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Contro la schiavitù dell'attualità nell'informazione

Sergio Garufi

Siamo bombardati giornalmente da parole e pensieri non richiesti. Il caso di Radio3, preoccupata per lo scarso interesse verso gli attentati a Kabul 

Qualche giorno fa gli amici di Radio3 erano sorpresi e preoccupati. Lo rivela sulla sua pagina Facebook Piero Sorrentino, una delle voci più ascoltate dell’emittente di stato. Poche ore prima era stata diffusa la notizia della strage all’aeroporto di Kabul, e subito i redattori e conduttori di Prima Pagina avevano ragionato sulla loro chat di WhatsApp riguardo agli ospiti da invitare e all’impostazione da dare al programma, ma l’indomani, “incredibilmente e inspiegabilmente”, ai centralini del programma non era arrivata alcuna richiesta per quell’argomento. “Gli ascoltatori proponevano di tutto, da Alitalia ai vaccini, ma nessuno aveva sentito l’urgenza e la necessità di discutere alla radio pubblica di un attentato kamikaze nel quale tanti uomini, donne e bambini hanno perso la vita”. E concludeva amaramente dicendo che “se è vero che Prima pagina da più di quarant’anni è un po’ il termometro di quello che accade nel paese, e se è vero che le sue telefonate funzionano come un piccolo ma precisissimo tracciato dei movimenti dell’opinione pubblica italiana, dei suoi sentimenti, dei suoi pensieri, delle sue preoccupazioni, dei suoi umori, stamattina, sulla carta millimetrata di questo quotidiano referto radiofonico del paese, la linea era angosciantemente piatta”. 


Sarà. Personalmente trovo curioso il fatto che nessuno si interroghi mai su quanto sia preoccupante invece questo regime di schiavitù attenzionale verso i temi caldi del giorno, come se l’andare a rimorchio dell’attualità e parlare tutti insieme della stessa cosa nello stesso momento possa favorire la diffusione del pensiero critico e una maggiore consapevolezza. Ora, che questo sia un meccanismo patologico è evidente fin dall’aggettivo che ne qualifica la circolazione: “virale”, basta vedere come nasce e si alimenta. Prima fa capolino sui social, dove quando s’impone assurge a trending topic di pubblico interesse dividendo il pubblico in tifoserie, poi rimbalza sulle radio, in tv e sulle pagine culturali dei giornali. Di solito a quel punto il tema viene accantonato, considerandolo esaurito, e torna nel dimenticatoio, cedendo il passo ad altre voci e storie che reclamano la nostra attenzione. Perché l’obiettivo, o per meglio dire la preda ambita è una sola, sempre la stessa: la nostra labile attenzione tentata da mille sirene mediatiche, non a caso per averla bisogna catturarla. Ma come sanno bene gli anglosassoni, l’attenzione trasformata in merce si paga, qui in cambio di un protagonismo da speakers’ corner, esercitato con la telefonata alla redazione o l’arringa alla propria bolla. 

Dietro tutto questo c’è il mito della “gente”, dell’opinione pubblica, della società civile, dell’uno vale uno, lo stesso che ha portato nella stanza dei bottoni una banda di scappati di casa pensando che per fare la rivoluzione bastasse la faccia pulita e un nome candido e puro, tipo Virginia. Ma, libera di esprimersi nell’anonimato, la gente spesso si riduce a un coacervo di rancori e contrapposizioni, come si vide già ai tempi dei microfoni aperti di Radio Radicale. E’ dal mito della gente che nascono i No mask e i No vax, contrapposti ai pecoroni che si fanno irretire dagli esperti bugiardi e prezzolati. Siamo talmente immersi in questo clima negativo che l’arma più efficace con cui qualcuno o qualcosa prova a sedurci è l’elenco di ciò che non vogliamo, o che non c’è. Come i cartelloni che pubblicizzavano il comizio della Lega in piazza del Popolo, con i testimonial assenti come Fabio Fazio, la Boldrini, eccetera, ai programmi elettorali che pongono l’accento sulla pars destruens, come l’abolizione della legge Fornero, fino al marketing che ci alletta segnalando che un prodotto è privo di olio di palma, o senza lattosio, senza conservanti, coloranti o grassi idrogenati, per finire con i bilanci negativi, come quello della rubrica del Post di Luca Sofri, che ogni fine dicembre pubblica un album fotografico intitolato “senza di te”, mostrando i volti delle persone eminenti scomparse nei dodici mesi precedenti, come se quelle perdite fossero la cosa più rilevante dell’anno appena trascorso.


La pars costruens invece è consolatoria, un comodo surrogato dell’impegno, l’illusione di aver partecipato al dibattito pubblico, di aver fatto sentire la propria voce (dacci oggi il nostro parere quotidiano, sentenziava Altan), comunicando sdegno o commozione come un tempo si manifestava per strada o si faceva beneficenza per una buona causa, e poi si può tornare al disbrigo delle proprie faccende con la coscienza a posto. Anche qui vige l’uno vale uno in cui tutto si equivale, tutto pesa e ci tocca allo stesso modo: l’attentato a Kabul e la colf della Cirinnà, Chiara Ferragni agli Uffizi, petaloso e la morte di Calasso, e così in questo frullatore impazzito ci finisce – circonfuso di un’unanime ammirazione – anche chi, come il fondatore di Adelphi, della propria irriducibile refrattarietà al presente aveva fatto una ragion di vita, prima ancora che una poetica raffinatissima ed elitaria. Gilles Deleuze l’aveva da un pezzo, quando aveva denunciato che “siamo sommersi di parole inutili, di una quantità folle di pareri totalmente gratuiti. Il problema non è più quello di fare in modo che la gente si esprima, ma di procurare loro degli interstizi di solitudine e di silenzio a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire. Le forze della repressione non impediscono alla gente di esprimersi, al contrario la costringono a esprimersi. Dolcezza di non aver nulla da dire, diritto di non aver nulla da dire: è questa la condizione perché si formi qualcosa di raro o di rarefatto che meriti, per poco che sia, d’esser detto”.

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