Repetita non iuvant
È meglio parlare poco. L'ultimo libro di François Jullien non considera la lezione di Montaigne
La mania della cultura francese di non fermarsi mai, neppure davanti al nulla e all’indicibile
La passione non solo metodica, ma direi maniacale, di pensatori francesi di ogni genere per il parlare di ciò di cui è impossibile parlare, che è ai limiti e oltre i limiti di ogni discorsività e verbale formulazione, questo è proprio un fenomeno misterioso. Ma misterioso solo a prima vista, in quanto autocontraddittorio, come il parlare del silenzio. Evidentemente, meno l’oggetto del discorso è dicibile, o dichiarato tale, più nel filosofo, nel critico letterario, nell’intellettuale francese crescono l’attrazione e l’eccitazione. Sembra che per combattere la propria vocazione tradizionale, secolare e ben sperimentata all’uso totalitario della parola, la cultura francese abbia scelto, ancora una volta, la parola che non si ferma e non tace di fronte a nulla, neppure di fronte al nulla e all’indicibile.
È vero che non sempre il non detto è indicibile e che il non-udito non è inudibile. Ma continua a sorprendere che proprio la cultura europea più estroversa e mondana, più razionale e metodica, più fondata su regole e convenzioni sociali, sia anche la più innamorata dell’oltranza, dell’immediatezza, del disordine, dell’illimitato e di ciò che si sottrae al controllo della cultura, della civilizzazione, della norma, dell’essere “come si deve essere”. Il francese colto, per non dire l’intellettuale francese, sente irresistibilmente di dover essere esattamente a rovescio, all’opposto di ciò che la norma dice che bisogna essere.
In realtà in questo fenomeno non c’è mistero. La regola è: prima imporre la regola e poi negarla, trasgredirla e teatralmente infrangerla. Quello della cultura francese è una specie di imperativo del “vogliamo tutto”, sia il diritto che il rovescio. In effetti, nella loro storia culturale, i francesi hanno avuto la dismisura, il gigantismo bulimico di Rabelais e il classicismo di Racine e Boileau; la sorridente umanità e semplicità di Montaigne e Molière da un lato, e il culto della distinzione e separazione fra pensiero e materia di Cartesio; il piacere libero e inventivo di Diderot e la razionalizzazione concentrazionaria del sesso distruttivo in de Sade; hanno avuto Balzac che tenacemente progetta e realizza un’opera narrativa che è un’enciclopedia di situazioni e di tipi sociali, mentre qualche decennio dopo arrivò l’adolescente Rimbaud, che subito dopo i vent’anni sente di avere scritto tutto e tacerà per sempre uscendo dalla letteratura.
Questa vicenda durata secoli ha cominciato a ripetersi sempre più prevedibilmente e con risultati scarsi nell’ultimo secolo e fino a oggi: dall’enormità lirico-analitica della Recherche di Proust, che minuziosamente evoca e analizza le percezioni più sottili e in apparenza irrilevanti, si passa negli anni venti e trenta al surrealismo di Breton, alla teoria e prassi della “scrittura automatica”.
Ma in questi ultimi decenni metodo e teoria, trasgressione e estremismo critico si sono stabilmente insediati nelle università, dove si insegna e si impara a scrivere libri spremendo fino all’ultima goccia una sola idea per sorprendere e scandalizzare, come si deve, il presunto benpensante borghese che forse non esiste più se non in ciò che rimane della classe operaia.
Dico questo perché la cosa che più mi sorprende è la ripetizione all’infinito dello stesso schema in un libro appena tradotto da Feltrinelli e scritto da Francois Jullien, L’inaudito. All’inizio della vera vita (152 pp., 17 euro). L’autore, leggo nel risvolto di copertina, “è uno dei migliori filosofi e sinologi viventi, docente all’Université Paris-VII Denis Diderot. I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo”. Il perché di questo, credo, è appunto nella presenza simultanea, anche in questo caso, di lirismo percettivo (un po’ come nel giovane Camus) e ruminazione razionalizzante (come in Derrida).
Si comincia con l’autore che per anni ha fatto gite solitarie in spiaggia, alla foce del Rodano, in un’ora del giorno in cui la folla se ne va e il mare si rivela, può rivelarsi come rappresentante esemplare dell’inaudito. Cito quasi a caso alcune righe esemplari, anche queste, di fatto riassuntive e conclusive dell’intero libro (pp. 127-128), che commentano una poesia in prosa di Rimbaud, “Alba”, tratta dalle Illuminazioni: “Nella transizione dell’alba si vive l’effrazione dello Stesso che si staglia e sprofonda nelle sue proprietà che lo assegnano e immobilizzano. Così al trasporto in seno alle parole, come quello operato dalla metafora, corrisponde il trasporto interno di un sé che, tramite dislocamento al di fuori di quel sé rinchiuso, in quel debordare è portato allo sviluppo-trasporto, fortunosamente esprime quei due aspetti. Nello slancio che deporta il sé, si esalta l’Altro dal suo ricoprimento”.
Poesia o filosofia? No, poesia e filosofia, filosofia come poesia, il non dicibile che diventa detto nell’udire l’inaudito, ciò a cui comunemente non diamo ascolto. Tutto qui: ma tirato avanti in continue ripetizioni e variazioni per tutto il libro, con lapalissiana aura di mistero e cieca devozione all’oltre. Jullien è un sinologo, della cui competenza professorale non dubito. Mi chiedo soltanto se a uno studioso come lui, che deve aver letto Il libro del Tao di Lao-Tse (81 aforismi), non sia stato tentato neppure per un attimo di ascoltare e seguire quel grande maestro del parlare poco; o ispirarsi per un attimo al ragazzo Rimbaud, per il quale l’inaudito fu smettere di scrivere: cercò “l’inizio della vera vita” fuori della letteratura e senza più parole. Forse si sbagliò. Ma chi lo prende come esempio (Jullien lo fa) può fare con le parole l’esatto contrario?
Questo paradosso francese non è ancora diventato noioso? I professori parigini di filosofia non si annoiano mai del loro “sé”, non sanno che cos’è la noia? Baudelaire lo sapeva: la definì un “mostro delicato”, un sognare rivoluzioni fumando la pipa. E Montaigne, a chi gli avesse detto di voler scrivere un libro sull’inaudito e sull’inizio della vera vita, avrebbe risposto: “Le vite più belle, secondo me, sono quelle che si conformano al modello umano e comune, con ordine, senza eccezionalità e stravaganze”. Ma la maggior parte dei filosofi non ha imparato quasi niente da Montaigne.