Il Foglio del weekend
Bernhard, un genio della scrittura attorcigliato alla musica e alla sua follia
La passione per le scarpe e per il camminare, l’ostilità nei confronti dell’Austria, il senso di tragica asfissia che comunica la sua prosa. Viaggio nella vita e nell’opera di un solitario
Thomas Bernhard aveva una passione per le scarpe. Nel vecchio casale che abitò a Ohlsdorf, in Austria, tre ore e più da Vienna, ora museo, se ne possono ammirare in numero spropositato e simili fra loro in file ordinate dentro le scarpiere. Nei suoi libri lo vediamo spesso camminare (anche se ogni tanto scrive che detesta farlo, ma questo fa parte del suo costante beffardo contraddirsi). In Camminare, per esempio, scrive in stile perfettamente bernhardiano: “Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì. Poiché Karrer veniva a camminare con me di lunedì, ora che Karrer non viene più a camminare con me di lunedì, Lei venga a camminare con me anche di lunedì, dice Oehler, ora che Karrer è impazzito ed è subito finito allo Steinhof. E senza esitare ho detto a Oehler: bene, camminiamo anche di lunedì, ora che Karrer è impazzito ed è allo Steinhof”. Anche lo Steinhof, inteso come ospedale psichiatrico, sulla splendida Altura Baumgarten di Vienna, è una presenza incombente nei libri di Bernhard.
Fu proprio durante un ricovero per una “sarcoidosi polmonare” allo Steinhof – reparto pneumatologico però, non psichiatrico – che strinse amicizia con l’eccentrico sessantenne Paul Wittgenstein (nipote del filosofo), lui sì ricoverato nell’ala psichiatrica. Era il 1967, Thomas aveva trentasei anni e amava la compagnia di persone più anziane. Colei che considerò “l’amica della vita”, Hedwig Stavianicek, conosciuta nel 1950, era più grande di lui di trentasette anni. All’amico Paul, scomparso nel ‘79, avrebbe dedicato un libro tre anni dopo, Il nipote di Wittgenstein, dove ne loda la grande sensibilità musicale e artistica e lo rimpiange come “un amico vero, che comprendeva le più folli acrobazie della mia mente davvero assai complicata… il rapporto più importante che io ho avuto con un individuo di sesso maschile”. E’ un testo, questo, dichiaratamente autobiografico in cui parla anche della Stavianicek rivolgendole parole di immensa gratitudine: “Ma in verità, anche in assenza di Paul, in quei giorni e settimane e mesi non sarei stato solo su all’Altura Baumgarten, perché avevo accanto a me la persona della mia vita, la persona che dopo la morte di mio nonno ha svolto a Vienna una parte per me determinante, l’amica della mia vita, l’amica della quale non basta dire che le devo moltissimo, perché da quando, sono ormai passati più di trent’anni, è apparsa al mio fianco, in realtà, siamo chiari, devo a lei tutto, o se non tutto quasi tutto. Senza di lei non sarei neppure più in vita e in ogni caso non sarei l’individuo che sono oggi, così pazzo e così infelice, eppure, come sempre succede, anche felice”. E continua sullo stesso tono per un’altra intera pagina, ed è abbastanza eccezionale che un uomo tanto egoista e capriccioso, di solito insensibile e crudele verso gli altri, potesse coltivare dentro di sé un sentimento del genere.
Si erano conosciuti nel 1950, ma solo tre anni dopo si stabilì fra loro quel rapporto al contempo libero e straordinariamente vincolante, che li legò per tutta la vita. Quando Hedwig morì, novantenne, il 28 aprile del 1984, in una rara intervista Bernhard disse: “Costituiva il mio elemento di freno e di disciplina, ma m’induceva anche ad aprirmi al mondo”. Infatti la Stavianicek, che apparteneva a una famiglia in vista della capitale austriaca ed era la vedova di un importante funzionario ministeriale, aveva introdotto nella migliore società artistica e aristocratica viennese il giovane di talento (talento per ora esclusivamente musicale), figlio illegittimo, che piccolissimo aveva rischiato di essere dato in adozione.
