Witold Gombrowicz (Wikimedia commons) 

"Mentire"

Le maschere di Witold Gombrowicz, autentico falsario

Marco Archetti

La letteratura intesa come menzogna al servizio della verità. Odiò i poeti troppo poeti e gli scrittori troppo scrittori: “Volevo solo essere me stesso, al di sopra dell’arte e delle idee”

Sessant’anni fa esatti, se un argentino avesse acceso la radio e si fosse sintonizzato su Radio Europa Libera, nella sezione in lingua polacca avrebbe potuto ascoltare niente meno che… “Il viso della Gioconda? Bellissimo. Ma a noi che ce ne viene? Sarà anche stupendo, però rende orribili le facce di quelli che la ammirano. Sul quadro, la bellezza. Davanti al quadro, snobismo, stupidità e sforzo ottuso di afferrare qualcosa di quella bellezza che ci sentiamo obbligati ad ammirare. Questi ammiratori hanno tutti la faccia cretina: l’uomo che ammira un quadro ha una faccia da cretino”. Insomma, la vita e le opinioni del signor Witold Gombrowicz

 

Bello pensarlo, e bello immaginare la reazione stupita dell’ascoltatore colto di sorpresa dai fuochi d’artificio dell’intelligenza gombrowicziana, ma purtroppo tutto questo resterà una fantasticheria retroattiva, perché in realtà non andò così, nessuno ascoltò la sua voce del multiforme Witold e i suoi giochi pirotecnici restarono nel cassetto. E fu lì che li trovò la moglie Rita Labrosse, sette anni dopo la morte dello scrittore, precisamente in una cartelletta contenente un dattiloscritto di 300 pagine suddivise in brevi capitoli redatti ogni due settimane tra il 1960 e il 1961 – quando cioè, a contratto appena sottoscritto, Gombrowicz avrebbe dovuto leggerli alla radio. Ma nessun programma ne ospitò mai la lettura, vai a sapere perché. Vennero quindi pubblicati nel 1977 a Parigi come undicesimo tomo della raccolta “Opere”, e dieci anni dopo in Polonia, presso un editore di Cracovia, sotto il titolo “Opere complete”. In Italia ci ha pensato Feltrinelli nel 1998, intitolando il volume “Una giovinezza in Polonia”, in dichiarata affinità con la giovinezza in Germania di Ernst Toller – il volume è di difficile reperibilità, ma con un po’ di pazienza lo si scova, buon divertimento.

 

Quest’opera straordinaria che rende conto della genesi dei temi e delle ossessioni dello scrittore, autobiografica e in un certo senso incompleta (non in senso narrativo, dal cui punto di vista è invece compiutissima: un arco autobiografico che copre 35 anni, dal 1904 al 1939) è, più propriamente, un’opera completata dalla pubblicazione, destinazione per la quale non era stata né immaginata né concepita, ma poco cambia, perché – ribadiamo – qui si parla di Witold Gombrowicz, l’uomo fedele alla scrittura più che a se stesso e ossessionato dalla coesione di sé e della propria opera, lo scrittore che più di ogni altro ci ha svelato quel che mai avremmo voluto sentirci dire – qui si parla del Vate, del Maestro, del Pagliaccio, del Giocoliere, del Clown, del Filosofo, del Bastian Contrario, dell’instancabile scovatore di rovesci di ogni medaglia, del Dialettico vocazionale, dell’eterno pompiere con la smorfia scettica, del supremo individualista di matrice kantiana (colpa dei Prolegomeni a ogni futura metafisica), del buffone al funerale della Storia, di uno che delle forme si faceva beffe e della Forma fece cattedra a partire dall’assunto psicologico “l’uomo crea l’uomo”, di uno – insomma – che un’identità di genere (letterario) non si sognava di averla, figuriamoci di rivendicarla.

 

Un genio irriducibile e irriducibilmente sfacciato al punto che, quando avvertì un’urgenza di sistematizzazione dei propri temi romanzeschi – non tanto per comprendere se stesso quanto per darsi intero al resto del mondo, a scanso di equivoci – si impossessò di una conversazione con Dominique de Roux trasformandola in una guida alla propria vita in forma di monologo, intervallato qua e là da domande che, di fatto, impose al suo interlocutore, cui, per non sbagliare, consegnò una nota di questo genere: “Ho scritto i capitoli della nostra conversazione senza formulare le domande. Nei capitoli successivi ho introdotto delle domande assai laconiche o neutre, le riveda lei […] La sua partecipazione può consistere in: a) una prefazione su di me e sulla mia opera; b) una specie di introduzione a ciascun capitolo. Immagino che qui si debbano concentrare tutti i dettagli esteriori. Per esempio: ‘Mi trovo da Gombrowicz. Abitazione. È solo. Vorrei non porgli delle domande, lo lascio parlare. Il suo modo di parlare, eccetera…’. In breve, tutto ciò che può dare della concretezza all’intervista (mentire!)”. 

