Un dettaglio dell'opera di Giorgio De Chirico, “Interno metafisico” (con alberi e cascata), 1918, Olio su tela, cm. 62X50 Torino, Caterina Bottari Lattes 

Bellezza infinita

Ugo Nespolo

Oltre duecento opere raccontano la storia d’amore degli artisti italiani per l’ambiente naturale e il paesaggio. Una mostra a Venaria 

“La bellezza esige di essere notata”
Roger Scruton


Conviene iniziare pensando a Voltaire e al suo “Dizionario Filosofico” (1764) a proposito del Bello per intendere da subito che ci stiamo per inoltrare in un territorio vasto e intricato dove termini e relativi concetti di bellezza e bruttezza giocano un ruolo polivalente in relazione all’idea ed alla pratica dell’arte. Dice Voltaire: “Domandate al diavolo, vi risponderà che il bello è un paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi, vi risponderanno con discorsi contorti; essi hanno bisogno di qualcosa di conforme all’archetipo del bello in sé, al to kalòn”. Conviene allora allontanarsi rapidamente dall’idea di pensare ed esprimere giudizi a proposito di bellezza legati alla sfera dell’arte basati esclusivamente sulla precarietà del gusto, del giudizio frettoloso e superficiale che subito ci infileremmo in un vicolo cieco e buio in cui si potranno soltanto balbettare incerti vocaboli vaganti tra bello, brutto, interessante o chiuderci in un prudente mutismo enigmatico.

Da tanto  viviamo il tormento letterario che ci racconta della sparizione della bellezza in campo estetico, per lo meno dall’epoca in cui gli artisti si sono rivoltati all’idea di sottostare agli obblighi della rappresentatività, quegli obblighi che favorivano la maestria tecnica, l’approfondimento di una millenaria tradizione legata ai dogmi esecutivi, radicalmente sostituiti da una presuntuosa autonomia del concepire e fare arte, schiava per lo più del soggettivismo e dell’impossibile, perenne inseguimento del concetto di nuovo, cancellato soltanto dall’avvento della postmodernità e dei suoi ritorni al passato attraverso la citazione.

L’ipotesi più che accettabile è quella per la quale la bellezza anziché scomparire e dissolversi, per non essere più riconosciuta, possa essere trasmigrata in altri territori, possa cioè, di nuovo, esser vista in ambito naturale ed in tutta l’estetizzazione del mondo. L’idea di Stendhal per cui “la bellezza è una promessa di felicità” racconta proprio di una possibilità espansa del concetto, quella cioè per cui la bellezza riesce a evaporare per rinascere, sotto forma di promessa, in grado forse di poterci rendere felici. Nel Settecento gli intellettuali, scrittori, filosofi non associavano il concetto di bellezza connesso agli esseri umani, credendola piuttosto proprietà della natura e del paesaggio. I letterati guardavano con nostalgia a un rapporto più semplice e più innocente con il mondo naturale rispetto all’esperienza delle loro stanze di studio.

Forse anche per queste e molte altre ragioni è nata una straordinaria mostra che parla di infinita bellezza, un entusiasmante percorso visivo che, dal Secolo XVIII ai giorni nostri, attraversa l’Italia servendosi dei raffinati strumenti della pittura e che, proprio per esser stata concepita, come scrive Guido Curto, non come Marketing oriented bensì come Curator oriented tradisce – da subito – la sua coraggiosa vocazione intellettuale intrisa d’autonomia rispetto agli obblighi espositivi museali schiavi, quasi sempre, di noti valori omologati e confezionati dal dannato Artworld.

