Una genuina generosità. Addio a Gaia Servadio
La scrittrice, giornalista e indimenticabile animatrice culturale è morta ieri a 83 anni
Ogni volta che la incontravi - nella sua splendida quanto fascinosamente disordinata casa londinese, come a Roma o in un festival letterario - a colpire era sempre la sua voce - “giusta, mai troppo alta e mai troppo bassa”, mi disse durante una cena veneziana, all’Isola di San Giorgio, Inge Feltrinelli, la sua migliore amica con cui condivise viaggi, mille avventure, rapporti nati, finiti, ricominciati o finiti per sempre, oltre all’amore per gli animali “più che per certe persone” , il giardinaggio e, ovviamente, per i libri. Subito dopo, notavi il colore dei suoi occhi - un ceruleo tendente al grigio, cangiante e mutevole come il cielo della sua amata Inghilterra - con cui ti osservava e scrutava, curiosa com’era di scoprire, sapere, conoscere e provare ogni volta come fosse la prima. Non giudicava, ma ti diceva sempre quello che pensava. “Ho sempre detto quello che ritenevo giusto dire. Poi, si sa: la cosa importante è come uno dice le cose. In ogni caso, penso che sia più facile dirle in un romanzo che in un saggio. Quando scrivo, mi ha sempre aiutata la musica, una presenza costante anche nel mio vivere quotidiano. Davanti a un’esperienza brutta come bella, c’è sempre stata: è un conforto, un piacere, una salvezza”.
Fa un certo effetto sapere che oggi se ne è andata Gaia Servadio - scrittrice, giornalista e indimenticabile animatrice culturale, scomparsa a 83 anni la notte scorsa a Roma, dove si trovava da qualche tempo, dopo due lockdown passati nella capitale britannica dove viveva da mezzo secolo. La musica - classica più che altro, alternata alla lirica - in certi casi non basta, ma aiuta, soprattutto se si ripensa a una donna così - bella, bellissima, intelligente oltre la media e “cazzuta”, una che era sempre di corsa , che non stava mai ferma, con il corpo e soprattutto con la mente.
Ci conoscemmo anni fa grazie a un amico in comune, Antonio Ottaviani, noto chirurgo plastico romano residente come lei a Londra. “Bisogna sempre avere un amico chirurgo, quantomeno per essere tranquillizzati”, mi disse in uno delle edizioni più calde del Salone del Libro di Torino. A casa sua “a Chelsea” - che pronunciava senza alcuno snobismo o senza quell’aria tipica dell’ultimo dei parvenu - mi offrì del tè, “ma se vuoi il latte, te lo devi andare a prendere nel frigo che è in cucina”, mi disse. Ricordo un percorso ‘a ostacoli’ tra tappeti, libri sparsi, aperti e sottolineati, giochi dei nipoti, pagine di giornali, piatti con forchette, quadri e tantissimi libri. “Ci hai messo più del dovuto - aggiunse al mio ritorno ridendo - ma se a unirci è la curiosità, siamo già amici”.
Negli anni, ci siamo visti più volte qua e là e poi persi un po’ di vista fino a ritrovarci, a fine prima pandemia, grazie a Cecilia Valmarana, la sua nipote preferita. Lei l’ha sempre chiamata - e continuerà a chiamarla - “la zia”, occupandosi e preoccupandosi di lei (della sua salute come di quello che diceva ai giornalisti) come fosse una figlia. “La zia l’ho sentita e sta alla grande, vuole fare, incontrare, spostarsi e parlare più che mai”. “Ho visto la zia nella sua casa di campagna in Umbria: mi ha regalato un’opera d’arte ma non si è accorta che è di estremo valore”. La nipote la chiama, le dice dell’errore e lei: “ma certo Ceci, lui (non dirò il nome dell’artista per correttezza) l’ho frequentato per un periodo ed è un piacere per me darlo ora a te”.
