Il Foglio del weekend
I no vax del sesso
Sono arrivati i sessopiattisti. Il dibattito sull’inclusività non è mai stato così esclusivo e censorio. Dagli asterischi allo schwa, cancellare il corpo non ha risolto niente
Superate a destra, ancora una volta. Per dieci anni abbiamo disquisito sulle desinenze al femminile che Laura Boldrini avrebbe voluto imporre ovunque e comunque, e le ministre e le sindachesse e l’avvocata che è un dato certificatissimo anche dalla chiesa cattolica, “Salve Regina avvocata nostra”. Adesso che il cosiddetto “maschile sovraesteso”, rigorosamente non binario, con cui è stato definito il mondo per millenni iniziava a essere messo in discussione e che le donne stavano per uscire dall’invisibilità lessicale – che è poi fattuale, perché se una realtà non è data non ha nemmeno dignità linguistica – è arrivato l’asterisco della non binarietà. Per i colti e i fortunati provvisti di tastiera internazionale è già invalso l’uso dello schwa o scevà in ebraico, che è la sua definizione poi adottata e adattata dalle altre lingue, cioè la “e” ribaltata.
Per chi non lo sapesse, lo scevà non è un simbolo dell’ultima ora a uso inclusivo, ma il fonema più antico del mondo, un precipitato diretto dell’indoeuropeo: indica una vocale centrale media, talvolta atona. Si trova anche in napoletano (“mammeta”, “soreta”). Il significato dello scevà è la sua negazione: definisce l’insignificante, ed eccoci quindi arrivati allo scopo del suo utilizzo attuale in desinenza. Rendere insignificante quanto lo precede, cioè la realtà sessuale dei corpi, il paradigma del corpore vili, a favore del percepito che l’individuo vorrebbe di sé e per sé da parte degli altri, a prescindere dalla realtà sensibile della sua presenza e del segno visibile che dà di sé. L’idea contro la natura, e chissà che cosa ne avrebbe scritto Rousseau.
Le battaglie per il femminile sono state fagocitate, violentemente, dal gender queer. Per i ragazzini, purtroppo, perché come ovvio la questione non può essere ricondotta al successo sui social, è diventata addirittura una moda: il figlio dodicenne di una collega ha deciso di dichiararsi non binario su TikTok, e usa un sacco di asterischi mancandogli la cultura dello scevà. Farlo, dice, permette di conquistare un sacco di follower. Car* ragazz*. Poi stia a chi legge cercare di capire, comunque di accettare, pena l’esclusione sociale o, purtroppo, attacchi social di una ferocia inaudita dai tempi medievali, attorno ai quali vige un incredibile e timoroso silenzio. Per questo non possiamo rivelarvi il nome della giovane artista che ha coniato il termine più adatto a definire questo nuovo, sparuto ma violentissimo movimento di interesse, mediatico, politico e, va da sé, commerciale: i sessopiattisti.
Quelli, perlopiù giovani maschi non necessariamente in transizione, ma anche qualche volenterosa femmina che in questo genere di battaglie non mancano mai, come le vivandiere al seguito degli eserciti mercenari che razziavano e stupravano e che poi si godevano gli avanzi delle razzie, per i quali il sesso di nascita non esiste, anzi è solo una sovrastruttura sociale, una percezione, una psicologia e comunque un’imposizione patriarcale. Il sesso, il corpo, non hanno valore in sé, ma sono assoggettabili alla volontà del singolo e al riconoscimento che di questa volontà, anche parziale, anche transitoria, devono fare gli altri. Discussione vietata, analisi di possibili soluzioni che accolgano identità terze senza andare a detrimento di chi vorrebbe conservare la propria idem; lati oscuri e pericolosi dell’indeterminatezza identitaria nella tutela di soggetti deboli, di solito appunto donne (case rifugio, prigioni), mai presi in considerazione. In buona sostanza, i sessopiattisti sono la declinazione sessuale dei no vax: la mia libertà anteposta alla tua.
