foto EPA/GHULAMULLAH HABIBI 

Così le brigate occidentali dell'antidiscriminazione ignorano Kabul

Giulio Meotti

"Dedichiamo più attenzione all’uso dei pronomi di genere che alle donne sotto minaccia", dice la sceneggiatrice Ayaan Hirsi Ali. La sua voce e quella delle altre che accendono un faro sulle femministe silenti nei confronti dei talebani

“Vent’anni dopo, come fondatrice dell’unico collegio femminile in Afghanistan, sto bruciando l’archivio dei miei studenti non per cancellarli, ma per proteggere loro e le loro famiglie”. E’  il video che Shabana Rasik ha postato sui social. Donne che cancellano le identità digitali, sportive esortate a bruciare le maglie, studentesse che nascondono l’iscrizione all’università, altre che svuotano le trousse di trucchi, librai che nascondono i titoli “blasfemi” e Arson Fahim, pianista di Kabul volato a Boston due settimane fa, che racconta di “miei amici musicisti che hanno iniziato a nascondere gli strumenti musicali”. 

 

Eppure, le brigate occidentali dell’antidiscriminazione tacciono. Madre ebrea polacca e padre gambiano, Rachel Khan è una sceneggiatrice e scrittrice francese di  successo. Nel suo ultimo libro, Racée, Khan attacca l’antirazzismo nato nei campus americani. Domenica, sul Journal du Dimanche, Khan ha scritto: “I decolonialisti e le femministe intersezionali non sembrano né offese né indignate. Come chi denuncia con magniloquenza il dominio dei maschi bianchi cisgender”. La loro unica ossessione, scrive Khan, “è alimentare teorie morbose per vendicarsi dell’occidente”. Sull’Express, la scrittrice iraniana esule a Parigi, Abnousse Shalmani, attacca un multiculturalismo che “distilla  veleno relativistico” e giustifica “gli efferati crimini dei terroristi come fossero oppressi”. Scrive che il neofemminismo “riconduce qualsiasi difesa delle donne musulmane all’universalismo moribondo e razzista che vorrebbe che le donne afghane assomigliassero a noi”. Durissima anche una donna di origine musulmana, sotto fatwa da quasi vent’anni e che ha subito la mutilazione genitale, Ayaan Hirsi Ali. “Quando un pesce marcisce, la testa marcisce per prima”, scrive la sceneggiatrice di “Submission” (costato la vita a Theo van Gogh) su Unherd. “Lo stesso si può dire per l’occidente. Siamo diventati così concentrati sulle ‘microaggressioni’ che abbiamo perso di vista le macroaggressioni alle donne. Dedichiamo più attenzione all’uso dei pronomi di genere che alle donne sotto minaccia”. Ma come si fa a parlar male del burqa talebano se per anni se ne è difeso il “diritto” a portarlo, accusando di “islamofobia” chiunque facesse presente che il mondo visto da dietro quella grata di ferro non è molto “inclusivo”? 

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.