quanto dura la letteratura?
Quelli che volevano vincere lo Strega o essere come Calasso
È il pubblico elitario che rende eterna un’opera, non la vittoria di un premio
A che serve, serve a qualcosa vincere il premio Strega? Ogni volta che questa domanda risuona, si sente la solita risposta: vincere il premio Strega serve a vendere il proprio romanzo nei mesi estivi a chi va in vacanza e si decide a comprare un libro: non più di uno e non più di una volta all’anno. Il romanzo che ha vinto viene letto in spiaggia “sotto l’ombrellone” e chi lo legge è sicuro che sta leggendo un libro che è un romanzo, che si può leggere, che si deve leggere. Finita l’estate, letto o non letto, il romanzo viene quasi sempre dimenticato. Sono almeno vent’anni che succede questo, ma il premio Strega resta una fede, una religione, un dogma per i nuovi scrittori. Bisogna vincerlo, si ha il diritto di riceverlo e quindi ci si impegna per tempo a concepire il romanzo giusto per ricevere lo Strega. Anche coloro che credono di credere in un fantasma più immaginario che culturale chiamato letteratura, crede e ha creduto finora che si entra ufficialmente nella letteratura vincendo il premio Strega. Si crede di esistere per maturità e autorità raggiunta, ricevendo lo Strega. Ma ora questa fede o superstizione che per anni ha messo d’accordo editori e narratori, sembra che all’improvviso si sia infranta.
Ci voleva un narratore come Emanuele Trevi, che è anche o soprattutto un critico (sia detto senza offesa), per lanciare l’allarme, per risvegliare le coscienze letterarie dal loro sonno dogmatico. È stato Trevi a lanciare l’idea, a esprimere la preoccupazione, a formulare il problema del come si fa non solo a essere premiati allo Strega (lui lo è stato un mese fa) ma anche a durare nel tempo, visto che la letteratura implica, implicava, una volta, l’idea di durata. La letteratura “di consumo” era stata considerata in precedenza un’altra cosa: una simil letteratura, una paraletteratura, una cosa vera a metà, perché sparisce poco dopo essere apparsa e viene dimenticata poco dopo essere consumata. Trevi, che è un critico, che ha cioè una coscienza e una cultura letteraria, si è preoccupato (cosa rara) per avere ricevuto il premio Strega. Ha capito che non è un traguardo. Avendo una certa memoria storica, cioè una competenza critica che gli viene da quell’ormai remoto Novecento di cui tutti si vogliono alleggerire, ecco che Trevi ha aperto sulla Lettura del Corriere (15 agosto) un dibattito un po’ troppo irenico (i dibattenti non dissentivano mai) per parlare di letteratura che dura o non dura: proprio questo è il problema.
In verità, credo che ci sarebbe stato da discutere almeno di una cosa che invece, per scaramantica fobia, non è stata neppure nominata: voglio dire la critica, la famosa, malfamata, detestata, supponente, impopolare, elitaria, voluta ma odiata critica. I nuovi scrittori, la nuova letteratura, a partire dagli anni Novanta ma soprattutto nel Duemila, hanno voluto lettori, lettori, lettori e vendite, vendite, vendite, non noiosa, sterile, inutile critica. C’è stata, insomma, quella che, in memoria di Pasolini, si potrebbe chiamare una “mutazione”.
Una volta, negli anni Sessanta e Settanta, ci fu un’intossicazione teorica, teoricistica e ipercritica che indusse gli scrittori a scrivere più per piacere ai critici che per essere letti: si scriveva per mettere in pratica quanto in teoria (teoria della letteratura) era stato stabilito. In Italia, anche due scrittori senza dubbio notevoli, intelligenti, di valore come Zanzotto e Calvino, da un certo momento in poi hanno scritto, sembra, per dare materia di analisi a una critica-teoria che credeva di aver risolto una volta per sempre il problema di “che cos’è la letteratura”. La fama di Zanzotto e Calvino, la loro autorità e durata, fu dovuta a una critica universitaria che per la prima volta era dominante.
Il caso di Elsa Morante, esploso con la pubblicazione, nel 1974, del suo romanzo La Storia, stroncato prontamente da specialisti in marxismo e in narratologia, rivelò soprattutto uno scandalo: quel romanzo, si disse, era scritto per i lettori, non per i professori e perciò vendeva molto. Che vergogna! Sì, allora scrivere per i lettori comuni era considerata una vergogna. Si aprì un conflitto che però venne presto superato, nel 1980, con Il nome della rosa (premio Strega), da quel genio della “cultura di massa accreditata” che era Umberto Eco, gran professore di Semiologia e gran seguace di Topolino.
Con gli anni Ottanta il dover essere si spostò dalla politica al primo posto e fatta da tutti, alla narrativa scritta da tutti per diritto di creatività e dovere di autoanalisi. La parola d’ordine che a tutt’oggi assilla chiunque è questa: raccontare e raccontare, storie e storie, narrazioni e narrazioni. Oggi nessuno dice o spiega o chiarisce qualcosa, ma racconta storie, propone narrazioni. È vero, non se ne può più. Tutti scrivono cioè raccontano. E dopo un po’ tutti hanno voluto e vogliono il premio Strega per aver scritto il loro bravo romanzo che vuole raggiungere i lettori vendendo molto. La critica è stata sostituita dalle classifiche dei libri più venduti. Bestseller uguale best book.
I lettori, sì. Ma che lettori? La discussione aperta da Trevi ha osato dire che i lettori veri, o meglio i soli che promettono una certa durata ai romanzi premiati, sono i lettori di élite (meno di cento persone, credo) non i lettori di massa. Si è sputato sulle élite culturali fino a ieri. Ricordo che anni fa uno dei nuovi narratori italiani, un romano, immaginando di parlare a un critico, gli avrebbe detto: “Nun te piasce quello che scrivo? E ’sti cazzi!”. Solo con la elitaria Adelphi si è fatta eccezione pieni di rispetto e con Calasso iperelitario ma supervenditore. Tutti volevano essere Calasso o piacergli. Va bene, provate a imitarlo. Trovate il modo. Lui voleva tutto: mistica e frivolezza, metafisica e commercio. Oppure provate a criticarlo, se ci riuscite. Cari aspiranti allo Strega e alla durata, criticare per voi è così difficile e in più è una cosa da perdenti e voi invece volete vincere. Che cosa? Lo Strega. Un po’ poco, manca la durata. Calasso, tra l’altro, il premio Strega non l’ha mai vinto.