Ritratto di David Foster Wallace. Mostra di Tommaso Pincio (Auditorium della musica a Roma, 2012). Foto Ansa

Il libro più parlato che letto

Michele Silenzi

Compie venticinque  anni “Infinite Jest” di David Foster Wallace. Un testo  che parla in maniera originale, e allo stesso tempo lieve e disperata, del rapporto tra l’individuo  e la sua capacità di vivere nel mondo

Infinite Jest, uno dei romanzi più celebrati degli ultimi decenni, usciva venticinque anni fa, nel 1996. E’ diventato, legittimamente, un istantaneo classico, ha reso il suo autore celeberrimo e rimane uno dei libri più parlati e meno letti di cui si abbia notizia. Ma poco importa rispetto al fatto che sia un testo formidabile che parla in maniera originalissima, e allo stesso tempo lieve e disperata, del rapporto tra l’individuo contemporaneo e la sua capacità di vivere nel mondo lucente che ha costruito per se stesso.

 

Non in poche righe se ne può riassumere la trama, che in ogni caso ha poco senso riassumere. Contano davvero solo la struttura, il linguaggio e i personaggi che girano in un’atmosfera assurda e rarefatta. La vicenda si svolge principalmente a Boston, in un’accademia di tennis (Enfield Tennis Academy) per giovani promettenti e in un centro di disintossicazione (Ennet House). E’ un tempo distopico, ma piuttosto prossimo ai primi anni 2000, in cui gli anni sono conteggiati secondo i brand dei prodotti che li sponsorizzano: Anno del Whopper, Anno dei cerotti Medicati Tucks, Anno della saponetta Dove formato prova, ecc… mentre l’azione principale del romanzo si svolge nell’Anno dei pannoloni per Adulti Depend, sebbene la struttura temporale sia tutt’altro che lineare. 

 

Infinite jest, di cosa parla il libro di David Foster Wallace

Il libro ruota in parte attorno alla storia della cassetta di un film intitolato “Infinite Jest”. Un film così entertaining da far dimenticare ogni altra cosa della propria vita. Così addictive che induce gli spettatori a dimenticare ogni tristezza e difficoltà dell’esistenza rendendoli incapaci di smettere di guardarlo e facendoli morire d’inedia di fronte alla sua ripetizione infinita. Una volta inserita la cassetta e iniziato a guardarlo diventa impossibile staccarsene. L’autore del film è James Incandenza, fondatore dell’accademia di tennis, uomo geniale, inventivo e alcolizzato che si è suicidato infilando la testa nel forno a microonde. Uno dei figli di James è Hal, allievo dell’accademia e personaggio centrale del libro, dipendente da una droga che chiama Bob Hope (speranza). Don Gately, invece, è un ex tossico ospite/formatore della Ennet House, una comunità di recupero poco distante dall’accademia. Sullo sfondo si svolge un’articolatissima vicenda in cui entrano gruppi di terroristi separatisti quebechiani, il presidente degli Stati Uniti Johnny Gentle, ex crooner divenuto politico populista di grande successo, e un’innumerabile quantità di altri personaggi satellite.

 

I due luoghi principali in cui si svolge l’azione, l’accademia e il centro di disintossicazione, appaiono subito come due asylum, due luoghi di pazzi, in cui i personaggi sono “rinchiusi”: tanto l’accademia dove le grandi speranze del futuro vengono coltivate ma la maggior parte di loro vede, in maniera più o meno conscia, una qualche forma di fallimento depressivo all’orizzonte (ma magari ricco di successo materiale), e la Ennet House dove tutti hanno definitivamente fallito e sono spesso sull’orlo del suicidio, assediati dal dolore e dalla disperazione, o da una spesso altrettanto disperata speranza di disintossicazione: “Tutti, ma proprio tutti, quelli che si decidono, arrivano qui con gli occhi spenti e le facce bianche e sbattute e a casa tengono a portata di mano un catalogo spiegazzato per l’acquisto di armi da fuoco per corrispondenza, e l’hanno già sfogliato tante volte, come una specie di mappa, nel caso in cui questa disperata ultima spiaggia fatta di abbracci e frasi fatte non si rivelasse altro che una stronzata”. E Hal, che è forse il personaggio più importante del libro, che è anche un junkie, sebbene in maniera del tutto nascosta, oltre a essere un aspirante tennista professionista, possiamo facilmente immaginarlo finire alla Ennet House prima o poi, negli indeterminati destini di questi personaggi che ci fanno continuare a pensare a loro anche quando si finisce di leggere.

