Le foto

"Vite di corsa", l'uomo prima dello sportivo. Il ciclismo inspettato in mostra a Trento

Al castello di Caldes un racconto in 80 immagini dei reporter della storica agenzia Magnum: da Robert Capa ad Alex Majoli e Guy Le Querrec

Valeria Sforzini

Cattura il secondo prima, quando i capelli dei ragazzi sono ancora in ordine, gli sguardi fissi sull’orizzonte, i fogli di giornale stretti in mano, non ancora travolti e sparsi dal vento. In un lampo, ai giovani in attesa sulla strada davanti al negozio di biciclette di Mr. Pierre Cloarec, rimarrà solo la polvere sollevata dalle ruote del gruppo. Era il 1939, e Robert Capa aveva già assistito alla “Death in the making”, la morte mentre accadeva nella guerra civile spagnola e l’aveva immortalata nella serie che lo farà entrare di diritto tra i più grandi reporter di guerra al mondo. Quell’anno, qualche tempo prima di fondare la Magnum, i suoi occhi si presero una pausa dalla distruzione per fissare sulla pellicola le persone sparse tra le montagne: non nascoste dai cecchini, ma in attesa di veder comparire le maglie colorate ondeggianti sulle strade in salita, e per fotografare i corpi dei ciclisti buttati per terra ancora tremanti di fatica, per una volta non sfigurati e coperti di sangue. 

Vite di corsa”, al Castello di Caldes a Trento, è una mostra sul ciclismo che mette al centro l’uomo prima dello sportivo, un racconto in 80 immagini dei reporter dell’agenzia Magnum esposti fino al 26 settembre. Il tour de France è uno dei protagonisti della mostra: scattato da Robert Capa, inviato dalla rivista Match otto anni prima di fondare la Magnum, quando si sentivano già i primi venti della seconda guerra mondiale, da Guy Le Querrec nel ’54 e nell’82 da Harry Gruyaert. Alex Majoli è presente con le sue immagini del laboratorio di biciclette milanese di Alberto Masi, sotto le curve del Velodromo Vigorelli, mentre Christopher Anderson dedica una serie a Lance Armstrong, fotografato nel 2004 durante un allenamento a Los Angeles prima di essere travolto dallo scandalo del doping. Lo scatto delle sue gambe tese dopo l’allenamento, visto oggi, offre una chiave di lettura in più della sua storia. 

“Non ci sono fotografie di corridori che alzano le braccia, di scatti, come quelle che vediamo sulla Gazzetta o sulle riviste specializzate. Sono immagini che parlano di ciclismo, andando a parare da un’altra parte – racconta Marco Minuz, curatore della mostra – Gli appassionati potrebbero rimanere delusi. Non sono classiche foto di sport. È una mostra che cerca di ingerire cosa sia la fotografia d’autore, che parla di Magnum, dei suoi valori e della sua evoluzione”. Un ciclismo inaspettato, grazie agli sguardi di reporter che nella loro carriera sono diventati celebri per aver scattato contesti e soggetti completamente diversi. Le Querrec è conosciuto per le sue fotografie di musicisti jazz, Gruyaert si è conquistato una fama internazionale per la ricerca sull’uso del colore con le sue immagini di India, Marocco e Egitto e per i suoi innovativi “tv shots”.

 

Robert Capa ha fotografato pochissimo i ciclisti, e si è concentrato su tutto quello che avveniva attorno alla gara, in primis gli spettatori – continua Minuz – Non per niente, la sua frase più celebre è ‘ama la gente, faglielo capire’. È tutto rivolto alla dimensione umana. Quello era il focus”. Così troviamo la folla in attesa, trepidante, esaltata ai lati delle strade e dei sentieri. Passando da bermuda, giacche e gonne al ginocchio, a felpe in misto acrilico dai colori improbabili e berretti da baseball. 

La montagna entra nelle fotografie con prepotenza. È lei che detta il ritmo delle gare, a lei si devono adattare gambe e fiato. “È una presenza – spiega – è il luogo della massima sofferenza per il ciclista. La montagna è anche quel posto in cui un secondo diventa un secondo e mezzo, qui c’è la possibilità di andare vicino al proprio idolo, sentirlo”. Un giovane Guy Le Querrec ha iniziato così: “Quando era bambino aveva chiesto ai suoi genitori di accompagnarlo a vedere il tour – racconta Minuz – voleva incontrare il suo idolo: Attilio Ridolfi, che la storia non ricorderà”.

 

Il caso volle che Ridolfi forasse proprio davanti a lui, e che lui riuscisse a fargli una foto con la macchina presa in prestito da sua madre. “Da bambino era indeciso, gli sarebbe piaciuto diventare un ciclista – spiega – Con il passare del tempo rifletté su questa coincidenza e si accorse che per la bicicletta servivano dei grossi polpacci, muscoli che non aveva. Ma si rese conto che poteva fare qualcosa di più con il suo occhio. Iniziò a realizzare su commissione servizi di celebri squadre ciclistiche. Riuscì a mettere insieme le sue passioni, anche se sarà conosciuto come il fotografo per eccellenza della musica jazz”. 

Gianni Mura aveva definito il ciclismo l’unico sport in cui “chi fugge non è un vigliacco”. Una frase che sintetizza “Vite di corsa”. “Le parole di Mura sono molto simili a queste fotografie – spiega Minuz – Raccontano quello che c’è dietro: la prestazione. Nella mostra abbiamo inserito un intervento di Francesco Moser (ex ciclista trentino, ndr), in cui spiega che questo è uno sport di solitudine. Si sta tantissime ore da soli a pensare. Si suda, si fa fatica. Richiede un grandissimo sacrificio, ma ognuno è solo. Abbiamo cercato di suggerire, più che raccontare, che cosa sia davvero questo sport così strano, vissuto, popolare, dove non ci sono barriere e ognuno può sfiorare il proprio idolo, capace di creare una partecipazione pazzesca”.

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