Ma torniamo alle scarpe. Nello spettacolo (bellissimo) che Roberto Andò ha messo in scena dalla pièce di Bernhard Piazza degli eroi, le scarpe occupano la parte del palcoscenico più vicina al pubblico, sistemate fra fogli sparsi. Sono una presenza potente ed evocativa per chi sa della mania dello scrittore, ma anche per chi la ignora. Rimandano insieme a un’idea di movimento e di immobilità. “Camminare e pensare sono in un rapporto costante di reciproca intimità” dice Bernhard che dice Oehler. Il grande camminatore Robert Walser sarebbe stato d’accordo. Per ora si può vedere lo spettacolo di Andò soltanto in rete: la ripresa televisiva di una prima al Mercadante di Napoli di qualche mese fa con gli attori (Imma Villa e Silvia Ajelli fra gli altri) che alla fine, in modo molto commovente, applaudono davanti alla platea e alle balconate completamente vuote. Il Covid ha impedito al pubblico di partecipare. Se tutto va bene, in ottobre si ripartirà dal Mercadante per una tournée in tutta Italia. E vale davvero la pena di ascoltare il bravissimo protagonista, Renato Carpentieri, dare voce alle invettive di Bernhard contro la generale imbecillità, contro l’ipocrisia e la cecità degli esseri umani, contro la politica “austriaca” (ma bene ha fatto il regista – col traduttore Roberto Menin – ad attualizzare il testo, trasformando l’Austria, consueto bersaglio dello scrittore, nell’intera Europa e i burocrati viennesi in quelli del mondo intero). “Perché il suo paese era ciò che Bernhard aveva sotto gli occhi, ma possiamo considerarlo significativo di una realtà generale che ormai ci riguarda tutti” mi spiega Roberto Andò durante una veloce telefonata.
Si può leggere il testo originale di Piazza degli eroi (con quelli delle commedie Le celebrità, Su tutte le vette è pace e i Dramoletti, vale a dire undici “testi brevi”) nella traduzione di Alice Gardoncini e, in parte, di Umberto Gandini, nel sesto volume del Teatro (389 pagine, 23 euro) che finalmente esce da Einaudi a completare l’opera drammaturgica di Bernhard in italiano. “Tutta la vita non è nient’altro che un’ostinata combinazione di dolore l’intera vita è un unico dolore tutti mentono a se stessi continuamente”: così monologa, in un flusso di coscienza senza punteggiatura, il professor Robert, fratello di Joseph, “feticista delle scarpe”, che si è buttato dalla finestra affacciata su quella storica piazza, la Heldenplatz (la piazza degli Eroi) temendo, lui ebreo, il ritorno del nazionalsocialismo. In quella piazza del centro di Vienna, Hitler nel 1938 annunciò alla folla inneggiante l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Mentre la figlia del suicida, Anna, inveisce così: “La vita intellettuale di questa città è già praticamente soffocata dall’infamia e dall’ottusità dei suoi intrallazzatori. Solo tra i miei colleghi il novanta per cento sono nazisti diceva papà sono rappresentanti o dell’ottusità cattolica oppure di quella nazista sono tutti quanti perfidi e infami la città di Vienna è un’unica e ottusa infamia…”
Piazza degli Eroi è del 1988, era stata commissionata allo scrittore dal più importante teatro della città, il Burgtheater, diretto da Claus Peymann in occasione del cinquantenario dell’Annessione. Peymann aveva già inaugurato la sua direzione con opere di Bernhard e non era amato dall’establishment. Così, prima ancora del debutto, girano voci allarmate che l’autore con Heldenplatz intenda diffamare l’intero popolo austriaco. Vengono chieste le dimissioni di Peyman e dell’assessore alla Cultura. Ma lo spettacolo riesce a debuttare il 4 novembre in un clima di tensione parossistica. Manifestanti scaricano escrementi animali fuori dal teatro e deve intervenire la polizia. Intanto all’interno è un grande successo. Alla fine anche lo stesso Bernhard sale sul palcoscenico a prendere gli applausi. Ed è qualcosa di inconsueto perché evitava sempre di trovarsi fra il pubblico per le rappresentazioni dei suoi lavori. Se ne andava in un bar dei dintorni o restava a casa per paura delle proprie reazioni nel caso la messa in scena da parte del regista non fosse stata di suo gusto. Era uno che non sapeva cosa fosse un comportamento diplomatico. Alla fine di quel novembre, poi, le sue condizioni fisiche peggiorano. Gli viene proposto un trapianto cardiaco. Lo rifiuta. Morirà nella casa di Gmunden, località Ohlsdorf in mezzo alle montagne, nella mattina del 12 febbraio 1989.