 

Infinite Jest è molte cose, molti libri, un’infinità di libri, di tempi, di voci, di punti di vista. E’, essenzialmente, la riproduzione libresca di un frattale che più viene studiato, avvicinato, sezionato, specificato, guardato al microscopio, più rimane simile a se stesso, anzi identico, proprio lo stesso, in una progressiva indifferenziazione di vite, di scopi, di costumi e di atmosfere che quanto più sono diversi tanto più tendono progressivamente ad assomigliarsi. E allo stesso tempo è un allucinante caleidoscopio che sembra volere contenere in sé tutte le vite possibili che però, alla fine, sembrano tutte arrivare a un medesimo punto: l’irriducibile e incomprensibile (perché è impossibile darne conto) presenza ossessiva del dolore (sotto le forme le più diverse).

 

E’ forse il tratto saliente di quest’opera: una colossale riflessione sul dolore, su tutte le sue forme, ma in particolare su quella di natura depressiva, ovvero un dolore essenzialmente metafisico e impossibile da comprendere e risolvere all’interno di una cornice che gli dia un qualche senso, una qualche comprensibilità. Impossibile da risolvere in una cornice materiale, di successo raggiunto; impossibile in una cornice religiosa, del tutto evaporata al punto da essere quasi assente dal libro. Allora, quando nessuno di questi modi di arginare il dolore, o dargli un senso, è possibile resta soltanto il tentativo di eliminarlo, o almeno anestetizzarlo, attraverso infinito intrattenimento di vario tipo (e droghe, alcool, dipendenze di ogni sorta, compresa quella da super-impegno).

 

Il dolore in Foster Wallace è una forza enorme, esagerata, parossistica, ma che è tale proprio perché diventa metafisica, la componente metafisica del reale. Il dolore diviene la componente metafisica della vita. Il dolore è qualcosa di cui non si riesce a dare conto e senso. Il dolore non è solo parte integrante delle vite descritte dall’autore, ne è la loro componente trascendente. La religione, infatti, non ha ruolo nel romanzo se non come assenza (come chi ha provato quella via ma ne è rimasto irrimediabilmente inappagato, come da tutto il resto). Non c’è modo di dare conto del dolore, di comprenderlo e di spiegarlo all’interno di una qualche forma di trascendenza. E’ il dolore stesso che si fa metafisico, essenziale, attraverso una narrazione che è però potentemente fisica e carnale.

 

Di fronte a questo tipo di dolore, lasciarsi morire con un intrattenimento infinito sembra l’unica opzione dolce. Morire guardando qualcosa in uno schermo, strafacendosi di droga o alcool o di psicofarmaci o di cibo, come fa una signora obesa, la signora Lenz, madre di un ragazzo dell’accademia di tennis, che durante un viaggio in autobus finisce incastrata nel finestrino di un Greyhound e che come risarcimento danni ricevette “una somma così elevata che quando le arrivò l’assegno, in una busta di una taglia speciale extralunga per contenere tutti gli zero, la Sig.ra Lenz perse ogni voglia di inserire dati nei computer e cucinare e pulire e accudire il figlio e alla fine persino di muoversi, e si sdraiò su una poltrona reclinabile fatta su misura larga un metro e mezzo a guardare Storie d’Amore Gotiche su InterLace e consumare volumi mastodontici di pasticceria ad alto contenuto di lipidi che le veniva servita su vassoi d’oro da uno chef pasticciere che aveva voluto a sua esclusiva disposizione 24 ore su 24 e fornito di cellulare finché, dopo quattro mesi dal risarcimento astronomico, morì d’infarto con la bocca così piena di torta di pesche che il personale paramedico non riuscì a farle il Cpr”.

 

Esiste anche la possibilità di provare a fuggire dal dolore attraverso un impegno radicale e maniacale in ciò che si fa (superlavoro superimpegnato), un dedicarsi come pazzi al proprio compito che poi però si trasforma comunque in dipendenza; e alla fine anche questo dedicarsi come pazzi appare insensato e rende pazzi o “anedonici” (anedonia è una delle forme di depressione di cui si parla nel libro, incapacità di sentire piacere, di godere). La Enfield Tennis Academy è il luogo della competizione, dove talenti si formano e imparano a competere ai più alti livelli. Il tennis è quello per Foster Wallace, l’immagine della competizione per eccellenza che però non è competizione per qualcosa di concreto, per qualcosa che possiede il mio sfidante, ma l’ultimativo confronto con l’Io: non più neppure competizione con se stessi ma tentativo di comprendersi. Ma anche l’Io, almeno quello di Hal che è il protagonista, e che gioca all’accademia, Foster Wallace tiene a farci sapere che è vuoto.