 

Che bellezza, in quel “mentire”! C’è tutto il senso del gioco che vale la candela, l’essenza della letteratura come bugia a servizio della verità, come sublime mascherata che porta al disvelamento, alla nudità. Scrittore dilaniato dal dilemma della Forma, conteur philosophique che, attraverso l’umorismo, con l’occhio dell’artista e non del moralista, scatenandosi in un teatro che è sempre la parodia di Shakespeare e in una letteratura che è sempre allestimento grottesco, ci ha svelato la Bellezza come Inferiorità (“ai miei occhi la Bellezza doveva essere una pietra preziosa caduta in un letamaio”), l’Infantilismo come malattia politica e morale (“mi misi a lavorare a ‘Ferdydurke’, e la satira slittava nel grottesco, un grottesco scatenato, osceno e demenziale…”) e l’ingenuità della Fede nell’arte per l’arte.

 

Date proprio queste premesse, nel momento in cui ci si accinge a leggere una (cosiddetta) autobiografia di Gombrowicz, si dovrà tenere presente il fatto che ci si troverà davanti, semmai, a un romanzo (di “formazione”, e qui la parola assume precisi significati, tutti spiccatamente gombrowicziani), che non sarà possibile affrontare col puntiglio e l’acribia di chi voglia scovare tra le pagine dati autentici – sarebbe buffo anche solo provarci – e che si tratterà pertanto di un’autobiografia sempre presunta, a tratti imbizzarrita, troppo gombrowicziana per essere vera, abilmente reinventata a uso dell’opera (non il contrario, come sempre avviene con gli scribacchini di rango), concepita per insinuarsi a puntino nella letteratura del proprio autore e, diciamo pure, per combaciarle. Un falsario di prima categoria, quindi? Ovviamente. Ma del tipo rarissimo dei falsari dichiarati, dei falsari divertiti, dei falsari sincerissimi. Uno strano tipo di autore, questo Gombrowicz, che non sentiva vergogna di far decollare una Weltanschauung da uno scaccolamento del naso (!), di definire i propri romanzi, dal punto di vista strutturale, “vecchie carrette” perché plasmati su modelli classici, e poi di sottolineare con vigore quanto fossero portatori di contenuti nuovi, anzi, nuovissimi, forse troppo (lo sono anche oggi nuovi, nuovissimi, forse troppo: si rileggono e sembra di non averli mai letti, li rileggi e ti leggono il mondo), e pieni di visioni inaudite, inattese e spiazzanti, intollerabili per il lettore cementato mani e piedi nel sublime e nella serietà.

 

Fate una prova: Gombrowicz non piace mai a chi si crogiola lungo i lidi solatii della poesia poetica, dell’arte artistica e dei tramonti su Instagram. “Gli artisti troppo fanatici – scriveva – mi hanno sempre irritato. Non sopporto i poeti troppo poeti e i pittori troppo votati alla pittura. Come regola generale, vorrei che l’uomo evitasse di votarsi anima e corpo a una certa cosa. Che mantenesse sempre una certa distanza da ciò che fa. Bruno Schulz era più artista di tutti i poeti maledetti messi insieme per la paradossale ragione che non adorava affatto l’arte. Adorarla avrebbe significato essere qualcuno, lui invece preferiva smarrirsi, dissolversi in essa. Io volevo solo essere me stesso: me stesso, non un artista, un’idea o una mia opera. Me stesso. Al di sopra dell’arte, dell’opera, dello stile e dell’idea” (di questa pasta era il suo ilare teppismo intellettuale).

 

Nato il 4 agosto del 1904 in una piccola tenuta nei pressi di Radom, a mezza strada tra Varsavia e Cracovia, in seno a una famiglia della piccola nobiltà terriera – padre algido e madre omnifobica – ben presto Gombrowicz sentì affacciarsi, irreprimibile, il disgusto per i valori aristocratici, per certo teatro della vita, e in opposizione alla famiglia maturò un’indole attratta dalla contraddizione e dalla bassezza. “Odiavo i salotti e adoravo di nascosto le dispense, le cucine, le stalle, i braccianti e le serve, e il mio erotismo saziato dalla guerra, dalla violenza e dai canti dei soldati, in seguito mi spinse verso quei corpi segnati dai lavori pesanti e sporchi”. Precoce ma inevitabile, l’intuizione che ogni problema era un problema di Forma, che sgorgava dalla lotta contro la Forma. Chi è dunque l’uomo? Il prodotto di una forma determinata dall’esterno o di un’autenticità imposta dall’interno? Il prezzo dell’autenticità è la Deformità? 

