Radici tricolore
Sportivi, letterati, politici. Nella vecchia Italia i “nuovi italiani” non avevano problemi. Oggi la questione identitaria è solo una bandiera
Da Paola Egonu portabandiera del Cio designata dall’Italia a Marcell Jacobs l’uomo più veloce del mondo, in Italia ci si esalta ma pure (ancora) ci si accapiglia su questi atleti olimpionici: come se fosse (ancora) in dubbio la loro italianità. Hanno i documenti in regola, si commuovono sentendo l’Inno di Mameli, dedicano all’Italia le loro imprese, ma hanno a volte il colore di pelle, a volte il cognome, in apparenza inconsueti per la nostra Storia. “Paola Egonu diventa portabandiera olimpica perché incarna un cliché e non per meriti sportivi, ci sono almeno 30 atleti nella delegazione italiana con un curriculum più valido della Egonu, ma con la colpa di essere bianchi o eterosessuali. Egonu è un triste inno al conformismo”, ha twittato ad esempio Mario Adinolfi, “da destra”; se si può usare questo termine per una tale polemica. Dopo tutto Toni Iwobi, il primo nero divenuto membro del Senato della Repubblica, è un oriundo nigeriano ed è stato eletto nella Lega. “Marcell Jacobs un grande bresciano (alla faccia di chi so io)” ha scritto a sua volta Gad Lerner, “da sinistra”. A cui Salvini: “Povero Gad, mai una gioia… Goditi la vita e una grande vittoria italiana! Viva Marcell, che pena i rosiconi”. E poi Giovanni Malagò che ha invocato uno ius soli sportivo, che ad ogni buon conto non riguarderebbe la medaglia d’oro dei 100 metri: nato in Texas da padre marine afro-statunitense, ma cittadino italiano per lo ius sanguinis della madre e cresciuto in Italia dall’età di un anno. Ius soli è però quello di Paola Egonu, nata in Italia da genitori nigeriani. “Nuovi italiani”, è stato comunque commentato. E giù paragoni ad esempio con Fiona May: nata nel Regno Unito da genitori giamaicani e diventata italiana per matrimonio. Come Malika Ayane, nata in Italia da padre marocchino e madre italiana, o come Mario Balotelli, nato in Italia da genitori ghanesi e adottato da una famiglia italiana.
Sicuri che non ci fossero, in passato, anche vecchi italiani con profili del genere? Ad esempio, Kurt Erich Suckert. Nato nel 1898 a Prato da una italiana e da un immigrato venuto a lavorare nelle industrie tessili locali come tintore, un tedesco di Sassonia, in un impiego simile a quelli in cui oggi troviamo tanti cinesi. Nessuno lo ricordate? Il fatto è che anche lui, esattamente come Marcell Jacobs, aveva con il padre straniero un rapporto non buono, e dunque diventato giornalista e scrittore iniziò a firmarsi come Curzio Malaparte. Curzio traduzione del suo nome tedesco; Malaparte, spiegava, “perché di Buonaparte ce n’è già stato uno”. Volontario repubblicano in Francia prima che l’Italia entrasse nella Grande Guerra e poi esaltatore della “rivolta dei santi maledetti” di Caporetto, fascista della prima ora cantore del “Mussolini monta a cavallo” e poi confinato, ufficiale badogliano nell’Esercito del Sud e giornalista comunista, morto con in tasca contemporaneamente le due tessere del Pci e del Pri e dopo essersi riconvertito al cattolicesimo, capace di iniziare a scrivere un libro-reportage di guerra di tono anti inglese dal titolo “God shave the King” e di farlo diventare in corso d’opera e col cambio di sorti del conflitto l’anti tedesco “Kaputt”: in questo continuo reinventarsi – come a voler risolvere il bisticcio con la parte tedesca della sua identità – si diede anche il titolo di “Arcitaliano”. Un italiano moltiplicato per due che poi diventava per quattro, considerando che appunto lo era a metà.
Sul fronte delle Argonne con la Legione Garibaldina ad appena 16 anni, Suckert non ancora Malaparte fu uno dei più giovani combattenti italiani della Grande Guerra. Arruolatosi come tenente a 70 anni, il londinese Ernesto Nathan ne fu il più vecchio. Morto giusto cento anni fa, anche lui come Marcel Jacobs era nato all’estero da padre straniero e madre italiana. Entrambi ebrei, ma lui era un agente di cambio tedesco naturalizzato inglese, morto quando il ragazzo era appena 14enne. La madre era pesarese e mazziniana arrabbiata: anzi, con Mazzini ebbe sicuramente una relazione, anche se l’ipotesi che Ernesto fosse figlio naturale di Mazzini gode di scarso credito. Nathan iniziò a venire in Italia a 15 anni, sposò una italiana a 22, arrivò a Roma a 25 per lavorare come amministratore al giornale mazziniano “La Roma del Popolo”. Ma solo a 43 anni ebbe la cittadinanza italiana onoraria dalla città della madre, dove divenne consigliere provinciale. Gran maestro del Grande Oriente d’Italia a 51 anni, divenne famoso come sindaco di Roma tra i 62 e i 68 anni. Tuttora considerato il miglior sindaco che Roma abbia avuto, anche se la chiesa dell’epoca lanciò lo slogan “rimandarlo al ghetto”. Era famoso comunque per il fatto di parlare in un eloquio in cui inglese, romanesco e italiano letterario si mescolavano. In romanesco disse però il famoso “nun c’è trippa pe’ gatti”, con cui giustificò il taglio degli stanziamenti che fino ad allora il bilancio del Comune aveva destinato all’acquisto di frattaglie per i felini incaricati della derattizzazione degli uffici pubblici.
