Jerome K. Jerome, il saltimbanco malinconico
Cent’anni fa usciva in Italia “Tre uomini in barca”, un successo mondiale che dura ancora oggi. Ma il capolavoro dello scrittore britannico è la sua autobiografia: il testo meno conosciuto e meno letto
Jerome Klapka Jerome, ovvero: la centralità dell’apriscatole. Poi sì, certamente, la centralità di mille altre cose, persone e animali (non taceremo del cane), ma di certo l’apriscatole è l’apriscatole, cioè l’utensile jeromiano per eccellenza – brevettato in Connecticut, nasce nel suo stesso anno, 1859 –, non solo perché è al centro di una delle scene più esilaranti mai concepite dallo scrittore inglese, ma perché è emblema di una letteratura umoristica nata in un’epoca che, per la prima volta, scopriva le vacanze e gli oggetti, un’epoca durante la quale fu possibile trasformare una guida turistica dal titolo “Il fiume Tamigi, il suo panorama e la sua storia” in un romanzo irresistibile.
Tre uomini in barca: storia del romanzo di Jerome Klapka Jerome
“Tre uomini in barca”, ovvero: la centralità dell’editing. Un editing ante litteram, non scientifico e in un certo senso involontario, ma se un esempio va ricercato, utile a incoraggiare i riottosi al taglio severo del materiale eccedente, questo fa proprio al caso nostro – tirarla lunga è sempre un peccato mortale, ancor di più nella letteratura umoristica. Successo debordante anche in Italia grazie all’editore Sansoni, per un romanzo che resta, senza dubbio, quello con cui Jerome è maggiormente identificato. L’ideale sarebbe darsi a una gratificante rilettura estiva, e di affiancarla a un’altra opera, la più complessa e meno nota di Jerome, ossia “La mia vita e i miei tempi-seduto a veder lavorare” (Piano B edizioni, 227 pp., 14,50 euro; ebook 4,99 euro), autobiografia commovente e imprevedibile soprattutto per chi non si aspetti, da un autore spesso definito “spensierato”, riflessioni tutt’altro che spensierate sul passato, su Dio, sulla vita e sulla morte.
Ma torniamo all’apriscatole: l’umorismo che sprizza a geyser da “Tre uomini in barca” e irrora tutta la produzione di Jerome compresa quella ritenuta, a torto, minore (un giorno qualcuno spiegherà il senso di stabilire gerarchie nel caso di grandissimi autori di cui, semmai, andrebbe letta anche la lista per la lavanderia, ci sarebbe da imparare anche lì) sgorga dal senso di inadeguatezza di tutta una classe medio-bassa emergente ossessionata dal proprio svantaggio di partenza rispetto a posizioni sociali a lungo vagheggiate e inevitabilmente mitizzate, adesso – siamo nell’ultima decade dell’Ottocento – improvvisamente raggiungibili. Al tempo di “Tre uomini in barca” nasce lo svago, e così un’ampia fascia di persone ancora un po’ spaesata dall’inatteso affrancamento sociale ed economico si trova nella possibilità di accedere a questa bislacca ed eccitante esperienza, ovviamente in una configurazione alla portata, quindi non esattamente quella dei Grand Tour ma delle gitarelle, delle ferrovie vicinali, delle piccole scampagnate, avventure modeste, divagazioni, traversate al massimo fluviali, peripli in sedicesimo, ma ecco l’ozio finalmente istituzionalizzato, non più colpevole e appannaggio degli scansafatiche, ecco la gioia delle cose e soprattutto dell’apriscatole, il nuovo arnese di questa emancipazione, glorioso aggeggio di redenzione da una vita di modeste brode fatte e consumate in casa, status symbol minore del riscatto possibile. Di tutto questo materiale, il genio di Jerome sa cosa fare. E del resto non è un caso che in tutta la sua letteratura gli oggetti siano fondamentali, ma per una caratteristica: esistono per ribellarsi. Dovrebbero semplificare la vita? La complicano. Dovrebbero gratificare? Frustrano. Hanno vita propria, insomma. Non fanno mai ciò per cui sono predisposti ma si ripercuotono su chi li utilizza, in una specie di eterogenesi panpsichista comica che permette all’autore di concentrare in alcuni simboli cruciali del cambiamento l’arcinoto sentimento del contrario, puleggia-base di ogni moto umoristico, e – immaginiamo – di far ridere i suoi contemporanei perfino più di quanto faccia ridere noi. Abbiamo finalmente conquistato l’esperienza dell’ozio? Stiamo vivendo