Non ti va bene? Al diavolo, anzi a morte. La nostra artista del sessopiattismo di recente ha lasciato un collettivo in cui le era stato sostanzialmente proibito di definirsi donna per non escludere chiunque avesse voluto aderire, di altro/i orientamento/i sessuale/i o, per meglio dire, identità, magari non proprio in quel momento ma in futuro. Sentendosi donna, felice di esserlo e orgogliosa della propria identità, dunque non solo cisessuale ma anche interessata a estendere i risultati delle proprie lotte ad altre donne e ad ascoltare anche con interesse esigenze altre, questa trentenne di ottime speranze non aveva intenzione di farsi definire da un asterisco o dalla scevà dell’insignificanza, per cui ha lasciato il gruppo, come potete immaginare bandita per sempre e vituperata pubblicamente, modello Baruch Spinoza. Per questo, si fa carico di parlarne Paola Tavella, consulente del ministro Mara Carfagna presso il dicastero del Sud, autrice Rai, femminista storica e, nel 1982, fra i sostenitori e i consiglieri della legge 164, cioè la norma che ha definito la “rettificazione nell’attribuzione di sesso”, il riconoscimento civile della transessualità.
Tavella, che rifiuta dunque qualunque accusa di ostilità nei confronti di chi cerchi una nuova identità sessuale, proprio e appunto in onore delle tante battaglie condotte negli anni Settanta “quando gli uomini frequentavano i trans di notte e si rifiutavano di riconoscerne l’esistenza di giorno, e dunque eravamo solo noi dei collettivi femministi a occuparcene”, ammette di trovarsi al momento in situazione piuttosto complicata. La confusione, torniamo su questo punto perché è essenziale e rivelatore, è dato anche dalla confusione lessicale in cui incorrono anche le più leste a uniformarsi, prima fra tutte Michela Murgia che, in un articolo per Repubblica sull’esperienza olimpica di Paola Egonu che era tutto uno scevà, dunque come minimo pedante e per non dire illeggibile, ne ha dimenticato uno. Un pronome dal sen sfuggito, anzi dal petto, per carità non nominiamo il seno. Anche se la neolingua sessopiattista nazionale non ha ancora toccato i vertici dell’ipocrisia anglosassone che vorrebbe definire le donne “menstruator” (ovvie proteste fra le menopausiche, che scomparirebbero nel nulla peggio che ai tempi in cui l’Aretino vagheggiava di cancellare tutte le anziane dalla faccia della terra) oppure “individui con la cervice” – che è poi biologicamente escludente quanto la definizione di “femmina” perché trovateci un individuo nato col pene che ne abbia una.
Mentre una tizia su Twitter scrive di lasciar perdere con “gli unicorni autocertificati e i sessopiattisti queer” (la definizione sta facendo presa), Tavella mette in guardia contro quello stesso femminismo di nuova generazione che, lungi dall’includere, come dichiara, ogni espressione di identità sessuale, in realtà si sofferma unicamente sull’aspetto lessicale, linguistico della questione, evitando accuratamente il dato di base e di partenza, che è la sessualità e la sua espressione sensibile, il corpo: “Noi partivamo dall’esperienza del corpo, dal sesso, dalla maternità, dall’esperienza che ognuna ha di sé e con se stessa. Questo femminismo, scisso dal corpo, giustifica e amplia un attacco misogino al femminile, al corpo fecondo, generatore, quale non credevo avrei mai visto. La miseria simbolica e materiale con cui si esprime, quel cincischiare di mestrui e cervici, è tale che te ne ritrai inorridita, ed è forse il motivo per cui così tante donne ancora tacciono. Non che un tempo l’oppressione fosse meno forte, ma il nostro era un movimento sociale che voleva cambiare il mondo. E ci è riuscito”.
L’unico motivo di interesse di questo momento buio dell’esperienza umana delle donne, aggiunge, è che “l’invidia per il femminile sia così scoperta, il livore misogino così evidente” e, forse, l’obiettivo finale non così nascosto: azzerare, mercificandola, l’esperienza della maternità, finora esclusiva del femminile e come tale oggetto di timori e pulsioni ancestrali, finora mai affrontate se non con la sferza della religione o con le difficoltà delle legislazioni. Scindere a poco a poco perfino linguisticamente corpo, identità ed esperienza sessuale anche di trasformazione, e teniamo a sottolinearlo perché la legge 164/82 è una conquista di cui gli estensori debbono andare orgogliosi, apre a un futuro di indeterminatezza complessiva che non prefigura l’accettazione pansessuale, ma il suo contrario.
