Il senso greco della giustizia
Luciano Violante rilegge la tragedia di Clitemnestra e la porta in teatro con un suo testo. “Vogliamo giudici con l’anima”
Potete ignorare gli studi classici; considerare i miti vecchiume spedito in soffitta dagli algoritmi; reputare dèi ed eroi della Grecia una ridondanza, scaduti come cravatte e cappelli che non si portano più. Fatelo pure e non capirete, nelle ragioni profonde, la riforma della giustizia penale malgrado lo spazio che occupa sui media. Né capirete la cruciale differenza, oltre le tattiche politiche, tra due modi di concepire la legge benché il suo seme, dice Platone nel Protagora, sia piantato dagli dèi nell’anima di tutti. Marta Cartabia, prima che diventasse Guardasigilli, scriveva che nella tragedia greca “molti sono i motivi di attrazione per il giurista”. E si capisce che non è una recente adesione alla corrente della cosiddetta giustizia riparativa, quanto un embrione antico sviluppato fra i classici ad attrarre nella sua riforma i meccanismi di riconciliazione, ma anche l’estensione dei riti abbreviati, l’improcedibilità per i processi troppo lenti, la maggior tutela civile e amministrativa degli indagati, il ridimensionamento dell’udienza preliminare.
Il brocardo del summum ius, summa iniuria, la circospezione verso un rigore peggiore del misfatto, l’elogio della “imperfezione” che salvaguarda la presunzione d’innocenza negli Stati moderni, non maturano nel giurista se i suoi scaffali sono privi di certi libri letti (e digeriti nella pratica). Perché lo vogliamo o meno, la conosciamo o no, l’ombra di Clitemnestra sotto mille altri nomi vagola ancora – in un presente fatto perenne, che è il tempo del mito – fra i mesti luoghi dei crimini e le aule austere dei palazzi di giustizia. Lei, cui il re marito Agamennone sottrae la figlia Ifigenia e la sacrifica agli dèi per non rinunciare al comando della flotta greca; lei che quando il coniuge ritorna lo uccide per punirne il crimine dopo una lunga attesa; lei vittima a sua volta del figlio Oreste il quale vendica, per ordine di Apollo, l’assassinio di suo padre.
Protagonista sulla scena greca, è Clitemnestra un’ombra ingombrante che catturò l’arte dei tragici e poi attrasse la riflessione di giuristi, filosofi, poeti, scrittori, scrittrici nei secoli lontani e negli anni vicini. Al suo richiamo ha risposto anche l’ex magistrato Luciano Violante, già presidente della Camera e compagno di scritture della ministra Cartabia. Così, mentre nelle stanze di via Arenula la Commissione Lattanzi lavorava alla riforma, lui s’adoperava alla rielaborazione della tragedia narrata da Eschilo, la restituiva in versi sorvegliati e immaginava, come coda di cometa, una persistenza del personaggio nel futuro, che è tuttavia per Clitemnestra sempre il tempo mitico dove ogni cosa è risucchiata nell’adesso. Dove, lei dice, “io ho già visto / Quello che vedrò / Già conosco / Quello che conoscerò / Ho già vissuto / Quello che vivrò/ Questa è la mia pena”. La pièce è andata in scena giovedì 15 luglio a L’Aquila, sulla Scalinata di San Bernardino, prodotta dal Teatro Stabile d’Abruzzo per la regia di Giuseppe Dipasquale con l’interpretazione di Viola Graziosi. Per tappeto musicale la tormentata quinta sinfonia di Gustav Mahler aperta dalla marcia funebre, in cui il compositore presentiva, certo ignorandole, le molte reincarnate Clitemnestra che in quel ventesimo appena cominciato, come in ogni altro secolo, avrebbero calcato nuovamente le vie del mondo e i suoi incubi.
“Clitemnestra è una figura emblematica del dolore e della solitudine, che è stata spesso risolta o costretta nel cliché semplificato dell’uxoricida. Nel suo rapporto con Agamennone si racchiude invece il problema universale della reazione all’ingiustizia subita e del modo in cui si concretizza”, spiega Luciano Violante. “E’ un mito e come tutti i miti, secondo il filosofo neoplatonico Salustio, è eterno perché non è mai esistito. Perciò possiamo definire questa figura più pura rispetto a qualsiasi corrispondente storico, che sarebbe sempre assoggettato a peculiari contingenze. Clitemnestra è archetipo dell’insanabile dolore per l’uccisione della figlia Ifigenia, che la spinge a diventare a sua volta un’assassina per vendicare il delitto”.
