Labirinti a La Plata
Il tono fumoso e beffardo di Adolfo Bioy Casares, che Borges chiamò maestro
"L'avventura di un fotografo a La Plata", uno di quei libri da sorbire tutto d'un sorso in cui lo scrittore si diverte a torturare i suoi personaggi
Il giovane fotografo provinciale Nicolasito Almanza viene mandato a La Plata a scattare edifici e monumenti per una serie di libri turistici. Ritrova un vecchio amico, ora poliziotto, ed entra in confidenza con una famiglia di cui fa fatica a capire le dinamiche, rimanendo invischiato in affetti e cortesie. Aspetta dei soldi, si innamora, vaga per la città a griglia, capoluogo della provincia di Buenos Aires, città strana, artificiale, disegnata a tavolino prima di esser costruita. Come accade spesso ai personaggi di Adolfo Bioy Casares, il fotografo si ritrova in situazioni in cui non si aspettava di capitare, a volte per curiosità, per generosità, o per passività. Ogni incontro, ogni interazione con un personaggio a La Plata potrebbe aprire una porta, una storia, e il romanzo potrebbe continuare da lì, quasi come se L’avventura di un fotografo a La Plata (edito da Sur, traduzione di Francesca Lazzarato) fosse un libro-game. Bioy Casares si diverte a torturare i suoi personaggi infilandoli in dei labirinti sociali pieni di desiderio e allucinazioni. Ma non è quella tortura praghese ebraica kafkiana che strappa l’anima, c’è un tono diverso, tipicamente sudamericano, più fumoso e tiepido, quasi beffardo. Più che strappare confonde, ridisegna i confini tra sogno e veglia. Ma c’è anche, sempre leggera, mai dichiarata, quella sensazione del sospetto, del controllo, della sfiducia nell’altro, tipica delle dittature. Seppur scritto nel 1985, l’ambientazione, il clima che si respira, è quello del regime videlista di fine anni Settanta. La fotografia, l’arte, il mestiere, la vocazione, possono diventare strumenti per sopravvivere alla tensione dell’oppressione.
Troppo abituati alla logica del noir statunitense, al ferreo razionalismo del giallo britannico, qui – seppure non si tratti né di giallo né di noir – Bioy Casares, e come lui molti autori del Sudamerica che ritroviamo nel colorato catalogo di Sur, ci dice che non tutto ha una soluzione, una spiegazione, certi misteri vanno accettati quasi come postmoderno atto di fede nell’assurdo. Basta pensare al suo primo romanzo e capolavoro L’invenzione di Morel, libro con un’irripetibile enigmatica struttura narrativa, che fu d’ispirazione per il film del 1961 “L’Année dernière à Marienbad”, di Alain Resnais, manifesto avant-garde dell’ambiguità e delle ombre.
Non è un caso che Bioy Casares fosse amicone di J. L. Borges. Due argentini vestiti bene che sognavano incontri di mondi paralleli e si divertivano a immaginare, inventare personaggi, anche for the sake of it. Quando si sono conosciuti Borges aveva già trent’anni e Bioy Casares era un adolescente, “in questi casi si dà sempre per scontato che il più vecchio sia il maestro e il più giovane il discepolo – dice Borges –. Questo può essere vero in principio, ma diversi anni dopo, quando cominciammo a lavorare insieme, fu Bioy che, segretamente, divenne il vero maestro”. Insieme hanno scritto sceneggiature, libri, come lo stupendo Sei problemi per don Isidro Parodi (Adelphi), fondato una rivista e compilato antologie. Una, di literatura fantástica, anche insieme a Silvina Ocampo, che Bioy Casares sposerà – Sur ha anche ripubblicato il loro romanzo a quattro mani Chi odia, ama.
Non credo alla divisione libri estivi/libri invernali, è tutto marketing il discorso del “leggere sotto l’ombrellone” – chi legge bene legge a prescindere dalle stagioni. Credo esistano però libri che si leggono pian piano, a bocconi, e libri che si buttano giù in un’unica sorsata, L’avventura di un fotografo a La Plata appartiene a questa seconda categoria.