Calasso e Bazlen, il cuore dei libri
Ecco che cosa scrive l’editore, morto qualche giorno fa, nel suo ultimo libro “Bobi”. Una piccola biografia dedicata a Roberto Bazlen, l’inafferrabile triestino che con lui fondò l’Adelphi e cambiò l’editoria italiana
La parola cultura ha principalmente due significati, uno individuale e uno collettivo. Da una parte è quell’insieme delle cognizioni intellettuali che acquisiamo attraverso lo studio e l’esperienza ed elaboriamo autonomamente, dall’altra è l’insieme di credenze, simboli, concezioni caratterizzanti il modo di vita di un gruppo sociale.
Roberto Calasso, da scrittore e da editore, nel nostro tempo, ha contribuito notevolmente a entrambe. Con la sua morte, avvenuta pochi giorni fa, ci ritroviamo orfani di una Kultur e di un metodo sapienziale che ha pochi epigoni, proprio per la sua complessità. Parte dell’influenza sistemica dell’uomo che è stato per decenni direttore editoriale e poi presidente della casa editrice Adelphi proviene da un altro Roberto, Roberto Bazlen, che tutti chiamavano Bobi. Parallelamente alla sua grande opera, partita con La rovina di Kasch e arrivata pochi mesi fa all’undicesimo volume con La tavoletta dei destini, Calasso ci ha regalato dei racconti che parlano di sé per parlare di libri, o parlano di chi fa i libri per parlare del rapporto che ha l’uomo con la sapienza; spesso sono anche i migliori resoconti ragionati su quella che è stata la vera scena intellettuale in Italia, in Europa. In questi testi possiamo andare a scoprire perché oggi l’editoria, come dicono alcuni, “non è più quella di una volta”, o vedere le stratificazioni, i meccanismi della cultura editoriale e della cura del libro, da Aldo Manuzio a Aby Warburg. In quest’ultimo, pubblicato col semplice titolo di Bobi, capiamo, come in una origin story di un supereroe, la formazione del futuro editore tramite l’esempio di quest’uomo triestino dal cognome tedesco. Non maestro ma iniziatore.
Bazlen è stata una di quelle figure nell’editoria che restano nell’ombra, ma mai ci si sognerebbe di dargli l’epiteto di “eminenza grigia”, come fosse un Père Joseph qualsiasi. Il grigio, poi, non gli si adatta, Bazlen è più un “profilo di luce imprendibile”. Più che una figura oscura, sembrerebbe un seguace di quel lathe biosas, quel vivi nascostamente epicureo, che oggi nel mondo degli schermi parrebbe una pratica impossibile. Dice in una lettera: “Mi sono fatto fotografare innumerevoli volte, nemmeno una è riuscita presentabile. Scusami”.
Bobi è inafferrabile anche nel tentativo di descriverlo, ma influente. A lui dobbiamo la scoperta di Italo Svevo e l’anima, appunto, della casa editrice più raffinata che esista, Adelphi, di cui Calasso prenderà le redini. Una casa dove i libri, seppur lontani, si parlano tra loro. Il Bhagavadgītā e Robert Walser, Lo Hobbit e La via di un pellegrino, Karl Kraus e Artemidoro, Georges Simenon e Max Stirner, Gurdjieff e i quaderni di Simone Weil. A volte basterebbe una lista dei volumi pubblicati, in fondo a un tascabile, per descrivere il mondo. Ma il lavoro per costruire attivamente un’editoria alternativa, con una missione sapienziale, copre solamente l’ultima fase della vita di Bazlen. Chi fu prima è difficile dirlo. Si definiva “un ibrido tra un bourgeois e un outsider, due concetti che sono del tutto inconciliabili”.
La Trieste in cui nasce nel 1902 è austriaca, il padre è tedesco e luterano, muore quando lui ha tre anni, la madre è ebrea e borghese. Trieste è una città ricca e “quasi pantagruelica” con pianoforti Boesendorfer, aristocratici biondi e porcellane viennesi, sotto un impero “equo e tollerante” perché possiede “tutta la dignità dei moribondi e cerimoniosi” e la burocrazia “non commetteva ingiustizie”. Lui fa scuole tedesche, in una città che “parla un dialetto veneto, circondata da una campagna nella quale non si parla che una lingua slava”, e dove la borghesia più intellettuale, staccata dall’Italia, nazione a cui crede di appartenere, è costretta a “ricorrere a un frasario rettorico ottocentesco da Risorgimento” esaltandosi per il Nabucco. Quando a sette anni va in gita nel Regno dei Savoia, sopra Udine, esser di lingua tedesca lo fa vergognare a morte di fronte all’atteggiamento garibaldino e tricolore di altri ospiti dell’albergo. Lo additano come oppressore, così si metterà d’impegno “a diventar un oppresso anch’io, a qualsiasi costo, e credo di esserci riuscito abbastanza bene”.
