Roberto Calasso, una meravigliosa incoerenza
Il catalogo dell’editore. E il meglio del saggista, un letterato integrale. Seppe ribellarsi a una “geografia prestabilita” che costituiva allora la letteratura e la cultura
Il lascito più duraturo di Roberto Calasso è quello che si vede sugli scaffali della mia libreria: soprattutto narrativa e saggistica Einaudi tra i libri che ho comprato negli anni Ottanta e Novanta, soprattutto narrativa e saggistica Adelphi nel ventennio successivo. Forse non è giusto dire, come si sente ogni tanto, che il canone Adelphi ha affiancato e in parte sostituito il canone Einaudi, perché mentre il canone Einaudi indubbiamente esisteva, con precisi confini, ampi ma – quando l’Adelphi nacque, nei primi anni Sessanta – non amplissimi, il canone Adelphi era e in buona parte ancora è una selezione fondata non su un ideale ma su un gusto, o meglio su un peculiare, persino strano assortimento di gusti. “Faremo solo i libri che ci piacciono molto”, aveva detto Bazlen (lo riferisce Calasso nell’appena uscito Bobi); e quella linea è proseguita dritta, con pochissime deviazioni, fino ad anni recenti, e in anni recenti con deviazioni dovute, più che a oscillazioni nel giudizio, alla forza commerciale di certi autori (la miniera Némirovsky, la super-miniera Simenon, persino Ian Fleming).
Il canone Adephi fondato su un gusto, non un ideale
Solo che al “noi” di Bazlen è subentrato sempre più decisamente l’“io” di Calasso: il quale sapeva circondarsi di collaboratori capacissimi, a cui erano affidati in blocco soprattutto gli autori italiani, quasi sempre morti (Gadda, Sciascia), quasi mai giovani, ma che aveva poi l’ultima parola su tutto e tutti: per evitare di diventare come tutti gli altri, di fare “l’editoria degli editor”, senza che il catalogo fosse informato da un’ispirazione riconoscibile, da uno stile. Ora, quella ispirazione e quello stile nascevano, in origine, nell’Italia del miracolo economico, per contrarietà, per reazione – scrive sempre Calasso – a una “geografia prestabilita che costituiva allora non solo la letteratura ma, in una concatenazione che sembrava inscalfibile, anche il cinema, la politica, la pittura, il teatro, la moda e il resto”. Bisognava sbarazzarsi delle idee correnti (crocianesimo, marxismo, storicismo, razionalismo), e trovarne di nuove.
Di qui, se si guarda retrospettivamente il catalogo, lo strano assortimento di cui dicevo: le scienze sociali allora più periferiche, come l’antropologia, l’etnologia, il folclore; fior di volumi sul liberalismo, il più solare e aperto ed europeo degli ideali etico-politici (ad Adelphi la mia generazione deve, tra l’altro, Isaiah Berlin; e poi i dissidenti e gli esuli dell’est come Kundera, e grandi poeti come Milosz e Brodskj); ma poi, di contro, filosofi pensosissimi, un po’ profondi un po’ gigioni, e l’attrazione per i filoni più ctoni del sapere, per la gnosi (Puech), per il mito (Guénon!), per l’Oriente, insomma per tutto ciò che la ragione occidentale ignora o irride (una volta, certo, molto più di oggi: ma anche adesso, scadono i diritti di Pavese e Adelphi sceglie, nel catalogo, i Dialoghi con Leucò). Che meravigliosa incoerenza.
Quanto al saggista, ne esistono due tipi. Quelli che illustrano la loro visione del mondo senza bisogno di mediazioni, dicendo che cosa pensano di questo o quel fatto, o costume, o ideale; e quelli che preferiscono parlare della visione del mondo degli altri, discutendo i loro libri, in modo che attraverso la discussione venga fuori la loro. Calasso apparteneva ovviamente a questa seconda famiglia di letterati integrali. Gli esperti studieranno adesso l’opera “senza nome” che ha costruito negli ultimi decenni, dalla Rovina di Kasch (1983) a La Tavoletta dei destini (2020). Ma a me pare che il suo meglio, sia quanto a forza argomentativa sia quanto a qualità della scrittura, lo abbia dato nelle pagine più occasionali scritte fra i trenta e i cinquant’anni e raccolte nei Quarantanove gradini: qui – liberata dal peso dell’affabulazione, costretta a un dialogo serrato con i testi – splende una delle intelligenze critiche più notevoli del nostro secondo Novecento. Parlando del padre giurista e “glossatore” nei ricordi d’infanzia intitolati Memè Scianca, anche questi pubblicati in questi giorni, Calasso osserva: “E questa idea di uno scritto che nasce da un altro scritto, lo rielabora, gli aggiunge qualcosa che prima non c’era, mi sembrava qualcosa da seguire”. E’ difficile pensare a una vita che più della sua sia stata fedele a questa consegna.