Facce dispari
Jarbas Faustinho Cané, il nero napoletano
"La differenza è sempre tra ricchezza e povertà. Bianco, nero, giallo, un povero è un povero. Conosco poveri bianchissimi"
Un simbolo quando il calcio era un altro calcio. Chiamato 'o niro' ma mai irriso negli stadi. "Inginocchiarsi? Non può diventare un gesto obbligato". Intervista a Cané
Cané precisa che arrivò da Rio de Janeiro nella mia città alcuni giorni prima che nascessi e quindi è “più napoletano” di me. La sua figurina si collezionava negli album dei calciatori Panini al tempo in cui allo stadio s’andava con cappello, ombrello e merenda, come a un ufficio o all’officina dove si presta servizio di domenica. Un ciuccio addobbato di cornetti compiva il giro di campo, il turiferaro scacciava la mala sorte con l’incenso e non è amarcord per uso scrittura, ma memoria comune a decine di migliaia di persone che vedevano le partite all’impiedi e si ristoravano, nell’intervallo tra i due tempi, sedendo su un irrisorio cuscino di paglia. Prima dello sbarco sulla Luna. Adesso che moltissima di quella gente s’è dissolta nel tempo e dal campo, confortante è ritrovare il canuto Cané Jarbas Faustinho, attaccante brasiliano del Napoli periclitante tra la serie A e la B quando il patron era ’o comandante Achille Lauro, sindaco monarchico che regalava una scarpa prima e l’altra dopo il voto, antesignano del populismo che però una volta morto pochi napoletani avrebbero spedito all’inferno.
In quei campionati senza tifoserie organizzate, dove sporadica era la violenza e prevalente lo sfottò, Cané fu faccia dispari perché tra i rarissimi coloured del calcio italiano. Così adesso un po’ lo disturbano le polemiche sull’inginocchiamento per il Black Lives Matter, non ricordando razzismo vesuviano all’epoca sua – pensate invece agli Stati Uniti dei Sessanta – bensì l’affetto con cui i tifosi lo chiamavano ’o niro, favoriti da una lingua in cui “negro” non esiste e sonno e sogno, anche nel calcio, sono indicati da una parola sola: “suonno”, giacché – la Smorfia insegna – sono la stessa cosa quando le palpebre s’abbassano.
Cané, lei approdò a Napoli nel giugno del ’62 a poco meno di ventitré anni. Si ambientò facilmente?
Come tanti ragazzini brasiliani, sognavo di giocare all’estero sin da quando davo i primi calci al pallone. Immaginavo questa magnifica Europa guardando le fotografie sui giornali sportivi. Quando il comandante Lauro mi prese nel Napoli, mi ci trovai subito bene: la città assomigliava a Rio nel carattere e negli usi. Si faceva molta vita sociale porta a porta prima che cambiasse il mondo, sia a Napoli che a Rio. Dopo due anni mi fidanzai con una ragazza napoletana che sarebbe diventata mia moglie.
Soffrì mai il razzismo?
Scherziamo! Mai offeso. Tuttora mi fermano per strada, e se prima mi chiedevano l’autografo oggi domandano un selfie. Se proprio voglio suscitare un insulto, dico ai miei interlocutori che mi sento più italiano d’adozione che napoletano. Non la prendono bene ma poi ne ridiamo.
Cosa pensa delle polemiche sull’inginocchiamento delle squadre agli Europei in nome del Black Lives Matter?
Credo che fosse un gesto da compiere solo per chi sentiva di farlo con spontaneità, non un rito obbligato. Sennò, per coerenza, bisognava chiederlo anche al pubblico negli stadi oltre che ai calciatori.
Lei si sarebbe inginocchiato?
Io sì, senz’altro. Ma chi non ha voluto farlo mica è razzista per questo. Su quest’argomento bisognerebbe produrre meno chiasso e più fatti. Certe iniziative mi sembrano propagandistiche e stereotipate in tutto il mondo. Vuol dire che siamo a corto di idee. Oltretutto, la questione vera non è il colore della pelle.
E qual è?
È la differenza tra ricchezza e povertà. Bianco, nero, giallo, un povero è un povero. Conosco poveri bianchissimi.
I tifosi del Napoli coniarono per lei uno striscione reso celeberrimo da una foto di Luciano De Crescenzo: ‘Didì Vavà e Pelé site ’a uallera ’e Cané’. (Non traduciamo).
Non meritavo tanto, ma mi fece piacere. Didì fu un giocatore enorme, Vavà un toro e Pelé… bisogna che lo dica? Siamo quasi coetanei, lui classe ’40, io ’39.
Maradona “è meglio ’e Pelé”?
Non c’è uno migliore dell’altro, sono stati due fenomeni. Nasceranno altri come loro? Chi vivrà vedrà, ma sul “vedrà” non sono tanto certo. La differenza è stata nel destino: a Maradona è stato consentito, anche dalla famiglia, di abbandonarsi e andare incontro a una fine assai triste. Pelé invece è stato protetto anche dalla gente di cultura del mio Paese. Vive su una sedia a rotelle, con un rene solo, ma non lo hanno mai lasciato solo.
Lei da calciatore ha vissuto momenti difficili?
I miei torti li ho ricevuti. Il peggiore quando, dopo dodici anni nel Napoli, mi cedettero al Bari senza dirmi niente. Allora non potevi rifiutarti. Nella stagione ’68/69 avevo giocato 34 partite su 34. L’allenatore, Beppe Chiappella, mi faceva riposare fino al giovedì poi mi metteva in campo la domenica. A fine campionato avevo un ginocchio in disordine, sicché Chiappella e il presidente Ferlaino mi fecero visitare e il medico disse che avevo solo bisogno di riposo e di una terapia. Partii per il Brasile e tornai dopo poco più di un mese. Sul volo per Roma uno stewart che conoscevo mi disse: “Cané, cos’è successo? Ti hanno venduto al Bari?” E mi mostrò il giornale che dava la notizia. Quando atterrai a Roma, avrei voluto riprendere il primo aereo per tornare a Rio, ma avevo figli e famiglia in Italia. Rimasi a Bari tre anni, mi riprese il Napoli nel ’72 e giocai fino al ’75. A trentasei anni mi sono ritirato, poi ho fatto l’allenatore per i successivi venticinque.