Ma Trieste, “città musicale” dove tutti cantavano, è stata anche stata “un’ottima cassa armonica”. E’ la città che per Bazlen, mentre nel resto del mondo giravano Van Gogh e Alfred Jarry e Oscar Wilde, ha dato uno dei pochissimi contributi vivi “che la letteratura di lingua italiana abbia dato all’Europa di fin de siècle”: Italo Svevo, che non ha ricevuto subito il riconoscimento meritato. Se un giorno lo otterrà è merito di Bazlen, che si opera per farlo leggere, conoscere, tramite l’amico Eugenio Montale; “vorrei far scoppiare la bomba Svevo con molto fracasso”, gli scrive negli anni Venti. E’ a lui se dobbiamo l’ingresso di quel moto di coscienza nella letteratura italiana. Bazlen aveva conosciuto Montale a Genova, dove si era trasferito per lavorare – brevemente – alla Atlantic Refining Co. grazie a un conoscente di origine greca. Montale scriverà in un ricordo: “Quando venne a trovarmi mandatomi non so da chi, egli fu per me una finestra spalancata su un mondo nuovo. Mi fece conoscere molte pagine di Kafka”. Bazlen parla già di Kafka prima che venga pubblicato Il processo. A Montale manda poi la cartolina con gambe di donna che diventerà la lirica Dora Markus. Gli consiglia di tradurre Henry James invece di Conrad. Montale gli dedica la sezione Mediterraneo di Ossi di seppia.
Nell’epistolario col poeta ligure vengono a galla scie dell’indole di Bazlen. Quell’esser nato sotto l’influenza dei Gemelli, segno di Mercurio, cosa che spesso ricordava all’interlocutore (per chi considera gli astri, va ricordato che anche Calasso era gemelli). In una lettera del 1925, annusiamo il carattere di Bobi; invitato a partecipare a una rivista risponde: “siete diventati matti … Io sono una persona per bene che passa tutto il suo tempo a letto, fumando e leggendo, e che esce ogni tanto per far qualche visita o andare al cinematografo. Per di più manco completamente di spirito messianico divulgativo, e non ho mai inteso nessun bisogno di partecipare agli altri le mie idee, tanto meno a lettori di riviste”.
Negli anni Trenta è brevemente milanese, tre anni in cui conosce Gadda e Adriano Olivetti che lo inviterà a vivere a Ivrea. Bazlen non sembra colpito da Milano, e appare strano che questa sia stata l’unica città ad omaggiarlo a livello toponomastico – a metà con Luciano Foà – dedicandogli l’anno scorso un giardinetto dietro via Orti, con un platano centenario e scivoli e altalene.
Le parole scritte da Bazlen sono poche, troppo poche secondo i più. Questa peculiarità diventa il tratto della sua persona: il non aver mai pubblicato nulla in vita. Troppo spesso chi ha voluto creare su di lui un personaggio da feuilleton giornalistico o da racconto salingeriano, l’ha identificato con questa non-attività. Un uomo di lettere, un erudito, un uomo dell’editoria che non scrive! Ci si stranisce per queste cose. Forse adesso più di allora. Nel quaderno E annota: “Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiati in volume (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina”. Le parole messe giù, per lavoro e divertimento, Adelphi – Calasso – le ha fatte uscire negli anni, dopo la sua morte, per poi raccoglierle in Scritti: lettere a Montale, schede editoriali, alcune pagine sparse, appunti. Basta sfogliarlo per capire la fibra talentuosa, l’occhio di un lettore eccezionale. C’è anche il suo romanzo, Il capitano di lungo corso, non finito.
E’ più taoista che epicureo, in realtà, Bazlen. Dal pensatore cinese Zhuāngzǐ aveva imparato che il sapiente lascia il minor numero di tracce di sé, e queste tracce sono i libri di cui parlava e che consigliava – agli amici, a Montale, agli editori per cui lavorava. In queste tracce vediamo un amante dei libri (ma la parola amore è troppo debole, perché potrebbe non prevedere uno scambio reciproco); come dice Sergio Solmi: “L’incontro di Bobi con i libri costituiva più un fatto supremamente naturale come l’incontro con le persone nella vita”. In questi pareri infila ragionamenti di una wittiness fuori dal comune e una profondità critica capace di svelare l’inutile nello Zeitgeist. Non convintissimo del Gattopardo scrive: “Comunque la pagina più brutta vale tutti i ‘gettoni’”, intendendo la collana einaudiana diretta da Vittorini; di Lorca: “Che melensaggine e bovarismo sotto la poesia”, tutti quei “justes chiaroscuri del sole mediterraneo”; di un articolo di Camus su “Aut Aut”: “Una banalità plebea veramente ripugnante”; de La littérature et le mal e di Bataille: “Sculetta davanti all’irrazionale, e ciò che è peggio, davanti all’Ur, che invoca la crudeltà con frasette post-symbolistes non lucide ma lucidate”. Consulta gli I-Ching per decidersi sugli scritti di John Cage. L’uomo senza qualità “va pubblicato a occhi chiusi”.