 

Nel momento in cui Gombrowicz comincia a chiederselo, non sa nemmeno a che facoltà universitaria iscriversi. E’ il 1922. Intorno a lui, il deserto: la Polonia nata dalla Prima Guerra Mondiale è un paese di paralizzati, gli individui sono condannati alla provvisorietà, ogni vitalità abortita, ogni volo stroncato, tutto un vegetare, un rimandare al domani, tutto in rinvio in attesa che il mondo si calmasse, che lo stato si consolidasse e che prendesse corpo una possibilità di manovra. Ma niente prendeva corpo, e lo spirito soccombeva. Intanto, per Gombrowicz, il mondo diventava assurdo e insopportabile, ed era sempre più difficile immaginare il proprio posto in quel teatrino. La famiglia? Tronfia, viziata, rammollita. La società, la nazione, lo stato? Nemici. L’esercito? Un incubo. Gli ideali, le ideologie? Luoghi comuni. Che fare? Muoversi, osservare, nutrire una prospettiva.

 

E siccome poche cose sviluppano l’intelligenza quanto il libero lavorio mentale di un ozioso, ecco che si libera della scuola – non prima di avere ottenuto, in modo rocambolesco e fortunoso (ma chissà se andò proprio così) una laurea in Legge – e conclude il suo curriculum di studio a Parigi, immergendosi nella città e vagando dalla mattina alla sera senza aprire libro. E uscendone nauseato. Si può essere autentici a Parigi? Meno che altrove! E, in fondo, non diversamente che in Polonia. “Mi rivolsi ai parigini e mi dissi stupito che riuscissero a sopportare l’atmosfera di stupidità e di snobismo che si era creata intorno a Parigi. Come si fa a sopportare i deliqui di questa gente sempre a bocca aperta e naso per aria, questi luoghi comuni fritti e rifritti, questo snobismo continuamente rinfocolato dai turisti in arrivo, questo ‘culto del bello’ della peggior specie? Non potevo permettere a Parigi di sopraffarmi. Avevo la necessità di conservare la mia indipendenza, la mia dignità, il mio orgoglio; la paura di diventare un discepolo, un imitatore, un accolito, un ammiratore, un perdigiorno”. 

 

Mal sopportato dalla cerchia dei polacchi a Parigi, i quali in Francia esageravano il loro orgoglio polacco sfiorando vette comiche (“fare a gara con le altre nazioni per stabilire chi aveva più geni, più meriti e conquiste culturali…”) e mal digerito dai marxisti rigidamente osservanti (“Marx era una persona intelligente e un europeo convinto, finché i marxisti non l’hanno cucinato a modo loro, ma del resto tutti i comunisti che avevo conosciuto erano gente un po’ svitata, tutti invidiosi, astratti e teorici”), trova nella letteratura l’unico spazio in cui montare il teatro della comica follia di cui vedeva alimentarsi il mondo, il luogo più adatto per ciò che gli avrebbe interessato per tutta la vita: la frantumazione della Forma. Ma nulla andò liscio, dopotutto era un’altra epoca, un’epoca in cui mettersi a scrivere era un’attività vergognosa, una cosa per mezzi matti o fannulloni, e in certe buone famiglie non si faceva, era un intrattenimento laido per malati e grattapanza, un’attività che, tra l’altro, non conferiva alcuno status (inoltre – come dice Gombrowicz – in ogni esordiente si cela un pretenzioso, un ridicolo serissimo, uno che non ha pudore di candidarsi a diventare un grand’uomo… “se fossi entrato in un corpo di ballo e mi fossi messo a sgambettare mezzo nudo in pubblico, i miei sarebbero stati meno sgomenti”).

 

Dopo una vivacissima parentesi sulla vita nei caffè di Varsavia, il racconto si fa cupo. Di passaggio a Roma, Gombrowicz sente crescere l’esaltazione per Mussolini. Da una Venezia deserta in cui si respirano malinconia e abbandono, pieno di bui presentimenti lo scrittore prende un treno per tornare a Varsavia. “Il treno filava verso Vienna, ma pareva condurmi verso le tenebre. Intorno a me, nello scompartimento, la gente appariva spaventata. I volti erano tesi e io non volevo fare domande. Poi, in Austria, dai finestrini, gruppi di gente che inneggiava con le torce accese. Le grida arrivarono fino a noi. La città era impazzita: Hitler stava entrando a Vienna”

Di più su questi argomenti: