Un cane non ha amici. Goya e il nero di Leopardi
Le opere realizzate nella Quinta del sordo, da vecchio, hanno molto in comune con lo Zibaldone
"Questo cane non ha amici”. La frase è pronunciata da un bambino di due anni e mezzo. Di fronte ha l’immagine del Cane interrato nella rena, dipinto da Francisco Goya fra il 1820 e il 1821. Duecento anni ci separano; eppure gli occhi di quel cagnolino emanano qualcosa che continua a comunicare. Qualcosa che ho già visto molte altre volte, negli occhi delle persone, ma ancora non riesco ad accettare. “Non ha amici”, ripete il bambino e poi resta in silenzio, così ne approfitto per ripassare la storia del pittore e del suo capolavoro.
Nel 1819, pur essendo ancora legato alla corte del re di Spagna, Ferdinando VII, Goya si trasferisce nei dintorni di Madrid con una giovane donna e sua figlia. A settantatré anni, deluso e malato, investe i risparmi in una casa di campagna, che gli abitanti del paesino – con un po’ di timore – chiamano la Quinta del sordo. La casa del sordo. A essere precisi Goya perde l’udito già nel 1792, quando il mondo frivolo e coloratissimo della maturità si trasforma nello scafandro nero in cui sprofonda la sua vecchiaia. Prima il sibilo delle decapitazioni che proviene da Parigi, poi l’Inquisizione che censura le stampe dei suoi Capricci (1799); a seguire i terribili anni della Guerra d’Indipendenza (testimoniati nella serie dei Disastri, 1810-20), e infine la restaurazione di una monarchia ultra-conservatrice che lo addita come complice dei francesi. Per riscattarsi e trovare una stabilità anche personale, Goya dipinge una delle tele più sconvolgenti della pittura moderna: la Fucilazione del 3 maggio 1808. La tavolozza si riduce, anzi si essenzializza sul bianco e il nero, e sui colori terrosi squarciati dal rosso. Oltre alla fermezza con cui condanna l’esercizio sistematico della violenza, quest’opera è una tappa fondamentale nel percorso cromatico che conduce alle Pitture Nere della Quinta (oli su muro trasportati su tela nel 1874), e in particolare al Cane interrato nella rena.
La scena è abbastanza semplice: un cagnolino sprofonda in una sostanza ocra. Al di là che sia sabbia o fango, questione su cui tuttora dibattono i critici, ciò che rende questo pezzo un capolavoro è la sua capacità di rappresentare la condizione di ogni essere umano. La mia, la vostra, quella del bambino che nota l’assenza di amici del cane: insomma, l’estenuante lotta di ognuno di noi per rimanere a galla, giorno dopo giorno, con il fiato corto e il collo che affiora per pochi millimetri dalla corrente, nell’indifferenza generale. Ecco il punto. L’indifferenza del mondo. Quando vedo l’opera dal vivo, nel 2006 al Prado di Madrid, mi avvicino il più possibile al muso del cane. Il mio corpo formicola. E poi succede qualcosa d’imprevisto: per la prima volta mi commuovo davanti a un animale dipinto. Un cane dal pelo ispido e da una presenza insignificante, i cui occhi però hanno una pasta piena, totalizzante, come a dire: io sono innocente. Sono innocente eppure guardate quale fine terribile mi attende; il mio destino, il vostro destino è di sparire per sempre – a prescindere dalle buone o dalle cattive azioni.
Negli stessi anni in cui Goya realizza le Pitture Nere, delle quali fa parte anche l’episodio più famoso, Saturno che divora i suoi figli, Giacomo Leopardi inizia a impostare lo Zibaldone e un’impresa ancora più ambiziosa, i Pensieri. Costruiti sul modello del Manuale di Epitteto, che lo stesso Leopardi traduce nel 1825, i Pensieri si compongono di 111 carte che spaziano dalla meditazione filosofica al ricordo privato, dall’aforisma al saggio sociologico. L’opera, pubblicata postuma nel 1845, è incompiuta tuttavia condensa una serie di riflessioni sulla condizione umana mai così attuali. Che cos’è il destino? Come si può sfuggire a esso? Quali sono le regole che determinano il nostro modo di vivere?
Leopardi dà risposte lapidarie: “Il genere umano si divide in due parti: gli uni usano prepotenza, e gli altri la soffrono”; “in questa specie di lotta di ciascuno contro tutti, consiste la vita sociale”; “l’uomo è quasi sempre tanto malvagio quanto gli bisogna”. In sintesi, il poeta getta le fondamenta alla teoria che descrive il mondo come un luogo dominato dalla contraddizione e dall’indifferenza, dove è il male a prevalere. Dove gli individui più fragili e innocenti si trasformano nel bersaglio ideale dell’egoismo altrui ma, soprattutto, dove “la morte non è un male”. È certo che Goya e Leopardi non si siano mai incontrati, eppure le loro opere tendono a costatare lo stesso “arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale”, che supera i limiti della violenza e del dolore: tutto è nulla. Persino l’origine di ogni cosa e Dio sono nulla, si legge nello Zibaldone. Di conseguenza il nulla che ci precede è pure il nulla che ci attende; il nulla dal quale siamo strappati con la nostra nascita è lo stesso in cui precipitiamo con la nostra morte, “un silenzio nudo e una quiete altissima” che saturano il cosmo. Il nulla è il nostro destino.
A fatica si può accettare una visione così amara, che promuove la reciproca indifferenza fra uomo e natura, eppure quella appena descritta da Leopardi sembra la dimensione cui tende il cane interrato, così come le sabbie mobili dipinte da Goya sembrano proprio il “solido nulla” leopardiano. Il nulla che tutto inghiotte e che, presto o tardi, inghiottirà anche noi. Ingrandisco l’immagine del cagnolino fino a vederlo in dettaglio. Benché sia una riproduzione digitale, sento la stessa tentazione di allora, davanti all’originale conservato al Prado: mentre allungo le mani, come per salvarlo, capisco di aver perso il controllo. Questo cane non ha amici. Ecco. Il problema non è la morte in sé, e nemmeno vivere due giorni o duecento anni; il vero problema è morire da soli. Affrontare questa discesa nelle sabbie del nulla sapendo che nemmeno l’amore di qualcuno ci potrà trattenere in superficie. “Lasciamolo andare, papà”, dice il bambino. Così io chiudo l’immagine e spengo lo schermo.