 

Anche l’impegno più assoluto e profondo, ciò che speriamo dia senso alla nostra esistenza sottraendoci al dolore e alle vie di fuga (o eutanasie) delle dipendenze, finisce per trasformarsi esso stesso in una via di fuga e alla fine in un’altra dipendenza. Hal, all’interno di un lunghissimo monologo riflette su questo, su come l’ha compreso all’accademia: “A volte negli ultimi tempi mi sembrava quasi una specie di miracolo nero che qualcuno potesse tenere tanto a un argomento o a un’impresa, e potesse continuare a tenerci per tanti anni. Che potesse dedicarvi tutta la vita. Mi sembrava ammirevole e patetico allo stesso tempo. Forse non vediamo l’ora, tutti, di dedicare la nostra vita a qualcosa. Dio o Satana, politica o grammatica, topologia o filatelia – l’oggetto sembrava puramente incidentale rispetto a questo desiderio di dedicarsi completamente a qualcosa. Ai giochi o agli aghi, o a qualche altra persona. C’era qualcosa di patetico. Una fuga-da sotto forma di tuffarsi-in. Ma esattamente una fuga da cosa? Queste stanze piene zeppe di escrementi e carne? A che scopo? Ecco perché qui ci facevano iniziare piccolissimi: perché ci dedicassimo completamente a qualcosa prima dell’età in cui spuntano becchi e artigli alle domande perché e a cosa. Ci facevano una gentilezza, in un certo senso. […] Il significato originario del termine addiction implicava avere degli obblighi, essere fedele legalmente e spiritualmente. Dedicare la propria vita a qualcosa, tuffarvisi dentro.” 

 

Infinite jest, un'opera-mondo che non poteva avere fine

Lunghe citazioni necessarie perché il contenuto di Foster Wallace non lo si può separare dalla sua scrittura senza trivializzarlo. La sua scrittura, più di quella di altri autori, è il suo pensiero. Giunti alla fine del libro, che è una non-fine, si ha l’idea che avrebbe potuto essere molto più breve, e allo stesso tempo che avrebbe potuto continuare a essere scritto per sempre, non finire mai appunto. Mi chiedo se Foster Wallace abbia mai davvero scritto qualcos’altro o se non abbia piuttosto continuato a scrivere sempre lo stesso libro, e non per noia ma perché è un’opera-mondo che non poteva avere fine (ad esempio il personaggio principale di Caro vecchio neon, un giovane pubblicitario con la sindrome dell’impostore che racconta il suo suicidio dopo averlo compiuto con successo, sarebbe stato una perfetta voce narrante anche in Infinte Jest). Un’opera senza fine proprio perché un’opera-mondo, e il mondo visto da Foster Wallace sembra, come già detto, frattale. Un luogo e insieme un tempo inscindibili; uno spaziotempo, quello descritto, immensamente dilatato e replicabile e impossibile da fuggire tanto nel piccolo quanto nel grande proprio perché replica se stesso come fanno i frattali, e in cui tutto ciò che si può conquistare, alla fine, è more (or less) of the same.

 

E la coscienza di questo, l’idea che non ci sia una via di fuga ma solo uno stesso frattale di vita che si replica in dimensioni diverse sempre identiche (per quanto possano essere diversi sentimenti musiche immagini storie alla fine si ripetono tutti, e tanto più quanto più sono raggiungibili) è la fonte dell’inconsolabilità e dell’infuggibilità del dolore, su cui non può esserci alcuna presa eroica e che non genera alcuna prospettiva salvifica (dannazione, del resto è l’anno del pannolone per adulti depend!), ma solo infinito arrovellamento, una voce interiore che parla all’infinito. Un’autocoscienza talmente espansa e onnipervasiva da non potere contenere neppure se stessa, non avendo quindi altra possibilità che diventare progressivamente rumore di fondo e disperdersi. Allora la coscienza, infine, sbiadisce, come nuvole che si disfano all’orizzonte mentre si sta distesi con la schiena nuda sulla sabbia fredda e umida. Ogni nuvola del tutto diversa dall’altra e assolutamente identica. Senza inizio, senza fine, un perenne adesso in cui sfaldarsi in maniera dolce e tranquilla, eutanasica, mentre le onde si frangono piano e l’identità sfuma ad libitum.  

 

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