno di noi ha, al desiderio di essere felici e amati nonostante il nostro essere difettosi”. E’ più razionale, cioè più umano (l’uomo è quel livello della natura in cui la natura, grazie alla ragione, diventa coscienza di sé stessa) il pensiero di questa donna o la fuga da sé (dalla domanda imperiosa propria dalla ragione) che in vari modi abbiamo messo in essere in questi mesi, oscillando tra disperazione e presunzione grazie anche forse, o soprattutto, alle opinioni degli esperti spacciate per certezze?
Dice Alain Finkielkraut che “in un mondo in cui non ci sono più adulti ci si affida agli esperti”.
Ebbene, l’uomo razionale, a cui Carrón fa continuo appello, no. Non vive per interposta persona. Ha il coraggio, e l’umiltà, di dire “io”, di uscire dal bunker delle nostre piccole sicurezze nel quale ci siamo rinchiusi (secondo la bella immagine di Benedetto XVI al Bundestag di Berlino), e ricominciare a camminare nella realtà, così che il mondo torni a ristorare la ragione. La ragione – secondo Carrón – come strumento espressivo di sé, più che la capacità analitica o la lucidità teoretica, ha la capacità di formulare domande. Keplero – come spiega Marco Bersanelli nel suo Il grande spettacolo del cielo – fece fare un balzo agli studi astronomici ponendo la domanda giusta, la stessa che avrebbe potuto porre un bambino: se l’universo è un’infinita foresta di stelle, come mai vediamo uno sfondo nero? Il libro di Carrón è una continua domanda. Ce n’è una tremenda di Cesare Pavese: “Qualcuno ci ha promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”. Ricerca, domanda e attesa, ecco quello che definisce la nostra ragione.
Ora, come dice sant’Agostino, noi non cerchiamo una cosa solo per cercarla, ma per trovarla. La fede, e la speranza che ne è come il fiore, ha possibilità di essere ancora interessante per l’uomo d’oggi (“Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?” si chiede Carrón con Dostoevskij) solo se risponde a questa esigenza razionale, a questa domanda ultima di senso, che l’emergenza pandemica, lungi dal crearla, ha fatto riemergere prepotentemente.
“I contenuti della fede hanno bisogno di essere abbracciati ragionevolmente” scriveva don Luigi Giussani decenni fa. “Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi – questo “quindi” è molto importante per me – dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità”, cioè il suo “corrispondere alle esigenze fondamentali del cuore umano”. “Se la fede non c’entrasse con la razionalità, la fede non potrebbe c’entrare con la vita, perché la razionalità è il modo di vivere tipico dell’uomo” (Il rischio educativo, Sei, 1995, pp. XVI e XX).
Si diceva all’inizio che Carrón non è un razionalista, usa cioè potentemente la ragione fino a scoprirne l’impotenza ultima, fino a quel punto in cui la ragione, per non rinnegare sé stessa – perché non sa darsi risposta e nello stesso tempo non vede esaurirsi la domanda di senso – si apre all’imprevisto: “la sola speranza” dice Eugenio Montale. E aggiunge: “ma mi dicono che è una stoltezza dirselo”.
Una strana genia di persone, i cristiani, dice che l’imprevisto è successo. E, quasi a dar ragione a Montale, ha tutte le caratteristiche della stoltezza, della follia: un uomo che dice di essere Dio.
Dicono che è successo duemila anni fa, certo, ma dicono anche che continua a succedere. Il libro è percorso da testimonianze imprevedibili e, appunto, impreviste di studenti universitari, madri di famiglia, professori, infermiere, scrittori, giornalisti – c’è perfino qualche prete –. (Carrón scuserà l’ironia sui preti, ma intere generazioni di chierici, imitate da molti laici con velleità clericali, ci hanno sfiancato con il loro cristianesimo ridotto a etica – salvo essere spesso i primi a tradirla –, un’etica ridotta a leggi, sempre nuove e sempre di più, che vanno ad aggiungersi come superfluo supplemento d’anima a quelle civili, in un crescendo di moralismo soffocante per ogni spirito libero.)
Ed eccoci alla libertà. L’altro polo della proposta di Carrón, che attraversa come un filo rosso, intrecciandosi con la ragione, tutto il suo argomentare. “Potrei dimostrare tutta la dottrina cattolica se mi si permettesse di partire dal valore sommo di due cose: la ragione e la libertà”, diceva Chesterton. Carrón non è da meno, e ne fa una discriminante: parlando della Chiesa dice che “non sarebbe una compagnia cristiana […] se non fosse amante della libertà”.
