Élisabeth Vigée Le Brun, “Ritratto di Maria Antonietta con la rosa”, olio su tela, 1783, Reggia di Versailles (Olycom) 

il foglio del weekend

Amate reliquie

Giuseppe Marcenaro

Dalla scarpetta di Maria Antonietta al tovagliolo di Luigi XVI fino alla virilità di Napoleone. Altro che santi, i collezionisti vogliono la storia

Quesito demenziale. Del tipo molto in voga al tempo nostro, soprattutto nella nuvolaglia dei social. “Che differenza vi sia tra una scarpetta color prugna alla ‘Saint-Huberty’, dal nome dell’attrice che ne aveva lanciato il modello, calzata da Maria Antonietta il 16 ottobre 1793 mentre si avviava alla ghigliottina e il pene di Napoleone imperatore?”. Soluzione del dilemma: nessuna differenza. Perché sono diventati objects d’affection. Perduto il loro destino d’uso, diciamo la ragion d’essere, tanto la scarpetta di Maria Antonietta quanto l’augusto “pisello”, si sono trasfigurati in reliquie. Oggetti di spasmodico collezionismo.  

   
Sembra che l’ex regina Maria Antonietta perdesse la scarpetta inciampando nel piede del boia mentre la stava posizionando sulla “bilancia” in traiettoria perfetta della lama che le avrebbe resecato il collo. Per quanto questa sia la pantomima primaria, l’avvenimento passa in secondo piano in rapporto all’avventuroso itinerario della scarpetta. Infatti, nel fatale momento quando per l’inciampo la scarpetta si sfilò dal piede di Maria Antonietta, tra i tanti astanti attorno al palco della ghigliottina, estatici nell’alto silenzio, per non farsi sfuggire neppure il minimo gesto di quello storico avvenimento, c’era invece qualcuno, uno in particolare, che aveva fissato la propria attenzione sul dettaglio, determinato dalla casualità, della scalzatura della scarpetta. Passabilmente era anche il medesimo ignoto che poi, nel trambusto post decollatura, nella disattenzione generale per quel dettaglio riuscì ad agguantare furtivamente la scarpetta reale. E, per un luigi, la vendette lo stesso giorno al conte Martial Guenon-Ranville, un fervente monarchico che poi, nel volgere dei tempi, salutando con entusiasmo l’avvento della Restaurazione, si avrebbe tuttavia dovuto accontentare di montare la guardia a Luigi XVIII e nel privato venerare la scarpa modello “Saint-Huberty” mutata in reliquia della regina. Oggi visibile in una vetrina al Musée des Beaux-Arts di Caen

    
Per la storia di Maria Antonietta e in generale per la sottile maniacalità diffusa tra i nostalgici, ma non solo, dilagò il culto per qualcosa appartenuto alla sciagurata sovrana. D’altra parte il possesso di tracce anche solo sfiorate da un personaggio storico è oggetto, ancor oggi,  di ricerca forsennata. Compulsiva collezionista di tutto quanto era appartenuto o sfiorato da Maria Antonietta, d’esempio, fu l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III. Aveva sguinzagliato una squadra di segugi cercatori sulle tracce dei frammenti di vita della regina, dispersi dopo il fatale giorno in cui la “vedova Capeto” aveva perduto la testa.  E fu un vivace ravanare tra quanto poteva essere rimasto, di prezioso naturalmente e anche di nessunissimo valore venale. Le indagini si compirono seguendo gli avvenimenti e visitando i luoghi ove era passata o aveva sostato la famiglia reale dal 14 luglio 1789, presa della Bastiglia, lo stesso giorno in cui Luigi XVI aveva annotato  nel suo quotidiano diario “Nessuna novità”.  Tre mesi dopo, il re, la regina e i figli, erano agli arresti domiciliari, a Parigi, nel palazzo delle Tuileries. Da qui il 20 giugno 1791, in una notturna  quanto illusoria “evasione”, Luigi XVI e famiglia avevano tentato di prendere il largo per unirsi agli aristocratici “emigrati” all’estero. Riconosciuti e bloccati a Varennes, erano stati ricondotti in stato d’arresto nella capitale. Ed è durante quei trambusti che cominciarono a formarsi le “tracce storiche” appetite da golosi feticisti: abiti abbandonati, oggetti, carte. 