Su questa strada l’ha seguita suo figlio Ivan, che ha allenato la Primavera del Napoli.
Ha cresciuto lui Lorenzo Insigne, grandissimo talento.
Insigne resterà al Napoli?
È cretino se non se ne va. Mi casca il cuore a vederlo ancora giudicato dal presidente Aurelio De Laurentiis dopo le prodezze compiute in Europa. È un giocatore richiesto dappertutto, può raddoppiare i guadagni anziché restare a fare il capro espiatorio della squadra dentro e fuori dal campo. Qui se arriva un ragazzino straniero con la Ferrari e il Rolex nessuno lo giudica male, invece Insigne, essendo napoletano, pare quasi che non possa essere libero.
Ma i calciatori non guadagnano troppo?
Se il calcio si muove soltanto sui soldi la colpa non è loro. È dei presidenti. Guardi il progetto Superlega: un tentativo basato solo sulle aspettative di guadagno. Se i governi non intervenivano a bloccarlo, avremmo assistito a questa nuova sorta di America falsata.
Le piace il nuovo mister del Napoli, Luciano Spalletti?
È fra i migliori in Italia, ma non conosce ancora l’ambiente e già si è sbilanciato troppo: non bisogna fare debiti con la bocca, perché la gente si ricorda e ti presenta il conto. Il calcio a Napoli è troppo importante. Un pronostico non lo azzardo perché il mercato è aperto: se il club migliora la rosa può ottenere risultati, ma se la squadra resta questa non andrà lontano.
Quale tecnico del recente passato ha apprezzato di più?
Sarri. Sono stato come lui sulla panchina del Sorrento e ho vinto un campionato. Ha fatto sorridere Napoli anche non vincendo titoli, capace di giocare un calcio bellissimo con squadre normali. Poi è andato alla Juventus e non s’è saputo misurare: lì doveva fare alcuni passi indietro. Non puoi comandare al potere. Non lo aveva capito.
Cosa manca al Napoli?
È una società senza dirigenti che capiscano di pallone, con un presidente intelligentissimo ma che continua a denigrare la città. De Laurentiis, dal punto di vista calcistico, è un uomo fortunato. Col pallone ha guadagnato più che col cinema. Dovrebbe smetterla di avere verso Napoli un atteggiamento ostile.
Preferiva il comandante Lauro?
Era un esponente del popolo e condivise la ricchezza con la povera gente. Quando giocavo con Sivori e Altafini, suo figlio Gioacchino ci metteva in una Cadillac e giravamo fra i paesi del Vesuviano per fare pubblicità alla squadra porta a porta. Un altro mondo.
Più bello?
Sicuramente. Un episodio indimenticabile fu quando risalimmo in Serie A nel 1965 vincendo 3-1 a Parma. Segnai una doppietta. All’indomani una folla impressionante aspettava il nostro ritorno alla Stazione Centrale. Il treno arrivò alle dieci di mattina, i tifosi lo bloccarono. Riuscii ad arrivare a casa della mia fidanzata alle cinque del pomeriggio.
Eh, altro che assembramenti. A proposito, si è vaccinato?
Ho fatto le due dosi e malgrado tutto non vedo ancora le condizioni per tornare in Brasile a trovare i superstiti della mia famiglia: una sorella e un fratello maggiore che ha 93 anni. L’ultima volta a Rio fu con mia moglie, per due mesi a fine 2019, poco prima della pandemia. In Brasile dovevamo essere più preparati, perché è un Paese che vive continuamente l’esperienza delle infezioni. Hanno prevalso gli interessi economici. Come nel calcio adesso. I soldi prima di tutto.
Lei visse a Napoli un’altra emergenza sanitaria: il colera del ’73.
Il primo anno che allenava Vinicio. Spostarono la preparazione della squadra per quindici giorni a Casoria, un Comune dell’area metropolitana. Ebbene, già lì ci apostrofavano come malati…
Poi il famigerato coro “colera, colera” si sarebbe replicato per decenni in parecchi stadi d’Italia contro il Napoli. L’ultima volta però, al Rigamonti di Brescia il 22 febbraio 2020, dagli spalti fu intonato: ‘Napoletani Coronavirus’.
S’è visto com’è andata.
Il suo allenatore, poi grande amico Bruno Pesaola “il petisso”, credeva così tanto alla scaramanzia da indossare un famoso cappotto cammello…
…anche col caldo. Mi sono preso cura di lui fino alla fine ma non riuscimmo a fargli avere la pensione d’accompagnamento perché, malgrado avesse giocato da “oriundo” in Nazionale, era rimasto cittadino argentino. Comunque no, non sono scaramantico. Quando allenavo la Turris di Torre del Greco si fissarono che portasse fortuna passarmi un corno di corallo sul sedere prima delle partite. E no, dissi. Così non va bene.
Come impiega il suo tempo?
Mi diverte cucinare, gli amici dicono che sono molto bravo. Non credo sia una bugia, perché i miei piatti piacciono a me per primo. Poi curo il giardino, peccato che abitando a pianterreno non veda il Vesuvio. Infine, se ha notato, amo sempre parlare di calcio.
Questo si nota per diversi milioni di persone.
Sì, il calcio è materia di tutti. Ma mica tutti lo capiscono.