tratto da una storia vera
Sempre più giornalisti lasciano le redazioni per scrivere sceneggiature
Succede in America. Come insegna Nora Ephron, serve il fatto giusto e la capacità di raccontarlo. Amy Chozick e la “sua” Clinton
Il nome che tutti citano è quello di Nora Ephron. La carriera a cui in molti aspirano è la sua, l’inizio come giornalista (Ephron fu reporter per il New York Post) e poi il salto a Hollywood a scrivere sceneggiature e magari, chissà, anche a dirigere. “È la mia eroina”, mi dice Amy Chozick. Anni fa ci eravamo incontrate a New York per l’uscita in Italia di In corsa con Hillary (HarperCollins), il racconto molto personale delle campagne da presidente di Hillary Clinton che Chozick ha seguito nell’arco di quasi dieci anni (la prima è del 2008, la seconda è del 2016) prima come giornalista per il Wall Street Journal e poi per il New York Times. Oggi la ritrovo a Los Angeles dove si è trasferita da quando il suo libro è stato opzionato dalla Warner Bros per farne una serie televisiva. A lei il salto sta riuscendo, e anche bene. Ovviamente non è l’unica, anzi.
Al festival di Toronto del 2019 ci furono ben tre film in concorso tratti da lavori di giornalisti: Hustlers, A Beautiful Day in the Neighborhood e Our Friend. Abbastanza per farne un trend. Per non parlare di “Modern Love”, la famosa rubrica di sentimenti del New York Times diventata prima un podcast e poi, nel 2019, una serie per Amazon (la cui seconda stagione è uscita il 13 agosto). “Avendo sempre meno tempo i produttori leggono articoli e rubriche invece che interi libri”, dice un po’ scherzando un po’ no Sue Shapiro, che alla New School di Manhattan tiene un corso di scrittura molto frequentato. Il sogno neanche tanto segreto della maggioranza dei suoi studenti è di pubblicare una storia su Modern Love e di vederla poi trasformata in un film. “Ho voluto da subito essere coinvolta”, mi racconta Chozick al telefono. “Alcuni dopo che i loro lavori sono stati opzionati tornano al giornalismo, ma io volevo cogliere questa occasione per imparare qualcosa di nuovo, per scrivere sceneggiature e quindi ho detto subito che volevo far parte del team di scrittura”.
La persona a cui dice di dovere molto, quella con cui si è trovata da subito in sintonia è Greg Berlanti, a cui è affidato il compito di sviluppare il soggetto. “Abbiamo iniziato a parlare ed entrambi ci siamo trovati d’accordo sul fatto che una potenziale serie tv fosse già tutta racchiusa nel capitolo The Girls on the Bus, quello in cui racconto come il corpo stampa che seguiva Hillary fosse prevalentemente femminile e come questo fosse un cambiamento epocale rispetto a The Boys on the Bus, il libro del 1973 di Timothy Crouse sui reporter che seguivano la campagna presidenziale del 1972, quella tra Nixon e McGovern. Essendo Greg un genio, ha subito immaginato la cosa come una storia di amicizia femminile ambientata sullo sfondo di una campagna immaginaria”. La seconda persona con cui si trova è Julie Plec, co-creatrice di The Vampire Diaries e di altri show. Con lei, Chozick sviluppa il personaggio principale e quelli secondari e arriva ad avere l’ossatura di tutta la prima stagione, se non nei dettagli almeno nella struttura principale.
Con l’entrata in campo di Netflix le due mettono su una vera e propria writer room, assumono scrittori e sono quasi pronte a partire con le riprese quando arriva la pandemia a fermare tutto. “È una serie che prevede molte scene di massa e molti spostamenti on the road, non era davvero possibile mandarla avanti. La stiamo riprendendo ora, anche se ovviamente alcune cose andranno cambiate, serviranno degli aggiornamenti”. Nel frattempo Chozick ha venduto un altro soggetto, questa volta a Hbo Max, e sta lavorando a un paio di film per cui ormai “mi sento al cento per cento una sceneggiatrice. Del giornalismo mi manca la redazione, quel senso di essere sempre al centro delle cose mentre accadono, la possibilità di andare in posti e situazioni dove altri non possono andare, dalle Olimpiadi alle campagne presidenziali. Ma la vita da sceneggiatrice mi piace, è come giocare con gli amici immaginari che avevo da bambina, solo che ora li faccio vivere e costruisco loro una vita”.