“Nulla può risarcire quel lutto / Ma a lama deve rispondere lama”. E non appena Agamennone fosse tornato, lei avrebbe corrisposto “inganno a inganno / lama tagliente a lama tagliente / E morte a morte”, recita la riscrittura di Violante. La metafora si estende dalla persona allo Stato, dalla vendetta personale a quella collettiva. Si modella sulla scelta tra barbarie e civiltà giuridica: “Quanti Paesi applicano ancora la pena di morte?” invita a riflettere Violante. Nell’analisi intrecciata su altri grandi miti greci, quelli di Edipo, di Antigone e Creonte, che Violante svolse qualche anno fa con la collega Cartabia, la futura ministra s’interrogava sulla condizione del carcere e dell’ergastolo ostativo, “reclusione senza speranza inesorabilmente destinata ad aver fine solo con la morte del condannato: fine pena mai”. Dike, la dea della Giustizia, tempera la spada con la misericordia nella ricerca di un arduo bilanciamento. E’ emblematico il caso del 41 bis, il più duro regime penitenziario: “Ma non dimentichiamo – risponde Violante – che viene applicato a persone che tentano costantemente, anche dal carcere, di mantenere rapporti con il mondo criminale. La giustizia deve considerare e tutelare due diverse umanità: quella del detenuto e quella delle potenziali vittime per scongiurare i rischi che subiscano offese”.
Complessa è la condizione di chi amministra la giustizia quanto il simbolo che la rappresenta, di cui Cesare Ripa rielaborò l’immagine tra il Cinque e il Seicento nell’Iconologia, trattato ispiratore della cultura plastica in Occidente: “Donna vestita di bianco, habbia gli occhi bendati; nella destra mano tenga un fascio di verghe, con una scure legata insieme con esse, nella sinistra una fiamma di fuoco, & a canto haverà uno struzzo, overo tenga la spada, & le bilancie. Questa – aggiunge Ripa – è quella sorte di giustizia, che esercitano ne’ Tribunali i Giudici & gli essecutori secolari”. Allegorie di senso facilmente intuibile che Ripa dispiega una per una, terminando con quella forse meno comprensibile: “Per lo struzzo s’impara, che le cose, che vengono in giuditio, per intricate che siano, non si deve mancare di strigarle, & isnodarle, con animo patiente, come lo struzzo digerisce il ferro, ancorche sia durissima materia, come raccontano molti scrittori”.
E’ una caratteristica, quella dell’“animo patiente”, che il giurista Piero Calamandrei avrebbe sottolineato affermando: “Noi non sappiamo più che farci dei giudici di Montesquieu – êtres inanimés – fatti di pura logica. Vogliamo giudici con l’anima”, cioè capaci di scandagliare il marasma delle intenzioni umane, e digerire la “durissima materia”, prima di emettere una sentenza. L’alternativa è l’incubo giustizialista, quello che oscilla dal fine pena mai al fine processo mai. “Chi vuole il processo infinito”, commenta Violante, “ha in testa un modello di Stato che celebra perennemente la sua sfolgorante sovranità nei confronti dell’imputato. Ma sarebbe un ritorno allo Stato premoderno. Lo Stato democratico, al contrario, tenta di agevolare la ricucitura, di ricomporre lo strappo. E se non riesce a soddisfare la sua pretesa punitiva deve interrogarsi sulle ragioni per cui non ce l’ha fatta. La giustizia non può subire la coercizione di una gabbia ideologica. Bisogna stabilire se il processo penale è semplicemente il luogo dove lo Stato sovrano condanna e assolve o piuttosto la sede in cui cerca di stabilire le condizioni per una riconciliazione tra il singolo e la comunità”.
La catena d’odio forgiata da Atreo padre di Agamennone, per vendicarsi di Tieste, prolungò gli anelli insanguinati snodandosi implacabile per la stirpe. Prima l’uccisione di Ifigenia, poi la vendetta di Clitemnestra con l’aiuto del suo amante Egisto, infine il matricidio compiuto da Oreste con la complicità di Elettra per cui le Erinni chiedono soddisfazione malgrado il colpevole dichiari di avere solo eseguito i comandi di Apollo. Uno “sciocco servo” del dio, lo bolla l’ombra della mamma uccisa, perché la fatidica frase “eseguivo degli ordini” non dovrebbe giustificare nessuno. “La questione si ripropose ancora una volta in Germania dopo la riunificazione, nei processi ai Vopos che avevano ucciso chi cercava di passare in Occidente”, ricorda Violante. “Pur avendo eseguito degli ordini furono condannati, perché ci sono norme cui non si deve obbedire. Anche se emanate da un’autorità potente come il dio Apollo, si può sempre disobbedire”.
