Cent'anni di Strehler
Nell’Italia degli anni Ottanta, quando andare a teatro per tanti cominciava a costituire più uno status symbol che una passione coltivata, il grande regista triestino era il massimo al quale un attore poteva aspirare al fine di perfezionarsi
“Mi voleva Strehler”, recitava anni fa il comico Maurizio Micheli. Nell’Italia degli anni Ottanta, quando andare a teatro per tanti cominciava a costituire più uno status symbol che una passione coltivata, il grande regista triestino - del quale oggi ricorre il centenario dalla nascita - era il massimo al quale un attore poteva aspirare al fine di perfezionarsi, un totem in maglia nera e capello bianco, meritevole del rispetto dovuto al fondatore e dell’ammirazione per il genio proiettato in avanti.
Non poteva che essere nato nella turbolenta periferia triestina del primo dopoguerra, colui che scomparendo a Natale 1997 ha automaticamente consegnato il suo nome al Piccolo Teatro di Milano, il primo stabile pubblico d’Italia, istituito cinquant’anni prima assieme a Paolo Grassi: della terra d’origine Strehler portava i riflessi, autonomia di pensiero e indipendenza d’azione, la capacità di dire sempre come la pensasse. Estroso ma metodico fino al parossismo, le sue messe in scena tra Goldoni e Brecht, da Shakespeare ai classici russi riappaiono periodicamente dalle teche video per rinvigorire i palinsesti di Rai 5 e Rai Storia.
Sono soprattutto le sue attrici e i suoi attori ad essergli grati, di tanti che ha scelto, formato e trasferito al palco: l’Arlecchino Marcello Moretti, Valentina Cortese nel “Giardino dei Ciliegi”, la memorabile edizione 1966 delle “Baruffe” con Lina Volonghi, Carla Gravina, Ottavia Piccolo, Tino Scotti, Corrado Pani, Giulio Brogi, Glauco Mauri, il gotha dell’azione scenica a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, trasmesso dal canale tv nazionale una volta la settimana per istruire le masse.
Amava la musica, Strehler: teatrale certo, per primedonne come Ornella Vanoni, Milva e Massimo Ranieri. Era stato al Parlamento italiano ed europeo nelle file socialiste, quando per altri significava scegliere la convenienza: intellettuale non organico né pentito, in un’Italia bella che sapeva eleggere a rappresentarla anche i calibri della cultura.
Universalismo individualistico