  
Segregata alle Tuileries, Maria Antonietta aveva fatto clandestinamente “salpare” per Bruxelles la maggior parte degli “oggetti” personali, specialmente gioielli. Affidati alla sorella Maria Cristina che, con il marito Alberto, aveva  assunto  il governatorato dei Paesi Bassi austriaci. A evocare la storia degli effetti personali e delle gioie che si sarebbero trasfigurati nelle  “reliquie di Maria Antonietta” fu Jeanne Louise Henriette Campan, meglio nota come madame Campan, con il “titolo” di “prima cameriera”. Fu dietro suo suggerimento che il  20 giugno 1792, quando la folla in tumulto assalì il palazzo delle Tuileries, un tale monsieur Bernard,  in servizio presso il  guardaroba reale, ramazzò un bel numero di abiti di Maria Antonietta, riparando in Inghilterra. Dopo la morte della regina avrebbe distribuito, sotto forma di reliquia, frammenti delle vesti della “sovrana martire”. 

  
Non è però necessario esser stati martiri o santi per diventare “produttori di relique” soprattutto tratte da tessuti che avevano  avuto contiguità col corpo di un celebrabile. Esemplare il culto diffuso da un farmacista di Rouen venuto in possesso, si ignora come, di una coperta che leggendariamente doveva aver avvolto Rimbaud nelle notti africane. Per cui, più d’un impallato per il principe dei poeti maledetti, morto da qualche anno, s’era recato a Rouen, da quel farmacista custode della reliquia, per provare l’esaltante scossa di toccare “quella coperta” ridotta per altro a uno straccio sbrindellato. Secondo l’intensità della reazione, esibita davanti all’ostensione del sacro reperto, il farmacista, agguantata una forbice,  con gesto solenne, ritagliava un quadratino di coperta e lo donava all’adorante qual mistica “particola” del poeta di “Une saison en enfer”. Sorte, essere cioè ridotto in frammenti, che non subì lo scialle di Maria Antonietta misteriosamente affiorato in Italia nei giorni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale.

 

La formidabile trouvaille era esibìta da un certo Gaetano Cabella, giornalista, già direttore del Popolo di Alessandria che, trafficante in reperti storici, aveva già venduto agli americani, ovviamente farlocco, il manoscritto di un Testamento politico di Mussolini. Cabella, si presentava come marchese Boncompagni di Moncada. Una sua conoscente gli aveva confidato di possedere uno scialle antico e prezioso. “Vuole vendere?”. Tale la forza del mito che l’immaginifico Cabella offrì a qualche impallato di reperti storici il prezioso scialle come  quello che aveva coperto le spalle di Maria Antonietta condotta alla ghigliottina. Riuscì a venderlo per un milione e duecentomila lire d’allora. 