La collaborazione da “fantomatico consulente Einaudi” finisce nel 1962. Già alla fine degli anni Cinquanta, Italo Calvino scriveva a Giulio Einaudi della paura di “sconfinamenti spiritualistici” nella collana proposta da Bazlen, poi bocciata.
I tempi sembran maturi, o necessari, per portare in Italia qualcosa che riempia quel vuoto che, per paura politica e identitaria, era stato lasciato appositamente vacante. Non c’era – fino alla nascita di Adelphi – un luogo dove tentare di frammentare il discourse di quegli anni e saziare una sete alternativa. Un tempo in cui Nietzsche spaventava terribilmente, in cui parlare di decadentismo, fantastico o irrazionale faceva storcere nasi o venire la pelle d’oca. Ed è proprio dall’opera critica di Nietzsche che si parte, con l’occhio vigile di Giorgio Colli, filologo di rara abilità, affiancato dal germanista Montinari (chi non ha in casa quei libricini gialli?). Le loro edizioni cambieranno completamente la percezione di Nietzsche in Europa. Accanto a Bazlen, nell’avventura Adelphi, c’è Luciano Foà, ex-einaudiano; ne L’impronta dell’editore Calasso lo descrive come “intensamente saturnino”, “lo interessava soltanto andare in fondo”.
Bazlen poteva finalmente pubblicare quei libri che aveva scovato negli anni e che le case editrici con cui aveva collaborato non reputavano adatti. Si potevano fare dei “libri che allora sembravano arrivati da altri sistemi solari”, ha detto in un’intervista Matteo Codignola (dagli anni Novanta in Adelphi, curatore delle opere di Ian Fleming, di recente in libreria con un divertente e acuto libro sull’editoria: “Cose da fare a Francoforte quando sei morto”).
L’idea di Bazlen, che resterà a lungo un mantra adelphiano, è quella del libro unico. Come scrive Calasso il “libro unico è quello dove subito si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto”. I libri sono prodotti, la letteratura è il processo. A Bazlen interessava soprattutto quel processo, e non tutti i processi che portano a un libro possono essere straordinari. Calasso, che farà suo questo mantra, incontra Roberto Bazlen quando sta per nascere questa casa editrice radicale. Ha vent’anni e ha sentito parlare di Bobi in casa, l’amico di famiglia, il pittore Giorgio Settala, era cugino di Bazlen, e quel nome (e quel soprannome poi), ha generato subito una certa curiosità. Informandolo della nascita di questa nuova casa editrice negli anni Sessanta, dice Bobi al giovane: “Faremo solo i libri che ci piacciono molto”. Calasso ricorda esattamente il momento in cui si parlò per la prima volta di Adelphi, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, il giorno del suo ventunesimo compleanno, nel maggio del 1962.
Sono gli anni romani, Bazlen vive in via Margutta 7 e di tanto in tanto frequenta la sala da tè inglese Babington, in piazza di Spagna, accanto alla casa dove era morto John Keats. Tutti fingono di conoscerlo, tra gli onesti ammiratori troviamo Elsa Morante, Elena Croce e Giacomo Debenedetti. Sono stati Elémire Zolla e Cristina Campo a presentarlo a Calasso. Bazlen al giovane parla di libri, che sembrerebbe esser la cosa più cara a entrambi, e di autori allora alieni come René Daumal e Roger Gilbert-Lecomte, che esploravano “il Vedanta accostato a Spinoza, Guénon, lo stato di veglia”. Nomi che poi vedremo nel catalogo. E qui si iniziano a percepire i tasselli dell’impalcatura adelphiana. Il respiro orientale, prima ancora di quello mitteleuropeo. Nella biblioteca appare prima Il monte analogo dell’Andrea di von Hofmannsthal. In Bazlen già da anni hanno rilevanza le influenze dell’est, dell’India, del Tibet, della Cina. Cose impensabili allora. Nell’immediato Dopoguerra aveva proposto per primo la pubblicazione di Freud, di Jung, poi di libri di etnologia, antropologia storia delle religioni. Bobi Bazlen muore in un albergo di Milano nell’estate del 1965. In un taccuino aveva scritto: “Un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi”. Anche Calasso è morto in estate. Due gemelli, due Roberti.
Questo libricino, Bobi, delizioso, profondo, in copertina blu notte e titolo bianco, è un omaggio a quest’uomo “fantomatico” a cui Calasso deve molto. L’occhio del narratore è filtrato dal presente, dalla storia che verrà, ma c’è quella tenerezza da mal d’Africa, l’atmosfera del ricordo che arricchisce l’omaggio con sguardi giovanili. Bobi, insieme a Memé Scianca (uscito sempre nella piccola biblioteca in un raffinato lilla-pervinca) è forse il testo più intimo di Calasso. Nelle descrizioni di Bazlen si sente il calore umano, il macinare del cervello e dell’anima di un uomo visto da molti come un ectoplasma inzuppato nell’aneddotica, uomo favoleggiato, rabdomantico scopritore di opere e di autori che non ha voluto lasciare opere. Come scrive Calasso: “L’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi”.