“Una infinita bellezza. Il paesaggio in Italia dalla pittura romantica all’arte contemporanea” alla Reggia di Venaria Reale dal 22 giugno al 1 novembre 2021, racconta, in un viaggio davvero inedito e sorprendente, quanto il tema del paesaggio possa trasformarsi “in una sorta di magica lente attraverso cui osservare il variare della sensibilità e dei modi di guardare non solo alla natura ma anche all’arte stessa”. Lo scrive Virginia Bertone che nel suo saggio Il paesaggio come scelta ricorda quanto quelle suggestioni provenissero in massima parte dalla letteratura e dalla filosofia, e affondavano le proprie radici nell’eterna illusione del primitivismo di Jean-Jacques Rousseau, il quale auspicava il ritorno allo “stato di natura”, indicando nel progresso la causa di tutte le disuguaglianze. Dall’altra parte dell’oceano Henry David Thoreau, a ventotto anni, lasciava la casa natale per ritirarsi sulle rive del lago Walden e  vivere in maniera primitiva e solitaria. Nascerà un romanzo che sarà poi la vera bibbia degli scrittori della Beat Generation.

Già l’opera pioneristica di Francis Hutcheson, a metà Settecento, aveva fatto della bellezza naturale un pilastro dell’estetica, paesaggi, vedute, panorami erano indicati come motivi chiave del bello, sulle orme delle convinzioni espresse anni prima da Shaftesbury, che nei suoi scritti esponeva la convinzione dell’esistenza di un rapporto molto stretto tra bellezza e virtù morale, fatto anche di accenti molto critici nei confronti della religione. Un secolo dopo William Wordsworth, ritenuto uno dei fondatori del Romanticismo insieme a Samuel Taylor Coleridge, con la pubblicazione delle “Lyrical Ballads” stende quasi un manifesto del sentire romantico, esprime la potenza innovativa della ricerca di bellezza da trovare nell’incanto del Lake District, nel nord del Cumberland. Siamo di fronte a quella sorta di romanticismo etico che troverà, qualche anno dopo, una straordinaria conferma nell’opera di Byron, Shelley, Keats.

Non pochi degli ideali romantici saranno alla base dei pensieri e dell’azione che gli artisti ottocenteschi sapranno esprimere nei confronti dell’insegnamento e degli obblighi legati a tradizioni accademiche. Il personale sentire dell’artista inaugurerà una profonda, ricchissima gamma di sentimenti proiettati nel futuro dei quali si servirà a piene mani tutta la cultura del Novecento, capace di dare sostanza, anche teorica, al susseguirsi intenso delle avanguardie storiche, dal cubismo in poi. Sono proprio questi gli anni che genereranno i sentimenti di una rinnovata coscienza dell’arte, indispensabili per aprire all’arte italiana la strada dell’internazionalismo, contribuendo in maniera totale alla sua sprovincializzazione.

Pone bene in evidenza Virginia Bertone come negli stessi anni in cui l’avvento della macchina fotografica rivaleggiava con enorme successo nel campo della resa oggettiva della natura, la cultura figurativa tenda a caricare di significati emozionali i soggetti della rappresentazione naturale, puntando verso la scoperta psicologica di veri e propri “stati d’animo”.

Lo farà Giuseppe Pellizza da Volpedo quando “si servirà proprio del paesaggio per giungere ad un rifiuto del verismo nel far vibrare i cromatici effetti cangianti della sua tavolozza divisionista fino a lasciar trasparire malinconie ed inquietudini, il segno dell’enigmatico abbraccio tra uomo e natura, il desiderio di penetrare evocando, alla ricerca di una “spiritualità capace di cancellare i limiti dello sguardo intriso di tecnicismo e freddo realismo”.

Ecco quindi in sintesi alcuni dei valori base, dei temi di raccolta e ricerca delle oltre duecento opere che costituiscono la mostra allestita nei grandiosi spazi della Citroniera Juvarriana, in gran parte dipinti, ma anche sculture e persino installazioni che documentano l’attenzione e l’amore che gli artisti hanno mostrato per l’ambiente naturale in particolare per il paesaggio in Italia dal primo Romanticismo fino all’arte contemporanea.