   
Il formarsi delle “reliquie” di Maria Antonietta ebbe zelante collaboratrice madame Campan che, scampata al Terrore, si dedicò alle sue memorie, in particolare a una “Vita segreta di Maria Antonietta": racconto avvincente, ironico e caustico.  Ed è tra quelle pagine  che si può sorprendere la regina di Francia mentre cerca di mettere al riparo gli oggetti, soprattutto i gioielli, diventati poi culto di forsennato collezionismo:  “Sua Maestà – scrive madame Campan – si chiuse con me nel gabinetto ubicato di fronte al giardino delle Tuileries, e sistemammo in un serre-bijoux tutto quello che possedeva in diamanti, rubini e perle”. Sarebbe stato il parrucchiere della regina, Léonard, a portare i gioielli a Bruxelles, da dove presero la via per Vienna. Quando Madame Royale, primogenita di Luigi XVI e Maria Antonietta, tre anni dopo la morte dei genitori fu scarcerata e “esiliata” a Vienna, ritrovò i gioielli della madre. Li cedette in parte al cugino imperatore in cambio di una pensione vitalizia. Nel 1851 alla sua morte quello che rimaneva passò al nipote, conte di Chambord, e alla morte di costui, nel 1883, alla sua vedova, Maria Teresa di Modena. Il nipote ed erede della contessa di Chambord, per metterli all’asta, cedette a Cartier i gioielli ereditati, compreso un collier di perle, il medesimo che nel 1937 sarebbe stato indossato dall’ereditiera Barbara Hutton, il giorno delle nozze. Poi nuovamente ribattuto da Christie’s nel 1999 per 1.450.000 dollari.

 
Non soltanto i “preziosi” attrassero la cupidigia dei collezionisti dei “resti” dei coniugi Capeto. Il cofanetto,  imbottito di velluto cremisi che era servito a Maria Antonietta per confezionare, con l’aiuto di madame Campan, la “spedizione” dei gioielli a Bruxelles, fu oggetto di una feroce tenzone a un’asta di cimeli della famiglia reale francese. “Abbiamo assistito – dichiararono i responsabili della casa d’aste Osenat di Fontainebleau –  a grandi battaglie in sala e al telefono tra collezionisti internazionali. In tanti volevano portarsi a casa un pezzo di Maria Antonietta. Ignoto il nome del fortunato che ha acquistato l’ambito  bauletto”. Nel catalogo di una curiosa asta benefica organizzata dalla Maison Coco Chanel,  figuravano alcuni cimeli reali: tra questi un grande tovagliolo utilizzato unicamente  l’11 giugno 1775 da Luigi XVI, nella cattedrale di Reims, durante la sua incoronazione.  Il tovagliolo damascato, decorato con fiori di giglio e  presentato sotto vetro con una nota manoscritta dal cappellano di Reims, monsignor Coussy, venne aggiudicato per 14.500 euro (stima di partenza duemila euro). 

 
Le reliquie non sono tuttavia dei veri e propri portbonheur. Una di queste, proprio un “memoir” di Maria Antonietta, ha avuto un potere nefasto, vista la sorte della collezionista. Alessandra Fedorovna, l’ultima zarina di Russia, la cui vita come ognun sa si compì drammaticamente insieme alla sua famiglia nella  cantina di una casa di Ekaterinengur, pare si inorgoglisse di possedere, sul suo tavolo di scrittura,  ammirandolo e rispecchiandovisi, un ritratto di Maria Antonietta proveniente direttamente da Versailles dove stava sul secretaire della regina di Francia. 

 
I “resti” di “oggettistica”  reale, o comunque quelli ritenute tali, oltre a far vibrare l’animo dei francesi suscitarono la brama di possesso del collezionismo internazionale. D’altra parte il reperto transustanziato in reliquia, nella sua misteriosa aura, toccato o comunque connesso al corpo di un defunto celebre, sembrerebbe emanare suggestioni mistiche. 

   
E’ sufficiente una scritta su un libro per renderlo unico e sacrale. Vi fu baruffa a un’asta per mettere le mani su un esemplare del “Bardo della Selva Nera” di Vincenzo Monti, edizione del 1806 impressa a Parma da Bodoni, con vergato sul frontespizio “Questo volume faceva parte della biblioteca di Napoleone I a Sant’Elena”. Altra eco da Sant’Elena: dopo l’autopsia compiuta sul corpo di Napoleone dal medico Antonmarchi, “la biancheria e i drappi utilizzati durante la sezione del cadavere, stracciati,  tinti com’erano di sangue, distribuiti: ognuno volle averne un brano”. Una speciale reliquia di Napoleone, spuntata casualmente a una battuta d’asta, si smarrì per i meandri del mondo: storia leggendaria di una piccola parte del corpo dell’imperatore, della quale Antonmarchi, esecutore dell’autopsia, non fa cenno nelle sue memorie. 