Una posizione che Tavella condivide con diverse voci alte e importanti dello stesso transessualismo e della lotta per i diritti omosessuali e non binari, primo fra tutti Giovanni Dall’Orto che, forse a causa del nonno gerarca, di recente è stato accusato di fascismo sovraesteso per via dell’acutissimo sillogismo (vedete che gli studi classici servono) con cui ha inchiodato il gender queer alla propria sostanziale omofobia: “Orban e Pillon e Salvini”, ha scritto sul suo blog, “rappresentano l’omofobia vecchio stile (diretta, basata su ideologie ottocentesche) che conoscevo da bambino; la teoria queer è invece la versione ideologicamente aggiornata al XXI secolo dell’omofobia, che usa concetti del XXI secolo per negare comunque l’esistenza di un orientamento omosessuale (sostituto da una ‘identità’ che può e deve se necessario cambiare: basta volerlo) e dalla fin fine dell’omosessualità stessa, che è giusto una costruzione sociale. Ma alla fine, sempre di omofobia si tratta”.
Che il sesso biologico si possa cambiare è, appunto, opportunità di legge. Ma, come aggiunge un’altra voce critica sul gender queer, la sociologa Neviana Calzolari, dirigente dell’assessorato per la qualità dei servizi sociali a Modena, che ha completato il percorso di transizione non troppi anni fa e, di suo, più che sullo “pseudo-linguaggio di cui si sono infatuate le ragazzine” lavorerebbe volentieri attorno alla capacità di ascolto e di gestione dei centri di orientamento: “Esiste un femminismo possibile, e un linguaggio possibile, fra biologia ed esperienza, mentre quella che vedo adesso all’opera è la negazione dell’esperienza umana della transessualità. E che no, non è il transgender, nel ddl Zan nemmeno menzionata. La transessualità riguarda il genere, ma anche il corpo, eccome”. Con Calzolari, che ha all’attivo molte pubblicazioni ed è particolarmente critica con l’appiattimento di una corrente della sinistra sulle posizioni lgbtq+ più estreme, di fatto recependone le istanze senza promuovere un confronto, “il cosiddetto transfemminismo, che ha fatto della sovrapposizione tra sesso e genere il proprio verbo politico e culturale, è di fatto collusivo con uno status quo patriarcale, e non a caso si è reso sistematicamente responsabile di atteggiamenti e comportamenti verbali di stampo tipicamente maschile e aggressivo nei confronti del mondo femminista, che invece rivendicava il riconoscimento delle differenze come base di partenza per una possibile integrazione delle varie istanze politiche e sociali”.
Come potrete immaginare, le posizioni di Calzolari le hanno causato infinite minacce personali (ci ha risposto al telefono quasi per caso, mentre ci eravamo già rassegnate a inviare un messaggio di auto-presentazione), soprattutto attorno al tema dei diritti-doveri, linguaggio incluso si intende, e di quella che in un suo recente scritto ha definito “l’artificiosa e arrogante pretesa del transfemminismo di imporre l’inclusività sulla base di soli vissuti esperienziali rispetto alla fantomatica identità di genere, prescindendo dalle differenze sessuali”, a causa della quale si è “alimentata una simmetrica e corrispondente chiusura difensiva e settaria nella componente del femminismo radicale italiano che riduce l’identità sessuale alla sola dimensione biologica, e che non è minimamente interessata a creare opportunità di condivisione con le donne transessuali ma solo reciproca esclusione”.
Mentre parliamo un po’ di tutto, anche di esperienze personali, ricorda quella volta che partecipò al Gay Pride di Milano alzando un cartello piuttosto divisivo: “La transessualità non è un pranzo per gender queer”. Non può esserlo neanche questa ossessiva focalizzazione sul linguaggio, “che è un’arma”, e anche abbastanza forzata, “di distrazione”. Come per Dall’Orto, anche Calzolari ritiene che alla base delle due visioni opposte, transfemminismo e femminismo radicale, vi sia una forte sessuofobia: “La paura di fare i conti con la dimensione sessuale e valorizzare l’importanza di costruire rispetto a questa un rapporto positivo, chiaro e onesto. Paradossalmente ciò che le accomuna è la paura a fare i conti con il corpo transessuale, con la sua diversità irriducibile ma anche con la sua appartenenza a una binarietà che è perturbata dalla nostra esistenza”. Molto più facile costruire castelli ideali attorno all’identità, cambiarla come un abito, a stagione. Prescindendo sempre dal corpo, il corpo vile, depositario di passioni e di pulsioni. Chissà perché, tutta questa faccenda ci puzza di Controriforma.
Universalismo individualistico