Critica al pol. corr. che calpesta i valori liberali e sfocia nella cancel culture
Una cosa sono i giusti principi morali, un’altra le leggi censorie
"Politically correct” e “cancel culture” sono due cose diverse. Quello che più conta, mentre il politically correct è compatibile con un’etica pubblica liberale, lo stesso non si può dire per la cancel culture. In termini generali, il politically correct rappresenta una forma di “etichetta”. Meglio, un insieme di raccomandazioni, basate sul rispetto delle persone e il principio di non-discriminazione, che invitano a evitare potenziali offese. Le offese in questione riguardano le nostre opinioni e il modo in cui queste debbano tenere conto di prerogative che riguardano razza, genere sessuale, età, origine etnica o disabilità varie. Tale forma di cautela trae origine negli Stati Uniti degli anni 30, si rinforzò negli anni 60 sull’onda della protesta giovanile e –con l’avvento delle tecnologie digitali – è diventata globale e pervasiva. All’origine, il politically correct è basato su un principio morale di eguaglianza e inclusione che suggerisce di rispettare le differenze tra le persone. Il fatto che si tratti di un principio morale è importante. Se non altro perché la morale – diversamente dalla legge – non è sanzionabile. Non vado a cena con chi infrange un principio morale, ma non posso pretendere che chi lo faccia abbia conseguenze sostanziali rilevanti per la propria vita, come per esempio andare in galera o perdere il lavoro.
Non a caso ho parlato prima di etichetta. Il politically correct prevede, infatti, una forma di attenzione che attiene al linguaggio, al modo in cui ci esprimiamo. Un esempio: Jack è un grande amico di Joe e insiste a parlare male di lui in un party affollato. Joe, quando viene a saperlo, ne è fortemente offeso e dispiaciuto. Caso vuole che Jack sia un afroamericano. Joe sembra avere buone ragioni per prendersela con lui. Il politically correct semplicemente propone che Joe, se proprio vuole mandare al diavolo Jack, non dovrebbe usare un’espressione come “Brutto neg…!” ma piuttosto un’altra del tipo “Brutto str…!”. Così inteso, il politically correct rappresenta poco più di una forma di buona educazione linguistica, con scarso impatto sulla realtà sociale.
Le cose, però, cambiano se si comincia a sanzionare pesantemente la cattiva condotta in questione. Che è poi quello che è accaduto con l’affermarsi progressivo della cancel culture, cioè una forma di ostracismo dovuto all’indignazione pubblica per cui qualcuno viene rimosso dal proprio ruolo. Attraverso i media – giornali, televisione, web e movimenti di opinione (MeToo, Black Lives Matter) – l’impurità formale del politically correct è diventata una sorta di condanna pubblica senza appello. Prendete una personalità famosa come Woody Allen. Dal punto di vista legale, a torto o a ragione non importa, Allen è stato prosciolto dalle accuse, mossegli da Mia Farrow, relative a eventuali molestie che avrebbe perpetrato nei confronti della di lei figlia Dylan. Le molestie in questione sarebbero avvenute nel 1992, e Allen ha proseguito imperterrito la sua attività per alcuni anni. Ma, con l’avvento del MeToo, i suoi contratti sono stati violati. Non ha potuto fare dei film e il suo libro non si può leggere in diversi paesi. Il tutto senza avere formalmente mai infranto la legge. Oppure, prendiamo il caso di Alan Dershowitz, il famoso giurista e avvocato. Dershowitz è stato accusato di molestie. Ha sostenuto di non avere mai incontrato la persona che lo accusava e di avere prove in grado di confermarlo. E di fatto non sussiste in proposito nessuna condanna giuridica. Ha subìto però, in seguito all’accusa non provata, conseguenze dannose sia dal punto di vista economico sia da quello del prestigio.
In questo modo la cancel culture infrange il principio del giusto processo e fa diventare effettiva una critica morale. Violando in questo modo il principio liberale per cui la morale è una scelta e la legge un obbligo. Ma non è solo il diritto a subire un’offesa dalla cancel culture. Pensate al sacrosanto principio liberale basato sulla libertà di espressione. E alle ferite che una sua violazione può imporre alla creatività. Céline, per citare un solo autore, non potrebbe pubblicare un suo romanzo con regole da cancel culture. Più in genere, l’omologazione che seguirebbe all’adozione della cancel culture sarebbe devastante. Come devastante può essere la mancanza di senso storico legata alla vicenda. Dire che Aristotele era uno schiavista o che Omero era maschilista non tiene conto del periodo in cui vissero. Anche il buon senso viene spesso travolto dalla cancel culture. Gandhi era razzista quando considerava gli indiani (ariani) superiori ai neri del Sudafrica e George Washington possedeva degli schiavi. Se prendessimo sul serio la cancel culture dovremmo dimenticarli del tutto.
Come è successo oramai a centinaia di artisti, politici, intellettuali, imprenditori, professionisti cancellati dalla vita pubblica. Tutto ciò è tipico dell’epoca woke, un termine in slang americano che significa all’incirca “sveglio”, e invita a stare in guardia contro le emergenze di discriminazioni razziali e sessuali. Gli effetti della cancel culture in tempi di generazione woke sanno però molto di maccartismo e stalinismo, pur con la differenza non banale che oggi non è lo stato a condannare ma l’opinione pubblica.
Ora, chi scrive non è mosso da spirito reazionario. E se mi fastidia la cancel culture, mi disturba assai di più il desiderio, tra l’altro tristemente diffuso, di reprimere i diversi e discriminare persone per la loro origine razziale o per i loro orientamenti sessuali. Ma la preoccupazione egualitaria su cui si basano spesso le politiche dell’identità tende talvolta – come mostrano esempi tratti dalla cancel culture – a strafare, danneggiando quella cultura liberale dei diritti cui dovremmo essere tutti affezionati e da cui origina il rispetto per gli altri. Come si dice, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Le motivazioni del politically correct erano del tutto ragionevoli. Quando le stesse motivazioni diventano le basi della cancel culture possono essere ingiustamente repressive.
La morale della storia è che bisogna fare molta attenzione a trasformare pur giusti princìpi morali in condanne pubbliche o in leggi censorie.
Ps: Ho fatto leggere questo articolo a una studentessa impegnata attivamente sul fronte lgbt. Mi ha detto: “Caro prof., quanto scrive ha senso. Ma lei, così facendo, si espone, ed è pericoloso. Ne vale la pena?”. È a un clima culturale del genere che con ferma moderazione mi oppongo.