Era nato il 9 febbraio del 1931, nei Paesi Bassi, a Herlen: perché è lì che era scappata la madre, Herta, scoprendosi incinta di un falegname che non riconoscerà mai il bambino. Era scappata per paura delle reazioni in famiglia, era scappata forse presumendo troppo di se stessa e del suo amore. E così si consegna a una vita durissima. Si sistema col neonato presso un istituto per ragazze madri di Herlen e poi, trovato lavoro come domestica a Rotterdam, lo affida a un orfanotrofio dove può solo andare a trovarlo senza prenderlo in braccio, e dove la convincono a darlo in adozione. Ma all’ultimo momento Herta ci ripensa e accetta di riportarlo a Vienna dai genitori, mentre lei continua in Olanda la sua avventura esistenziale “densa di avvenimenti”. Così almeno scrive Bernhard nell’Origine, il primo dei cinque libri dell’autobiografia (pubblicata come quasi tutta la sua opera narrativa da Adelphi). E della madre ripete, in righe toccanti, che con lei ha avuto “per tutta la vita un rapporto difficile, difficile perché in definitiva la mia esistenza le è sempre risultata incomprensibile e mai è riuscita a capacitarsi di questa mia esistenza”. Ma non sembra portarle rancore se può concludere: “una vita durata soltanto quarantasei anni, sicché mi è tuttora impossibile rendere giustizia a questa donna meravigliosa”. Di meraviglioso, però, nella sua infanzia e preadolescenza – fra scuole correzionali in pieno nazismo e un tentativo di suicidio a quattordici anni – non c’è che la figura del nonno, Johannes Freumbichler, uno scrittore che diventerà famoso piuttosto tardi e allora si deciderà a sposare Anna Bernhard, con cui convive da sempre. Thomas grazie a lui impara cosa sia l’arte e viene incoraggiato a scrivere poesie (nel testamento, il nonno, nel ‘49, gli lascerà la propria macchina da scrivere) e si appassiona alla musica, cominciando a prendere lezioni di violino e di canto.
Tutto il primo periodo della vita di questo brusco scrittore sembra un feuilleton. La nascita “bastarda”, il padre mai conosciuto e morto presto in circostanze misteriose (forse ucciso, forse per una fuga di gas), un fratello di sette anni più giovane, Peter Fabjan, molto diverso da Thomas, nato da un secondo matrimonio di Herta che farà il medico e lo curerà fino all’ultimo respiro, diventando il secondo punto fermo della sua vita solitaria. C’è persino un ricovero nello stesso ospedale dove due giorni prima è stato ricoverato l’amato nonno, che vi morirà, mentre Thomas conosce finalmente se non l’affetto una certa complicità con la madre che gli legge libri accanto al letto. Situazione che si capovolge – racconta il germanista Luigi Reitani introducendo l’Autobiografia – quando sarà il figlio a leggere le proprie poesie al capezzale della madre, malata di tumore. Muore, la madre, che lui non ha nemmeno vent’anni, nell’ottobre del 1950 e, osserva Reitani, “nel ritratto di questo personaggio affiora al tempo stesso profonda pietà e radicale spietatezza, giacché l’essere imperfetti è il tratto caratterizzante di quella pietosa conditio humana che lo scrittore passa al setaccio spietato della ragione”.
Quel che precocemente si delinea in lui è la passione musicale. Fa lavoretti per mantenersi agli studi superiori di musica, scrive critiche teatrali e cinematografiche. S’innamora di Dostoevskij e poi l’incontro con Hedwig e poi l’iscrizione al Mozarteum di Salisburgo dove studia anche drammaturgia. E il teatro fa ingresso nella sua vita di autore con tre brevi testi che mette in scena nel 1960. Intanto viaggia per l’Europa con la Stavianicek, che chiama “zietta”. Finché tre anni dopo esce Gelo e poi Amras e la critica si accorge di lui. Cominciano i riconoscimenti ma, da parte sua - nel classico sistema oppositorio che governa i suoi rapporti con gli altri – lo sprezzo per i cerimoniali legati a questi riconoscimenti pubblici. Così si gonfia la leggenda Bernhard: Bernhard il difficile, l’irriconoscente, lo spregiatore della propria terra. Nell’incipit dell’Autobiografia scrive (un esempio fra i tanti che si potrebbero fare): “La città, popolata da due categorie di persone, gli affaristi e le loro vittime, è abitabile per colui che ci viene per imparare e per studiare soltanto in maniera dolorosa, disturbante ogni indole naturale, col tempo perturbante e devastante, molto spesso unicamente subdola e micidiale”.