  
Un riservatissimo medico americano, all’ombra dei grattacieli di Manhattan, tra altri titoli accademici, vanta un onorifico incarico. Custodisce il pene di Napoleone Bonaparte. John Latimer, questo il nome del conservatore dell’anatomico reperto, ovviamente al corrente dell’augusta provenienza, gelosamente cela l’imperial appendice presso la Squirer Urological Clinic della Columbia University. Nel 1983, con la mai sopita frenesia da scoop dei giornali, recensendo l’ennesima biografia di Napoleone, il supplemento letterario del New York Times rese pubblico il venereo segreto che, conosciuto gelosamente da alcuni, durava da oltre un secolo e mezzo. La fervida America, che prende tutto sul serio, reagendo alla notizia con una gragnuola di polemiche, vide fronteggiarsi le solite diverse anime dell’opinione pubblica: quella puritana, rappresentata da William Colby, ex direttore della Cia,  che voleva si restituisse immediatamente alla Francia lo scomodo cimelio; l’altra, quella dei mass media e dello spettacolo, propose, tramite il giornalista Robert Westgate, di esporre in una vetrina a prova di proiettile, presentato in un ostensorio d’argento cesellato, l’onor virile di Napoleone. Il dottor John Latimer, nel suo distacco scientifico di cui faceva ovviamente una fede, per aggirare l’ostacolo e sopire la polemica, dichiarò che era assolutamente inutile mostrare la reliquia. Non avrebbe suscitato alcun interesse. Un pene vale un altro. Inoltre, aggiunse, il tempo aveva ridotto quello di Napoleone alle dimensioni di un dito. C’era perciò da far perdere la faccia all’imperatore. 

  
Come il reperto sia arrivato negli Stati Uniti è una storia di vendite discrete, iniziata il giorno in cui fu eseguita a Sant’Elena l’autopsia sul corpo di Napoleone. Per contiguità patriottica  — anche Antommarchi era corso — e per diritto d’archiatra a Sant’Elena, la reliquia somma il perito settore la volle assolutamente per sé. In mezzo a quel guazzabuglio di interiora che sfilava e resecava dal corpo imperiale, non visto, con un colpetto di bisturi si era impossessato del trofeo. Ovviamente si ignora se Antommarchi cedesse a qualcuno il souvenir; o chi da lui l’abbia ricevuto in eredità. Mentre la salma di Napoleone, da Sant’Elena,  il 15 dicembre 1840 solennemente, tornava in Francia  accolta nella rotonda  agli Invalides, il suo pene girava clandestinamente per il mondo. Dal fatale 5 maggio 1821 era passato di mano in mano. Ricomparve nel 1924 a un’asta dalla Rosenbach Company cui lo aveva affidato in vendita l’ultimo custode, un abate dalla celatissima identità che stava liquidando i gioielli di famiglia. Il lotto numero 117, “Reliquia napoleonica”, se lo aggiudicò, con offerta segreta, un anonimo amateur del New Jersey che lo collocò tra i pezzi più rari della propria collezione di objets à valeur artistique. Ed è lì che lo rinvenne John Latimer, il medico neyorkese. Non gli fu troppo difficile convincere il collezionista. Il reperto aveva certo a che fare con la storia, ma era piuttosto originale catalogarlo come objet d’art. Si trattava soltanto di un elemento anatomico connesso strettamente all’urologia. L’onor virile dell’imperatore finì così in un contenitore asettico della Squirer Urological Clinic di New York. Dovrebbe ancora esservi. A meno che, in tutta riservatezza, non sia tornato in patria. Restituito alla Francia custodito durante il viaggio in una valigetta diplomatica.
 

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