Jessica Pressler ha raccontato al Time di essersi resa conto delle potenzialità del suo articolo già mentre lo scriveva perché “era fatto di tutte quelle cose che piacciono a Hollywood: “Droga! Spogliarelliste! Soldi!”. Pubblicato sul New York Magazine nel dicembre 2015 con il titolo di The Hustlers at Scores, nel 2019 è diventato il film Hustlers con Jennifer Lopez e Costance Wu, dopo che Pressler stessa lo aveva inviato a Adam McKay, regista di The Big Short, convinta che un gruppo di spogliarelliste che truffano ricconi di Wall Street per sopravvivere alla crisi economica del 2008 potesse interessargli. Non solo aveva ragione, ma la regista che poi finirà per scrivere e girare il film, Lorene Scafaria, decide di dare alla giornalista dignità di personaggio all’interno della pellicola e la fa interpretare a Julia Stiles. “Anche se la verità intrinseca c’è, io e quel personaggio non abbiamo molto in comune, non ho mai ricevuto una chiamata da uno dei miei intervistati durante il mio baby shower, ad esempio”, dice Pressler, alludendo a uno dei problemi principali che un giornalista – per sua natura professionale dedito ai fatti e alla realtà – si trova ad affrontare quando cede i diritti del proprio lavoro e lo vede arricchito da dettagli di fantasia. “Michael Lewis – i cui libri sono stati adattati nei film Moneyball e The Big Short – una volta mi ha detto che tutti quelli che entrano in questo processo sono terrorizzati a causa del potere del mezzo. Se 100 mila persone leggono un tuo libro o un tuo articolo, 40 milioni vedono il film che ne è tratto”.
In A Beautiful Day in the Neighborhood, Matthew Rhys interpreta un giornalista a cui viene assegnato il ritratto di Mister Rogers, il famosissimo personaggio televisivo amato dai bambini americani, una specie di Mago Zurlì d’Oltreoceano, qui interpretato da Tom Hanks. Il film, uscito lo scorso novembre, è un adattamento del pezzo di Tom Junod uscito su Esquire nel 1998 con il titolo Can You Say... Hero?. “Contrariamente al me stesso interpretato da Rhys, che a tratti diventa sprezzante o frustrato, non credo di essermi mai arrabbiato con Rogers per non aver risposto alle mie domande”, ha raccontato Junod al Los Angeles Time. Dopo quell’intervista i due divennero amici e intrattennero una lunga corrispondenza via email. È da quella che gli sceneggiatori hanno tratto la maggior parte delle idee per il film e ne hanno fatto una storia esistenziale sul rapporto con il proprio padre. “Siccome nell’articolo di me c’è poco, a parte il nome del peluche di quando ero bambino, gli sceneggiatori sono andati a leggersi le mail che ci siamo scritti fino a due mesi prima della sua morte, nel 2003. Una delle cose che condivido con quel personaggio è che entrambi abbiamo capito presto che chi stavamo intervistando era notevole e singolare. Rogers era esperto nel ribaltare le domande in un modo che ti faceva sentire che non stava semplicemente svicolando. In quel momento della mia vita ero ricettivo. Ero passato da GQ a Esquire con una discreta fanfara: in effetti c’era fanfara a quei tempi quando i giornalisti passavano da una rivista a un’altra. Avevo scritto una storia su Kevin Spacey che non era stata un successo, anzi era stato un disastro totale. Mi aveva fatto mettere in discussione come scrittore. E come il personaggio del film, ero molto, molto aperto al predicare di Rogers”.