Qual è il suo libro più bello? E’ sempre difficile o troppo personale fare scelte del genere. Senz’altro il più letto e apprezzato dal pubblico, e non a torto, è Il soccombente. E’ il più vicino a ciò che generalmente si definisce “romanzo” con un plot raccontabile: ci sono tre giovani pianisti che si conoscono a un corso di Horowitz, a Salisburgo. Tutti e tre brillantissimi. Ma due sono una promessa, il terzo è Glenn Gould: qualcuno che è una promessa, ma già realizzata. Scrive Bernhard: “Al termine del nostro corso con Horowitz, fu chiaro che Glenn già suonava il pianoforte meglio di Horowitz stesso, ad un tratto avevo avuto l’impressione che Glenn suonasse meglio di Horowitz e, da quel momento in poi, Glenn fu per me il più importante virtuoso del pianoforte di tutto il mondo, per quanti pianisti io abbia sentito da quel momento in poi, nessuno suonava come Glenn, lo stesso Rubinstein, che ho sempre amato, non suonava meglio di lui”. E’ la tragedia del confronto con qualcuno migliore di noi e alla fine, uno dei tre pianisti, Wertheimer, soccomberà a questa realtà per lui inaccettabile uccidendosi. Perché Wertheimer non riesce a condividere l’idea del narratore: “Non necessariamente dobbiamo essere dei geni per poter essere unici al mondo”. Il soccombente è – e come altrimenti? – un libro pieno di musica, pieno di Bach, di Haendel, di Mozart (di cui Bernhard ama soprattutto la sinfonia Haffner che torna in diverse sue opere), dell’odiato Beethoven del quale dice in Antichi maestri: “Quando ascoltiamo la musica di Beethoven sentiamo più frastuono che musica, note cupe e cadenzate come marce nazionali…”
Ma la musica nei suoi libri non è solo evocata. A essere musicale è la sua stessa prosa, la combinazione delle parole, il doppio triplo discorso indiretto (disse Tizio che disse Caio che ha detto Sempronio…) perché Bernhard compone le sue pagine su ritmi e tempi che potremmo definire sinfonici, insistendo con minime variazioni su singoli temi ossessivi, secondo una tecnica tutta sua che è probabilmente ricordo degli approfonditi studi di musica e canto (abbandonati di colpo nella giovinezza) ed è una musica talmente potente da reggere persino in traduzione. E’ anzi la sua caratteristica dominante, accanto a una visione della realtà totalmente negativa ma anche prodigiosamente ironica. E se da un lato lo scrittore afferma che la vita è solo “infamia, un periodo di orrore il quale, lungo o breve che sia, è fatto solo di fastidi e malinconia” (Ungenach. Sottotitolo: Una liquidazione) dall’altro, al pari dell’amato Kafka, sa come riderne e come strappare risate al lettore. Anzi in Cemento (SE 1990) scopre addirittura “l’autorisata”: “… sono scoppiato a ridere, in una di quelle che definisco autorisate, a cui nel corso degli anni ho fatto l’abitudine in seguito al mio perenne essere solo”.
A proposito di Ungenach (100 pagine, 10 euro) racconto del 1968 di cui Adelphi ripropone adesso la traduzione einaudiana (di Eugenio Bernardi) d’una decina di anni fa: è un testo spiazzante in cui la musica bernhardiana s’incaglia e deraglia, fino quasi a sembrare una (cattiva) imitazione dello scrittore austriaco. Intanto è un testo stanco, curiosamente pieno di a capo, inesistenti o quasi in tutto il resto dell’opera di Bernhard. Anzi potremmo dire che l’assenza di a capo sia uno degli elementi basilari di quel senso di tragica asfissia che comunica la sua prosa: una sensazione di affondamento con bisogno costante di tornare a galla per respirare. Invece in Ungenach si affastellano i capoversi e persino capitoli con titoli e titoletti: tutta un’impensabile possibilità di respirare, di non soccombere, lasciata al lettore… E’ la storia di un grandioso possedimento che, dopo la morte del proprietario dovrà, per decisione testamentaria, essere smantellato e dato in beneficienza perché tanto “tutto mira all’annientamento”.
