La recensione
Le due Rose di Ritanna Armeni
Un romanzo di formazione nella Roma del ’68
Dove si trova la felicità? E di che cosa è fatta? A Rosa sembra di toccarla una prima volta quando, dal suo meridione, arriva a Roma come studentessa di lettere fuorisede negli anni in cui la Grande Storia si mostra come rivoluzione a lei, figlia di un padre operaio e di una mamma part-time alla Standa, mentre arriva nella capitale da una piccola città dove non vuole tornare senza aver messo in mezzo una laurea, antidoto a una vita angusta con dittatura del parrucchiere (quello imposto alle sue amiche una volta a settimana). Lei, Rosa, la protagonista di “Per strada è la felicità”, ultimo romanzo di Ritanna Armeni (ed. Ponte alle Grazie) non è come i fratelli né come le altre ragazze di provincia contente dell’invisibile recinto che le contiene e le imprigiona, e per questo è stata mandata all’università da un padre lungimirante, nel nuovo grande mondo fatto di tram e bar, folla brulicante e ponentino, libri e case in condivisione chiamate per brevità “Comune”, in un turbinio di assemblee, volantini e scantinati del ciclostile, schiavitù nascosta nell’apparente libertà.
È il 1968, e la Rosa studentessa sta per incontrare un’altra Rosa, la Rosa che le farà compagnia per i due anni successivi, oggetto cangiante della sua tesi di laurea: simbolo della lotta (fa Luxemburg di cognome), ma anche insospettabile paladina di un amore per la vita che a volte collide e a volte accompagna l’impegno nell’Internazionale. “Cinciallegra”: è quel soprannome dato da Rosa Luxemburg a se stessa a insospettire e affascinare per la prima volta Rosa – che intanto combatte con il movimento studentesco davanti alle fabbriche, e va ai cortei, e percorre tutte le tappe anche dolorose di un’educazione sentimentale e politica in cui il confine tra le due dimensioni sembra lì per lì inesistente, e si innamora di un compagno più intelligente degli altri che vuole non vuole l’amore borghese pur avendo un borghesissimo matrimonio. Chi è l’altra Rosa? si domanda Rosa mentre legge le lettere di Luxemburg a Leo, l’uomo che – scoprirà la ragazza – non ha capito chi fosse diventata, nel tempo, la donna che aveva di fronte.
E osservando la sua eroina in uno specchio Rosa la vede insospettabilmente obbediente, nonostante la grandezza intellettuale, obbediente a un uomo che oltre alla passione non riesce a nascondere un filo di invidia. È un pensiero che all’inizio spaventa la Rosa studentessa nel 1969, quella che parla con gli operai sotto lo sguardo di Camillo, presente eppure sfuggente. Ed è un pensiero che non subito rompe la cupola di certezze delle sue compagne – dalla “pariolina” Antonella alla studiosa Luisa – tutte fidanzate con giovani rivoluzionari a cui tutte, senza accorgersene, portano idee, spunti, aiuto, lavoro, impegno ma senza riconoscimento. E sembra di vederle, le ragazze che animano le pagine del libro, mentre sbuffano al ciclostile e dipingono l’armadio, fino a che due eventi, uno privato, uno pubblico, arrivano a spezzare il ritmo di un Bildungsroman che chiede a tutte di fare una scelta.
Dall’America arrivano le prima notizie sul movimento femminista, ma è come se Rosa già sapesse, già capisse. È come se il mondo asfittico della lotta un passo indietro a qualcuno non le appartenesse più, come non le appartiene più quell’appagamento intermittente che le arriva da Camillo, ma sempre con un fondo di amarezza: lei è altro e vuole altro, non può permettere a se stessa il “rinsecchimento dell’animo”. La consapevolezza arriva durante un viaggio lampo nella Torino operaia – dove i meridionali sono relegati in dormitori fetidi, non graditi nelle trattorie. E prende forma tra lacrime e risate: i rivoluzionari sembrano più retrogradi dei loro padri, ma la felicità esiste, basta decidere di andare a prenderla.