In compagnia del ricco nucleo centrale di opere provenienti dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino, in base a un accordo tra il Consorzio delle residenze reali sabaude e la Fondazione Torino Musei, sono in mostra capolavori provenienti dai più importanti musei italiani e da prestigiose collezioni private, in un vero e proprio Tour d’Italie, che comprende tra gli altri: l’Accademia Albertina di Torino, le Gallerie d’Arte moderna di Milano, Genova, Roma e Palermo, i Musei civici di Brescia, il Mart di Rovereto, le Gallerie degli Uffizi, il Museo di Capodimonte di Napoli. Come ben s’intende si tratta di una mostra molto articolata capace di coinvolgere oltre due secoli di pittura, dalle poetiche romantiche del pittoresco e del sublime, all’affermazione positivista del vero, passando attraverso le nuove ricerche divisioniste e simboliste e le provocazioni delle avanguardie, per arrivare all’essenzialità comunicativa della pop art e alle volontà di concettualizzazione dell’arte contemporanea.

La mostra articolata in dodici sezioni insegue quasi un fil rouge cronologico-geografico che è capace d’intrecciare spazio e tempo a partire dal contesto piemontese – dove la mostra nasce – e poi tutto il nord della nostra penisola con occhi attenti e capaci d’illuminare il valore delle scuole regionali del centro e del sud Italia dalla fine del 1700 a oggi.

Converrà soltanto dire di un numero molto esiguo di opere per dar l’idea almeno del concatenarsi dei temi svoltisi in una cronologia davvero vasta e in un ventaglio enormemente variegato di possibilità espressive.

Se questa mostra fosse un racconto lascerei come incipit la parola a una delle opere più celebri ed emblematiche di Giuseppe Pietro Bagetti definito “paesaggista coltissimo e talentuoso capace di spaziare dalla tradizione del rilevamento topografico alla resa di soffusi effetti di luce”. E’ uno di quei “Paesaggi d’Invenzione” dipinti nel 1825 per il Palazzo Reale di Torino. La vista mozzafiato della Sacra di San Michele situata all’imbocco della Valle di Susa giocata pittoricamente tra verità ottica e sentimento del sublime. Con Bagetti, De Gubernatis, Palmieri si deve dire che la pittura di paesaggio s’avvia verso un autonomo e singolare percorso intriso di fantasia, simboli e gusto del sublime insuperati.

Nei primi anni dell’Ottocento prosegue inalterata l’attrazione dei pittori stranieri verso l’Italia capace di tener viva la tradizione europea del Grand Tour.

Sono proprio Roma e Napoli le città che con la Luce del Sud raccontano dall’attrazione senza limiti esercitata dalla bellezza della natura e dall’intensità della luminosità mediterranea, elementi che incantano gli artisti del nord Europa, Francia, Olanda, Germania e non solo e consentono loro di farci rivivere l’occasione unica del magico incontro tra l’incanto della natura e la ricchezza della storia e dell’archeologia. Sono Ludwig Catel con la sua vibrante capacità di rendere l’ambiente urbano, Camille Corot col suo fare classicista calamitato dalla Cascata delle Marmore, che già aveva tanto affascinato Stendhal e Byron. Il giovane Massimo d’Azeglio sa dividere la sua opera tra la pittura all’aperto e il chiuso dell’atelier in una poetica vicina all’olandese Verstappen. A Napoli fiorisce intorno agli anni Venti la Scuola di Posillipo che darà il via ad una profonda riflessione sul paesaggio per merito anche degli insegnamenti dell’olandese Anton Sminck van Pitloo che, con la sua cattedra all’Istituto di Belle Arti di Napoli, metterà in pratica l’uso del plein air. Alla morte di Van Pitloo, nel 1837, sarà Giacinto Gigante ad assumere il ruolo di capofila degli artisti napoletani. Le sue visioni dai larghi frammenti di una natura struggente e solitaria saranno spesso accostate alle opere di William Turner.
Nel 1831 Massimo d’Azeglio si trasferisce a Milano, Capitale del Regno Lombardo-Veneto, ed entra a far parte della famiglia di Alessandro Manzoni sposandone la figlia Giulietta. Lo scrittore Giuseppe Rovani dichiarerà l’entusiasmo per le opere di D’Azeglio i cui paesaggi “formarono l’attenzione dei professori, degli artisti, dei dilettanti, degli intellettuali, del pubblico, di tutti”. Sono opere che eludono la scena inanimata mostrando un nuovo interesse verso i lavori degli artisti francesi e del paesaggio storico o eroico, quel paysage composé che aveva origine dallo studio della natura dal vero. Toccherà invece alla pittura di paesaggio rappresentare l’ambito delle ricerche più innovative e a inaugurare una sorta di “denominatore comune tra le diverse esperienze e generare la tensione verso una ricerca di verità e di personale sentire” (Bertone). La Prima esposizione italiana nel 1861 a Firenze mostra che la via alla contemporaneità non è vicina. Soltanto la pittura di paesaggio con Costa e Fontanesi spezza il vincolo della pittura di storia indicando nuove libertà ed ideali che con D’Andrade, Avondo e Pittara saranno oggetto di raffronto e di reciproche influenze internazionali.