per la prima volta qualcosa che varrà la pena di essere raccontato? Possiamo godercela senza sentirci in colpa? Ovviamente no! E tutto perché l’ozio può essere estenuante, faticosissimo – sottinteso: solo per noi, però, noi che non ce lo siamo mai potuto permettere, noi che non cambieremo anche se, comprando un apriscatole, ci regaliamo l’illusione di lasciarci per sempre alle spalle ciò che siamo. L’ozio, insomma, genera guai, e la vacanza la si conquista solo dopo un ingrato superlavoro, dopo la fretta nel fare i bagagli, dopo la pioggia, dopo la calca, dopo le ingrate disavventure coi cavi da traino. Poi, quando la vacanza dovrebbe distendersi come un lenzuolo fresco di bucato su di noi e sulle fatiche fatte per meritarcela, quando cioè starebbe per cominciare, è finita e quindi tutto ricomincia da capo, tocca disfare con la medesima fatica, tocca tornare indietro, ma se Dio vuole in treno perché piove a dirotto (non a caso solo il rientro ferroviario è momento di vero riposo in “Tre uomini in barca”). Anche la cosiddetta cultura – il bisogno di farsene una fuori dai libri – diventa un sinistro obiettivo di queste vacanze sempre più intese come “arricchimento”, e anch’essa diventa oggetto del saporito scherno jeromiano. Memorabile questo passaggio di “Tre uomini a zonzo”: “Immagino” disse George “che voialtri desideriate approfittare del viaggio per ampliare la vostra cultura”. Risposi: “Entro limiti ragionevoli, e sempre che ci si possa riuscire senza troppe spese e con poco disturbo. Comunque, non vogliamo diventare mostri di sapienza”.
Jerome e i ritratti di Bernard Shaw, Conan Doyle e Stevenson
Insomma, volenti o nolenti, siamo quello che siamo e quel che siamo resteremo, al di là delle sirene sociali. La fedeltà a se stessi, per Jerome, non è un valore ma una condizione, un peccato (veniale) originale, un piccolo tarlo inemendabile, un codice che non è possibile tradire. Ogni sua riflessione – pensiamo a quelle contenute in “Pensieri oziosi di un ozioso” – parte sempre dal fatto che, malgrado tutto, chiunque si trascina dietro ciò che è, e ciò che, magari, negherebbe volentieri di essere. Ma chi era, Jerome Klapka Jerome? Da dove veniva? E perché quel “Klapka”, quel suono così implausibile, quel breve trotto di sillabe ruvido-esotiche?
Walsall, West Midland, 2 maggio 1859: Jerome nasce e si prende quasi per intero il nome del padre – Jerome Clapp Jerome – insieme a quello del generale George Klapka, giovane eroe della guerra d’indipendenza ungherese del 1849 che aveva soggiornato presso la famiglia. Quando compie un anno, il padre comunica alla madre – che lo annota doviziosamente nel proprio diario – di essere un uomo rovinato. Il vento sembrava a favore delle miniere carbonifere e la gente aveva accumulato ingenti patrimoni, ma il paradiso non è per tutti. “Quando ebbe perduto fino all’ultimo soldo”, scrive Jerome, “mio padre sapeva tutto ciò che avrebbe dovuto sapere intorno all’estrazione del carbone. Però ormai era tardi”. La miseria segnerà tutta l’infanzia di Jerome e porterà alla momentanea separazione dei genitori: la madre e i figli restarono a Walsall e il padre vivrà da solo a Londra in una baracca miserabile in Sussex Street, provando a gestire un magazzino di ferramenta con un piccolo molo in Narrow Streee, Limehouse. Ma anche quel commercio non prosperava e i Jerome da sfamare erano comunque sette. “Il mio fratellino Milton morì dopo una breve malattia all’età di sei anni”, scrive Jerome. “A ogni anniversario della sua morte, mia madre annotava che l’attesa per rivederlo diminuiva di un anno. L’ultima annotazione, sedici anni dopo e dieci giorni prima che morisse anche lei, aveva scritto: compleanno del caro Milton. Non manca molto a rivederlo, chissà come sarà cambiato!”.
Le cose continuano ad andare male, l’intera famiglia si ricongiunge nel bugigattolo londinese e intanto il piccolo Jerome fa esperienza dei minacciosi e oscuri dintorni di East End – nuovo tentativo paterno ma niente da fare, a monte anche il progetto di costruire una ferrovia. “Ogni sforzo che fa il mio caro marito”, si dispera la madre, “si rivela vano. Sembriamo esclusi dalla benedizione di Dio. Quanto stanno meglio di noi molti passeri...”.