Ma nel 1915, mentre Malaparte e Nathan si arruolavano, a condurre l’Italia in guerra stipulando come ministro degli Esteri il Patto di Londra era Sidney Sonnino. Anche lui come Nathan con radici ebraiche e britanniche: il padre era infatti un ebreo toscano che aveva a lungo riseduto in Egitto per il suo lavoro di commerciante; la madre una gallese da cui lui aveva preso la fede anglicana. Un profilo in teoria molto poco consueto per i fondamentalisti dell’identità italiana. Ma portato da un leader di una destra ultrapatriottica, e ferreo custode di quello che considerava l’interesse nazionale italiano, restando alla Farnesina in tutti e tre i governi di guerra.
Con la guerra furono così annesse Trento e Trieste, secondo gli auspici degli irredentisti. “Fu sacro il patto antico / e tra le schiere furono visti / risorgere Oberdan, Sauro e Battisti”, ricorda la “Leggenda del Piave”. Ma Oberdan è appunto italianizzazione di Oberdank, con cui la madre aveva a sua volta tedeschizzato lo sloveno Oberdanich. Era italiano invece il padre naturale, che però non lo aveva mai riconosciuto. Insomma, niente ius sanguinis, e neanche ius soli, visto che il martire irredentista era cittadino austriaco – suo malgrado. Ma uno straordinario ius culturae, comune a molti altri triestini che pur di Dna slavo si sentivano italiani per cultura. Scipio Slataper, scrittore e caduto nel 1915 combattendo con il Regio Esercito, derivava probabilmente il suo cognome dallo sloveno Zlatoper, anche se lui parlava anche di possibili origini ceche. Con lui si arruolarono anche i fratelli Stuparich: a loro volta scrittori, irredentisti e dal cognome inequivocabilmente sloveno – per di più di madre ebrea. Carlo si suicidò per non essere fatto prigioniero e giustiziato, come Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa e Nazario Sauro. Giani sarà invece preso prigioniero, ma riuscirà a nascondere le sue origini. Morirà nel 1961, dopo avere scritto libri famosi e avere ricevuto la medaglia d’oro al valor militare.
Ma grande scrittore triestino di lingua italiana fu pure Aron Hector Schmitz: famiglia ebraica, padre di origine ungherese e madre di origine friulana, perfettamente a suo agio tra tedesco e italiano, volle appunto celebrare questa sua familiarità con entrambe le lingue con lo pseudonimo di Italo Svevo. E parlando di oriundi ungheresi nei territori annessi dopo il 1918, c’è anche il fiumano ebreo Leo Weiczen, che italianizzò il suo nome in Valiani nel 1927. Antifascista, leader del Partito d’Azione, padre costituente, storico, giornalista, senatore a vita. Ferenc Illy nacque invece da padre calvinista ungherese e madre sveva del Banato, in quella Temesvár che è la oggi Timisoara romena. Soldato della Grande Guerra sull’Isonzo, dopo la guerra visto che la sua città aveva smesso di essere ungherese preferì restare a Trieste, sposando una donna locale. Italianizzato il nome in Francesco Illy e passato alla chiesa valdese, è diventato il fondatore della dinastia del caffè un cui amministratore delegato è poi stato Riccardo: sindaco di Trieste dal 1993 al 2001 e presidente del Friuli-Venezia Giulia dal 2003 al 2008.
Un po’ prima c’è la brasiliana Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, diventata famosa come Anita Garibaldi. Morta nella ritirata dopo aver combattuto per la Repubblica Romana, moglie di Giuseppe Garibaldi, fu madre di Menotti Garibaldi, generale e deputato per otto legislature; di Teresita Garibaldi, moglie del generale garibaldino Stefano Canzio e antenata del Decio Canzio fumettista e braccio destro di Sergio Bonelli; di Ricciotti Garibaldi a sua volta organizzatore di altre legioni garibaldine fino a quella i cui combatté il 16enne Suckert.