Su altri versanti si evidenzia la personalità di Costa e De Nittis, la cui opera s’impone all’attenzione dei fiorentini e soprattutto di Telemaco Signorini, che sul Gazzettino delle Arti di Diego Martelli scriveva un lungo articolo a proposito della pittura di paesaggio, conferendole persino valori politico-democratici legati alle istanze del Realismo francese da Proudhon e Champfleury.

La lunga stagione del Novecento è inaugurata dall’avvento di una nuova sensibilità fatta di superamento del vero e il ritorno a una ricerca di bellezza come visione ideale e intima dell’universo. Si affievolisce la fiducia verso il positivismo e s’inaugura una stagione votata allo spirituale e al mistico. Sono gli anni del Divisionismo che in Gaetano Previati mira a trasmettere valori squisitamente emozionali. Sarà poi Giovanni Segantini a tentare la riuscita fusione panteistica con la natura incontaminata, il felice sposalizio avvenuto tra uomo e ambiente, via profonda percorsa anche da Pellizza da Volpedo e Morbelli.

Il passaggio ad un’idea dinamica del paesaggio avviene con Boccioni prefuturista (1907-9) mentre il dio della modernità chiede alla natura la possibilità d’inglobare in armonia realtà urbane e protoindustriali. Saranno Balla e Depero a non tralasciare mai il dato naturalistico e paesaggistico persino negli anni delle loro sfolgoranti astratte creazioni futuriste, quando riusciranno a ribaltare l’atteggiamento malinconico ed intimista in opere tutta energia, dinamicità ed allegria. Dal 1930 l’Aeropittura di Dottori, Prampolini, Crali scardinerà le regole prospettiche per proporre punti di vista in rapido movimento, visioni ardite tra cielo e terra.
La mostra scorre per altri passaggi che dall’arte tra le due guerre  s’avvia veloce a quell’ultimo accento di naturalismo proposto dalla Pittura informale, così come la sapranno concretizzare artisti come Birolli, Moreni, Music, Morlotti, Cassinari, senza riuscire mai però a liquidare davvero le scorie di una pittura di paesaggio troppo memore della tradizione.
La sezione Naturalia et artificialia, strettamente connessa a quel Guardar lontano, da vicino: il Paesaggio oggi s’addentra tra l’intrico più che frammentato della ricerca espressiva contemporanea, vittima spesso di una libertà tanto illimitata quanto vuota, e lascia trasparire ancora i toni della ricerca del sensibile, dell’armonia e della bellezza. Lo testimoniano almeno i “Paesaggi Anemici” di Schifano, le fantasie cromatiche di Salvo, i Tappeti Natura di Gilardi, i video di Grazia Toderi.
Racconta davvero un’Infinita Bellezza questa mostra esemplare e provocatoria che, rifuggendo dall’arbitrio del concreto e scontato magazzino del tardo postmoderno, traccia e narra una linea di ricerca del bello e del novum fatto di regole lontane dalla moda, ma – come scrive Gianni Carchia – di “quello vivo della memoria delle Idee, memoria sempre viva di ciò che è inesauribile”.

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