Gli anni che si susseguono, fino alla pubblicazione del suo più famoso romanzo, sono tutti segnati dal dolore e dalla povertà. “Tornato da scuola, alle cinque, prendevo il té, che era il pasto principale della giornata, e mi chiudevo nella mia piccola camera, imbacuccato in una coperta, a fare i compiti”. Eppure il peggio doveva arrivare: e arrivò, con la morte dei genitori. “I pasti”, racconta Jerome, “erano, a quel punto, la mia difficoltà principale. In più, a causa della mia timidezza, avevo paura a chiedere un aiuto”. Altri tempi, in cui si nascondevano le debolezze, la povertà non era un vanto e, soprattutto, non la si sfruttava vittimisticamente come implicito diritto a ricattare moralmente il prossimo. Anni di traslochi e solitudine, mucchi di solitudine, poi un impiego alle ferrovie come amministrativo e l’indomabile desiderio di fuggire anche da lì, ma solo per andare a finire male, a bere e ad unirsi a un circo itinerante. “Restai sul palcoscenici per tre anni”, scrive Jerome raccontando la misera gloria, il poco denaro, e tutto quel lieto arrabattarsi proprio di una compagnia sgangherata. “Ma se avessi potuto vivere soltanto di risate e applausi, avrei continuato”. Furono giorni duri e notti durissime, trascorse in squallide bettole per nove pence a letto (condiviso con uno sconosciuto) senza spogliarsi a causa del freddo e saltando in piedi al minimo sospetto rotolio – ratti o cos’altro? – e con una padella in comune per i bisogni, nei pressi della quale la mattina dopo si metteva insieme una colazione, facendo ognuno la guardia alla propria sottile fetta di lardo anche mentre la mangiava. “In quel periodo scrivevo novelle, lavori teatrali, saggi. Ma ci vollero anni. Uno scritto malinconico su una ragazza morta per amore mi venne accettato da un giornale chiamato The lamp. Chiuse il giorno dopo. Gli altri, con spaventosa monotonia, mi venivano continuamente restituiti”. Esilarante la descrizione di come avveniva quel che oggi un qualunque grafomane chiamerebbe “il processo della scrittura”: vagando nottetempo per le strade di Portland Place, fermandosi sotto un lampione ad annotare, vincendo gli sguardi sospettosi della guardie e anzi, coinvolgendole, declamando loro le proprie pagine e ascoltando consigli, appuntando osservazioni.
Ma la parte più sorprendente della biografia di Jerome non finisce qui, perché dopo il successo con la pubblicazione di un libro di memorie di avventure teatrali e circensi, quando diventa direttore dell’Idler, rivista illustrata di proprietà di Robert Barr (“scelse me al posto di Kipling perché pensò che fossi più semplice da manipolare”), Jerome diventa amico delle principali celebrità dell’epoca, e davvero esilaranti sono i suoi ritratti di Bernard Shaw (“la gente pensa che io dica cose originalissima ma non è vero, ripeto cose che chi già detto cento volte”, sghignazzava), di Conan Doyle (scriveva in mezzo a un viavai di gente e spesso interveniva nelle discussioni mentre “la sua penna non smetteva mai di muoversi” – oggi è tutto eremo instagrammandosi al tramonto) e di Stevenson (“difficile farlo parlare, ma se iniziava, continuava senza interruzione”).
Strazianti le pagine che raccontano della Prima guerra mondiale (“ho notato”, ironizza Jerome, “che quando Dio si occupa di politica estera cominciano i guai”), col ricordo di come un furioso spirito di gregge si fosse impossessato, in quei giorni, anche degli spiriti più pacifici, insieme all’idea che la guerra avrebbe “rischiarato l’aria” e la vita, dopo, sarebbe stata più piacevole. “Alla dichiarazione di guerra la bestia che è in me esultò” confessa Jerome che, nel novembre del 1916, a cinquantacinque anni, parte come guidatore di ambulanze, con destinazione Rarécourt, nelle Argonne, a venti miglia da Verdun. Tremendo il ricordo di un fiumiciattolo lungo il cui corso limaccioso galleggiavano funebri repertori della violenza: uno scarpone pieno di sangue o una testa di cavallo con le orbite vuote. “I giornali di Parigi arrivavano la sera e ci spiegavano quanto eravamo allegri e fiduciosi”. Jerome riepiloga tutta la vita e pensa alla morte, dicendosi sicuro che, nell’impari battaglia umana coi vizi e le tentazioni, forse non è necessario uscirne santi, perché può darsi che, in qualche lotta, si sia stati più vittoriosi di quanto si creda, e Dio avrà misericordia.
La vita passa e Jerome sorride nel ripensare a quel che era: solo un bambino povero che, serissimo, chiedeva a sua madre: “Ma se tutto arriva con la preghiera, che senso ha lavorare?”.