E’ facoltà dei giuristi riconsiderare il messaggio dei miti, anteporlo alle ideologie o ai populismi senza ideologia. Oreste insegna ancora, perché la Grecia antica non ha mai smesso di parlare: se la voce s’è fatta più flebile è solo perché proviene dalla soffitta dove qualcuno ha riposto gli dèi e gli eroi come cravatte e cappelli fuori moda. “L’inflessibile rigore nel perseguire il giusto e nello sradicare il male, anziché ripristinare ordine e prosperità, può essere inizio di nuove e più grandi sventure”, notava il giudice Cartabia spiegando anticipatamente la norma della “archiviazione meritata” per i reati di scarsa gravità, riparati dalle prestazioni del responsabile a favore della vittima o della collettività. Sono parole che si ritrovano in quel volume, Giustizia e mito, scritto assieme a Violante nel 2018, cui oggi si può guardare come a una sorta di preliminare illustrazione della riforma: “Se la punizione genera una catena dell’odio, la giustizia riparativa si volge alla ricostruzione dei legami interrotti, dei nessi spezzati”. Una “potenza rigenerativa, ricostruttiva, in luogo della logica della rabbia e del risentimento”. Parole riecheggiate in quelle pronunciate dalla Guardasigilli dopo la visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove si consumarono i pestaggi di massa dei detenuti ad aprile 2020: “Occorre correggere una visione della pena incentrata solo sul carcere, riservando la detenzione ai fatti più gravi”, con “un uso più grande delle misure alternative”.
Osserva Violante che la riforma Cartabia “è illuminante, perché passiamo da un processo in cui lo Stato sovrano si asside sul suo trono per punire a un processo luogo di discussione e conoscenza dell’imputato. Passiamo dal momento dello Stato che separa il condannato a quello in cui tenta di utilizzare il processo per ricostituire il suo rapporto con la collettività”. La giustizia non deve essere complice di un legismo ineluttabile nemmeno nelle “sale di marmo / dove toghe cremisi / nere zimarre e vesti violacee / discutono dei destini degli altri/ pensando di essere eterni”, dice la Clitemnestra di Violante. Così, nel vagabondaggio tra i vivi, la sua ombra s’imbatte in un altro mito assai lontano nel tempo e nello spazio ma avvicinato a lei dalla letteratura: il capitano Achab, il quale pure sfida “lo stesso mostro / Che si chiama destino” e da Nantucket salpa per andargli incontro, perché tanto “se non dài la caccia al destino / Sarà il destino / a cercarti” e non si può accettare che il nostro sia, conviene Clitemnestra, “svogliatamente confezionato/ da qualche dio perso nella confusione dei cieli”.
Nella messa in scena del regista Dipasquale, Clitemnestra espia le conseguenze del suo crimine “calata dentro un’anima dolente della Terra, che però ho immaginato come un grande spirito contemporaneo simile a quello della poetessa Alda Merini, allo scopo di dare a quest’ombra concretezza e forza sulla scena”. “Perciò”, spiega Dipasquale, “non ho voluto una Clitemnestra nelle vesti di una regina eroica e gonfia di iattanza. E’ piuttosto una sorta di nobile clochard molto dignitosa, come la Merini, che non si preoccupava di avere le calze rotte ma allo stesso tempo indossava una bella collana di perle e non trascurava di truccarsi. Una donna di dolore, un personaggio senza alcuna vanità superficiale, ma con quel tanto di giusta femminilità che rendeva la poetessa dolcissima e meravigliosa”.
Simile al teatro classico per ritualità, il processo penale si è alimentato della stessa cultura che elevava i miti, contrapposta a quella di chi non li ha studiati e perciò al più mitizza un “Elevato”. Non è un caso che la Clitemnestra rappresentata a L’Aquila sia entrata e uscita dalla scena senza passare per le quinte ma attraversando la platea, come volle Pirandello per i Sei personaggi in cerca di autore. Perché hai voglia a metterli in soffitta, i miti ricadono sempre nella vita. Anche quando sei solo spettatore.