“Ogni volta che esce qualcosa di decente, c’è sempre una piccola ondata di interesse da parte delle società di produzione”, racconta Matthew Teague. Il film Our Friend, uscito in Italia come L’amico del cuore, una commedia dark in cui Casey Affleck interpreta un giornalista alla cui moglie (Dakota Johnson) viene diagnosticata una malattia terminale e il cui migliore amico (Jason Segel) si trasferisce da loro per due anni per aiutarlo a prendersi cura di lei, è tratto da un suo articolo pubblicato su Esquire nel 2015, dopo che la moglie era morta di cancro a 36 anni, lasciando due bambine. Teague, con una carriera come inviato in Pakistan, Somalia, Irlanda e in altre parti del mondo, ha avuto altri articoli opzionati dai produttori, ma vista la natura estremamente personale di questo, ha voluto scrivere lui stesso la sceneggiatura, salvo poi rendersi conto, dopo un anno di tentativi, che era troppo coinvolto dal materiale e che era meglio assumere il ruolo di produttore esecutivo, lasciando ad altri la scrittura. In un articolo del New York Times del gennaio di quest’anno, in occasione dell’uscita del film nelle sale americane, Teague ha raccontato della delusione e del dolore provati davanti alle prime, non entusiasmanti critiche uscite dopo la proiezione di Our Friend al festival di Toronto. “Il bagliore della pubblica critica mi ha aiutato a essere più consapevole di quanto possa sentirsi spaventoso e impotente il soggetto di una storia”, ha detto.
“È facile dimenticarlo, anche per uno scrittore che apprezza l’empatia. A volte anche una breve storia – o una recensione scritta frettolosamente – può spezzare il cuore di qualcuno per molto, molto tempo”. Nel frattempo sta adattando un suo articolo uscito su GQ nel 2003 su un incidente avvenuto durante delle esercitazioni militari in North Carolina. La serie si intitolerà Pineland, dal nome del paese immaginario che i soldati americani devono liberare durante il loro addestramento. “Hollywood ha sempre avuto un grande interesse per storie realmente accadute o di cui si possa scrivere ‘ispirato da eventi realmente accaduti’”, dice Chozick. “Penso a Erin Brockovich, ma potremmo stare qui a citare altre centinaia di titoli. Allo stesso tempo l’appetito insaziabile che c’è oggi è nuovo, moltiplicato anche grazie alla miriade di piattaforme bisognose di contenuti. Le idee originali sono sempre benvenute, ma quando c’è un libro o un articolo di appoggio, è preferibile. Certo, ormai la competizione è a livelli altissimi. Leggi una storia sul New York Times e pensi già che qualcuno la sta opzionando. Mi è capitato un mese fa, ho letto di questa madre messicana la cui figlia è stata rapita dai signori della droga... L’ho letta e ho pensato che sarebbe stata subito opzionata e infatti la serie è già in fase di sviluppo”.
Per questo e per altri motivi, Chozick non è la sola nel pensare che in fondo il giornalismo non è per niente morto, ma anzi contribuisce con ricchezza e originalità a raccontare le storie che poi vediamo sullo schermo. “Ephron stessa sosteneva che qualche anno di giornalismo fa bene a tutti quelli che vogliono scrivere perché ti permette di incontrare e parlare con gente che altrimenti nella tua bolla da sceneggiatore non incontreresti. Sono ottimista perché, pur nella tragicità delle redazioni locali che ormai sono tutte smantellate, penso che quando ho iniziato io non c’erano i podcast o Twitter per farsi notare ed entrare in questo mondo era ancora più difficile, mentre adesso ci sono cose interessanti, c’è la narrativa documentaristica, quindi non sono così negativa riguardo al futuro della professione. Penso anche che ci siano conversazioni interessanti in questo momento nelle redazioni e che la fiction sia un modo per parlarne. Personalmente ho ancora preoccupazioni su come la stampa ha raccontato le elezioni del 2016 e Trump e grazie a The Girls on the Bus ho trovato il modo di esprimerle”.
La partigianeria, i clickbait, tutti i sentimenti complicati che abbiamo nei confronti della stampa, conferma Chozick, saranno trattati grazie alle discussioni tra le protagoniste, quattro giornaliste molto diverse tra loro. C’è quella vecchio stampo, che scrive per il New York Times e ancora adora la carta stampata; c’è quella di destra influenzata da FoxNew; c’è ovviamente quella che lavora con i nuovi media, l’influencer che fa contenuti sponsorizzati. La professione sta cambiando e così il modo di raccontarla. Succede persino a Carrie Bradshaw: in Just Like that, sequel di Sex & The City, la sua rubrica sul sesso non c’è più. Al suo posto c’è un modernissimo podcast.