Collasso afghano
L'aeroporto di Kabul, scompare l'ultimo (vero) pezzo di Occidente in Afghanistan
L'immagine delle eliche come in passato Saigon, L'Avana. La fuga in cielo
Aerei e aeroporti. Da sogno decantato da Le Corbusier, ai progetti di Aldo Rossi, Renzo Piano, Zaha Hadid, Norman Foster. Ieri, l'assalto a quello di Kabul per sfuggire ai talebani. Non solo un luogo ma un'idea. Tutto quello che resta adesso dell'Occidente
Le tragiche immagini che arrivano da Kabul rievocano altre pagine nere del Novecento. Saigon 1975, certo, l’elicottero militare a due rotori è quasi lo stesso a sollevarsi dall’ambasciata americana quarantasei anni dopo. Secondo Michael Herr, autore di Dispacci. L’orrore del Vietnam negli occhi dei soldati americani (Rizzoli), definito da John le Carré il più bel libro sulla guerra dopo l’Iliade, il postmoderno è cominciato proprio nel momento in cui il primo elicottero si alzava dal tetto dell’ambasciata americana.
Il modo in cui la guerra del Vietnam si svolse e soprattutto quello in cui essa fu percepita si mescolò con la nuova sensibilità letteraria e culturale che emergeva in quegli stessi anni che è stata convenzionalmente definita “postmoderna”. L’anno prima, un altro celebre assalto all’aeroporto era stato ricostruito nel “Padrino - Parte II” (1974) di Francis Ford Coppola, quando cioè nella notte di capodanno i dignitari del regime di Fulgencio Batista e gli americani in vacanza nei casinò dell’Avana si precipitarono in un assalto all’aeroporto oppure al porto per tentare una disperata fuga in barca verso Miami, mentre i barbudos rivoluzionari stavano arrivando in periferia distruggendo i simboli dello sfruttamento, cioè parchimetri e slot machine. Durante la rivoluzione cubana del 1959 gli aeroplani a carlinga metallica bullonata erano più vicini a quelli decantati da Le Corbusier nel suo libro Aircraft del 1935 che a quelli odierni – libro scritto perché a suo dire l’aviazione segnava la via da intraprendere per modernizzare l’architettura.
Non a caso sempre nel ’35 Pier Luigi Nervi iniziava a progettare il suo primo capolavoro in cemento armato, le aviorimesse di Orvieto, purtroppo distrutte dai bombardamenti durante la guerra. Chi è stato un osservatore attivo dell’evoluzione degli aeroporti è certamente Rem Koolhaas, abituato a trascorrere la maggior parte della sua vita in viaggio: “La pianta esagonale: anni 60. Pianta e alzato ortogonali: anni 70. Conglomerato urbano a collage: anni 80. Sezione curva unica, estrusa all’infinito in un piano lineare: probabilmente anni 90”. Appartiene a quest’ultima tipologia l’aeroporto del Kansai di Osaka, progettato da Renzo Piano e Peter Rice: inaugurato nel 1994, è su un’isola artificiale in mare aperto (4 km di lunghezza) collegata alla terraferma tramite un ponte a due livelli. La sezione a grande scafo rovesciato permette di incanalare i venti oceanici all’interno del terminal, attivando così una ventilazione naturale in linea con i principi ecologisti allora minoritari e oggi invece condivisi da tutti.
Molte archistar hanno progettato aerostazioni importanti a partire dall’ex collega di Piano, Richard Rogers (Madrid), Norman Foster (Stansted, Hong Kong), Zaha Hadid (Pechino), Aldo Rossi (Malpensa), Massimiliano Fuksas (Shenzen), ma è proprio chi non ne ha mai progettato uno ad averne colto il ruolo sempre più centrale nel mondo globalizzato. Koolhaas infatti, nei suoi testi dallo stile letterario postmoderno La Città Generica (1994) e Junkspace (2001) ha colto i tratti principali di queste grandi infrastrutture cresciute al punto tale da diventare qualcos’altro: “Sempre più grandi, dotati di un numero crescente di servizi non riferiti all’attività del viaggio, si avviano a sostituire la città. La condizione dell’essere di passaggio sta diventando universale. Complessivamente gli aeroporti contengono una popolazione di milioni di persone, più il maggior numero in assoluto di gente che ci lavora… Gli aeroporti, sistemazioni provvisorie per tutti quelli che stanno andando altrove, abitati da assemblee unite solo dall’imminenza della loro dissoluzione, si sono trasformati in gulag del consumo, democraticamente distribuiti intorno al globo per dare a ogni cittadino eguali possibilità di ammissione”. Ecco perché con l’aeroporto di Kabul se ne va l’ultimo pezzo di occidente in Afghanistan.