Robert Michels era invece tedesco doc, di Colonia. Seguace di Max Weber, fu l’elaboratore di quella famosa “Legge ferrea dell’oligarchia” secondo cui per quanto una organizzazione o un partito possano essere impregnati di ideali democratici, fatalmente finiranno per dotarsi di una direzione oligarchica. Docente a Torino dal 1907, nel 1913 prese la cittadinanza italiana, cambiando anche il nome in Roberto. Più radicale, il pittore olandese Gaspar van Wittel, dopo essersi trasferito nel 1674 in Italia, si tradusse non solo il nome, ma anche il cognome: Gaspare Vanvitelli. Da una donna napoletana ebbe Luigi Vanvitelli, l’architetto della Reggia di Caserta.
“Né più mai toccherò le sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque, / Zacinto mia, che te specchi nell’onde / del greco mar”. E’ una delle poesie di Ugo Foscolo che più si sono studiate a memoria a scuola. Non solo il poeta era nato in un’isola greca, ancorché allora appartenente alla Repubblica di Venezia. Era pure greca la madre: Diamantina Spathis, sposata al medico di vascello Andrea Foscolo che comunque era nato a sua volta a Corfù. Ma la letteratura italiana inizia comunque dal “Cantico delle Creature” di San Francesco, il cui nome significa in realtà “francese”, e la cui madre era una provenzale che il padre Pietro di Bernardone aveva conosciuto durante i suoi viaggi da mercante. “C’è la madre che piange in francese”, ricordava Silvio Spaccesi nel ruolo di Pietro di Bernardone nel musical “Forza venie gente”.
Era francese anche la madre del padre della prosa italiana, Giovanni Boccaccio? Probabilmente no. La tesi più accreditata è che il futuro autore del Decameron sia nato da una relazione extraconiugale del mercante Boccaccino di Chellino con una donna di umilissima famiglia di Certaldo, presso Firenze. Ma Giovanni se ne vergognava, e dunque raccontò che la madre era un membro della dinastia reale dei Capetingi conosciuta da suo padre un viaggio da mercante a Parigi.
Nessuno di questi era nero, però. Vero. Lo era però, ad esempio, il Capitano Michele Amatore, eroe del Risorgimento. Bersagliere volontario nella Prima Guerra di Indipendenza, già caporale alla battaglia di Novara, fece tutta la carriera dal basso: medaglia d’argento e promozione a sergente durante i moti di Genova; promosso sottotenente dopo la battaglia di San Martino per una azione risolutiva contro le artiglierie austriache; capitano decorato della croce di bronzo prussiana nella Terza Guerra d’Indipendenza; Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e dell’Ordine della Corona d’Italia; menzione onorevole al valor militare “per essersi distinto nella lotta al brigantaggio”; medaglia di bronzo ai benemeriti della salute pubblica per l’aiuto dato nell’assistenza ai palermitani colpiti da una epidemia di colera. Ma alla nascita si chiamava Sulayman al-Nubi, ed era figlio di un capotribù sudanese il cui villaggio era stato distrutto in una razzia di soldati egiziani, che gli avevano sterminato la famiglia davanti ai suoi occhi, e lo avevano venduto come schiavo a sei anni. Lo aveva però comprato Luigi Castagnone: un piemontese, medico e liberale. Se lo portò a casa, lo adottò, gli fece avere battesimo e cittadinanza, e così poté fare carriera senza alcun problema.
C’è poi il generale Domenico Mondelli, eroe della Grande Guerra. Ufficiale pluridecorato del Regio Esercito, spericolato aviatore dei reparti da ricognizione e bombardamento del Corpo Aeronautico Militare, infine trascinante comandante dei reparti d’assalto degli Arditi, con cui prese tre medaglie di bronzo al valor militare. Emarginato come antifascista, riprese servizio con la Repubblica, fino a diventare generale di Corpo d’Armata. Anche lui in realtà era nato con un altro nome: Wolde Selassie. Nato a Asmara, era stato adottato dal colonnello Attilio Mondelli. C’è il dubbio che fosse effettivamente suo padre biologico, ma non è certo. Comunque anche lui nell’esercito italiano prima Regio e poi repubblicano poté comandare bianchi senza problemi, pur essendo nero.
Chi non ci riuscì fu invece Pasqualino Tolmezzo. In realtà non si sa come si chiamasse davvero: era stato infatti trovato in Libia nel giorno di Pasqua del 1913 dagli alpini del Battaglione Tolmezzo: da questo derivano il suo nome e il cognome. Orfano, aveva comunque una pelle molto più scura che la media dei libici. Adottato dai soldati, fu portato in Carnia da un sottufficiale, che provvide ai suoi studi. Divenne ufficiale, ma nel frattempo era venuto il fascismo. Prima ancora delle leggi razziali fu radiato in quanto “nero”, e ne morì di dolore a 23 anni. Insomma, nella vecchia Italia i “nuovi italiani” non avevano problemi. E’ stato forse in qualche Italia più recente che hanno iniziato ad averli.