Sconsiglierei chi non abbia letto mai niente di Bernhard di cominciare da questo libro: gli mancherebbero le stigmate stesse dello scrittore, la sua ossessività, la sua unicità, la sua disperata e spesso divertente follia, e le sue furie persino esagerate contro l’Austria e contro il genere umano. Potrebbe aprire A colpi d’ascia, invece, e partecipare con il protagonista a una festa di dopoteatro mentre gli ospiti aspettano di andare a tavola e lui si tiene prudentemente separato dagli altri in una poltrona appartata, e si maledice per aver accettato l’invito. E ascoltare i suoi malmostosi pensieri sui presenti, sul teatro, sul carattere degli attori, sullo schifo che è la vita in attesa della morte, su tutto e su tutti. “Quelle persone credono, poiché si sono fatte un nome e hanno ricevuto molti premi e pubblicato molti libri e venduto quadri a molti musei e pubblicato i loro libri presso le migliori case editrici e sistemato i loro quadri nei migliori musei, poiché questo Stato disgustoso ha concesso loro tutti i possibili premi e ha appeso al loro petto ogni possibile medaglia e decorazione, quelle persone credono per questo di essere diventate qualcuno, e invece, pensavo, non sono diventate nessuno”. Oppure condividere con lui una passeggiata esilarante in cui un altro che gli cammina accanto si mette a tossire terrorizzandolo: “…ogni volta che lui tossiva io trattenevo il respiro per non essere contagiato, fino a quando tutt’a un tratto ho pensato che anch’io sono tisico e probabilmente molto più tisico del compagno di Joana e a un tratto ho cominciato a tossire assai più forte del compagno di Joana che camminava al mio fianco e che aveva smesso con la sua tosse non appena io avevo cominciato con la mia…”.
Ma l’ideale per conoscere Bernhard sarebbe cominciare dalla fine. Dall’ultimo grande romanzo pubblicato in vita, Estinzione, in cui fra i personaggi si muove una riconoscibile Ingeborg Bachmann col nome di Maria e che si svolge in una Roma magnificamente tratteggiata. “Cenare con Maria, questo ci vorrebbe adesso, parlare con lei delle sue nuove poesie. Ascoltarla. Fidarmi di lei. Versarle del vino”. Anche questo romanzo è la storia di un’imponente eredità che il protagonista, lo scrittore Franz-Josef Murau, decide nel testamento di devolvere interamente alla comunità ebraica di Vienna. La Bachmann aveva abitato a Roma, al 66 di via Giulia, fino alla morte avvenuta per una disgrazia che somiglia a un suicidio (si era addormentata piena di psicofarmaci con la sigaretta accesa) nel 1973. Maria, scrive Bernhard nel libro “è sempre un evento” perché “Maria ha scritto poesie che, per farla breve, sono migliori di tutto quanto sia stato prodotto in lingua tedesca nella sua e quindi nella nostra epoca”.
E’ sorprendente anche questo nello scrittore, che mentre è in guerra con tutto e poco salva della letteratura dei contemporanei, sappia riconoscere ed esprimere ammirazione per il genio femminile. Lo fa più di una volta anche verso la Woolf della quale dice ad esempio in A colpi d’ascia prendendosela con una certa amica romanziera molto presuntuosa: “E una simile persona ha il coraggio di sostenere come se niente fosse che lei scrive meglio di quella Virginia Woolf che io, da quando ho cominciato a riflettere sulla letteratura, ammiro e considero la prima di tutte le scrittrici al mondo”.
Solitario e imprevedibile anche in questo, diverso dai suoi tanti “colleghi” che hanno spesso parole di critica beffarda verso le autrici, arrivando a demolire (penso a Vladimir Nabokov) persino la sua amatissima Woolf.
Così solitario, anche esistenzialmente e soprattutto dopo la morte della zietta, che nella sua casa di Ohlsdorf si possono vedere in una vetrinetta delle cartoline che quando partiva spediva a se stesso. Sopra ci scriveva: “Stai tranquillo Thomas, tutto bene”.