E’ questione decisiva, la libertà. Per la conoscenza prima che per la morale. Perché restituisce alla ragione il suo calore esistenziale e, come detto, la fa “vibrare”. Di fronte all’uomo Cristo, come di fronte ai suoi testimoni contemporanei, il problema che si pone è se sia ragionevole credere a quello che dicono. C’è un solo metodo razionale, parente stretto del metodo scientifico: sottoporre le loro dichiarazioni (tesi) al vaglio dell’esperienza (verifica). Per dirla con Jean Guitton: “Ragionevole designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza”. Il cristianesimo – dicevano già gli autori cristiani del I secolo – non chiede altro che essere messo alla prova. La mossa di questo tentativo – spiega Carrón – è tutta e solo della libertà che, attratta dall’oggetto che vuole conoscere, decide di impegnare ragione, vita, spazio e tempo, energie per vedere se la pretesa cristiana, la promessa di una vita più umana, corrisponda al vero. “Altro che sentimentalismo”, sbotta Carrón.
“La questione della libertà, poi, è particolarmente decisiva in questo momento, in cui abbiamo accettato di sacrificarla in tante sue espressioni incorrendo in una tentazione antica: il cambiamento della situazione in cui versiamo ci appare troppo lento e allora “vorremmo [un metodo] che scavalcasse la libertà delle persone, che modificasse le cose di colpo e dall’alto” (p. 184). E’ quello che rimprovera il Grande Inquisitore dostoevskiano a Gesù in una pagina che gli impazienti e i rivoluzionari di ogni epoca dovrebbero periodicamente rileggere. Carrón la cita, nella sottolineatura che ne fa Adrien Candiard in Sulla soglia della coscienza. La libertà del cristiano secondo Paolo (altro libro da leggere per capire quanto il moralismo sia contrario al cristianesimo). “Gesù, pensa l’Inquisitore, ha sbagliato tutto. Aveva i mezzi per placare l’insopportabile tortura dell’uomo alle prese con la propria libertà. Poteva… costringerlo… programmarlo, salvarlo da sé stesso…”.
Un ultimo imprevisto, un’ultima sorpresa. L’elogio del dubbio, che Carrón tesse riportando interamente un racconto di Martin Buber e il commento che ne fa Joseph Ratzinger in Introduzione al cristianesimo. Quando due anni fa lessi per la prima volta questa pagina (colpevolmente, perché Ratzinger la scrisse nel 1968) sobbalzai sulla sedia e mi cadde un pregiudizio, o quantomeno mi si chiarì una confusione.
Scrive Ratzinger”: “Come succede al credente, sempre mezzo soffocato dall’acqua salmastra del dubbio spruzzatogli continuamente in bocca dall’oceano, così esiste sempre anche per l’incredulo il dubbio sulla sua incredulità, sulla reale totalità del mondo che egli ha fermamente deciso di dichiarare come il tutto. Egli rimarrà sempre assillato dall’interrogativo se la fede non sia davvero la realtà, e l’unica capace di esprimerla. In una parola: non si sfugge al dilemma dell’essere uomini”. Martin Buber racconta di un illuminista che sfida verbalmente un rabbino per confutarne e ridicolizzarne la fede e questi gli dice solamente una cosa: “Chissà, forse è proprio vero… Ma pensaci, figlio mio, perché forse è vero”. “L’illuminista fece appello a tutte le sue energie interiori, per ribattere; ma quel tremendo ‘forse’, che risuonava ripetutamente scandito ai suoi orecchi, aveva spezzato ogni sua velleità di opposizione”. “In altri termini: tanto il credente quanto l’incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede, sempre che non cerchino di sfuggire a sé stessi e alla verità della loro esistenza. Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede. E chissà mai che proprio il dubbio, il quale preserva tanto l’uno quanto l’altro dalla chiusura nel proprio isolazionismo, non divenga il luogo della comunicazione”.
Il già citato Havel in un discorso del 2002 al Senato italiano disse che bisogna tornare alla tradizione del dubbio e dell’interrogativo, perché è la tradizione dello stupore e dell’umiltà a cui dovremmo ricollegarci. Il dubbio – questa la confusione chiarita – non è il sospetto preventivo lo sguardo distruttivo sull’evidenza della realtà e del suo mistero, ma una domanda su noi stessi e sulle nostre costruzioni, una crepa nelle nostre fissazioni, nelle nostre monolitiche presunzioni. “C’è una crepa in ogni cosa – canta Leonard Cohen – è così che entra la luce”. Carrón (studi in teologia, aramaico e greco biblico) cita pure il bardo canadese, e la cosa non sorprenda, perché l’uomo razionale è anche molto curioso.