Gaia Servadio era anche questo: la genuina portatrice di una generosità che le veniva naturale così come tutte le cose che faceva. In alcuni casi, osservandola a lungo, mi sembrava una strega buonissima, a tratti un po’ maldestra, pronta sempre ad aggiungere, più che a togliere, ad accogliere soprattutto con il cuore. Amava parlare di sé e della sua famiglia, a voce come nei libri. Ne scrisse una quarantina, di narrativa e saggistica: l’ultimo romanzo è “Giudei” (Bompiani) - che non si capisce per quale motivo sia stato escluso da premi letterari, Campiello in primis -in parte ispirato da vicende familiari, anche se lo aveva fatto in maniera approfondita nell’autobiografia “Raccogliendo le vele”(Feltrinelli 2014) e vi prima ancora in “Un’infanzia diversa” (Rizzoli, 1988). “Non mi stancherò mai di farlo”, mi disse a gennaio quando l’ho intervistata l’ultima volta. “In quelle pagine ricordavo la bambina che sono stata, i diritti che non ho avuto, le paure e le troppe cose che tanti bambini come me non potevano fare o avere. Come nasco io, a casa mia la parola ‘ebreo’ era impronunciabile. Ricordo mia madre che un giorno mi azzittì all’uscita di scuola a Padova, la città dove sono nata e vivevamo, quando pronunciai quella parola, perché non bisognava che noi bambini sapessimo che appartenevamo ad una razza maledetta. Per anni mi sono chiesta e ho chiesto cosa volesse dire e solo crescendo ho avuto risposte. Oggi è stata una tragedia dividere le comunità anche tra di loro e le stesse comunità italiane – che mi affascinano tutte per le loro differenze un po’ come l’Italia, un mosaico di diversità non solo culturali - hanno sofferto molto e non hanno avuto alcun riconoscimento. Non mi è piaciuto, però, che a un certo punto ci siano state offerte quelle placche in ottone da mettere fuori i portoni. Come si chiamano?”
Le Pietre d’Inciampo, le dissi. “Ah, sì, quelle”.
“Le vicende di una famiglia ebrea - aggiunse - si assomigliano un po’ tutte per quello che hanno vissuto e subìto”. La Giornata della Memoria? “Per me è stato – e ogni anno che passa lo è – un conforto. È molto facile dimenticare come voler dimenticare, quindi una giornata simile, seppur simbolica, è necessaria per tutti gli ebrei e non solo, per chi non sa e deve sapere. Aveva ragione Primo Levi quando diceva che pecca di più chi nega di chi ha fatto: chi ha ucciso fisicamente è più sopportabile di chi negava e di chi nega, di chi non voleva e non vuole sapere”. Nonostante questo, lei ad Auschwitz non è mai voluta andare, “perché andare in quella sorta di Disneyland dell’orrore dove bisogna pagare un biglietto d’ingresso e si riceve un depliant esplicativo, mi sembra come sporcare il diritto col pianto”.
Saggista e anche pittrice, venne insignita del titolo di Cavaliere Ufficiale della Repubblica dal presidente Sandro Pertini e Commendatore al merito della Repubblica Italiana. Come reporter aveva seguito sul campo la guerra dei Sei Giorni in Israele, esplorato in lungo e in largo il Medio Oriente, vissuto per un periodo in Russia, scrivendo tra l’altro per La Stampa, il Corriere della Sera, il Times e l’Observer, oltre che girando documentari per la Rai e per la Bbc. Si sposò dal 1961 al 1989 con lo storico britannico William Mostyn-Owen da cui ebbe tre figli: Owen, Allegra (diventata la prima moglie dell’attuale primo ministro Boris Johnson) e Orlando. Anni dopo, si risposò con Hugh Myddelton Biddulph, discendente di una famiglia aristocratica proprietaria del Times. Tenne duro quando scomparse la sua cara amica Inge, si incazzava sempre per la politica italiana, per quella inglese e c’è l’aveva con i Savoia (“averli avuti è stata una disgrazia. Avrebbero firmato qualsiasi cosa e di fin troppe cose sono stati colpevoli. Le scuse del principe? Non è che contino molto, non contano niente”). Negli ultimi mesi, in epoca Covid, detestava il sistema sanitario pubblico nazionale inglese. “Finire in ospedale a Londra è come andare alla morgue, all’obitorio. Bisogna cercare di stare bene e di tenersi il più possibile lontano dal National Health Service. La fiducia che c’è qui è pari a zero”. Nella tristezza, enorme e incolmabile, fa sorridere che lei, andandosene per sempre la scorsa notte a Roma, si sia presa gioco dell’Inghilterra e degli inglesi (che comunque amava), ancora una volta. Fino all’ultimo, a modo suo.