il foglio del weekend
Il samurai dei media
Criminale o mogul, sportivo o spia. Shoriki Matsutaro non fu solo un editore. Rese lo Yomiuri il giornale più letto al mondo
Otto milioni di copie ogni giorno e una televisione commerciale senza rivali, ancora oggi nell’èra internet: un sogno che accarezza le notti di Silvio Berlusconi, Urbano Cairo, John Elkann, Michael Bloomberg o qualsiasi altro patron della stampa e dei massa media. Eppure questa volta la realtà è davvero fatta della stessa materia dei sogni. Stiamo parlando dello Yomiuri Shimbun il più grande quotidiano mondiale e della Ntv, la Nippon Television Network, i capolavori che Shoriki Matsutaro (il cognome prima del nome come è tradizione) ha lasciato ai suoi eredi.
Nato nel 1885 e morto nel 1969, è stato uno dei più grandi maestri di judo di tutti i tempi, raggiungendo il raro livello di decimo dan; ha introdotto negli anni Trenta il baseball, diventato uno degli sport più diffusi in Giappone, anche se non è bastato a impedire che gli americani vincitori lo accusassero di collaborazionismo con il regime nazional-militarista. Del resto, ha avuto un ruolo politico di primo piano nei molti anni in cui ha occupato il seggio alla Camera dei rappresentanti e poi in quella dei pari. Un’influenza esercitata anche sul Giappone democratico, lanciando una campagna per il nucleare civile convinto che solo l’energia atomica avrebbe potuto sostenere le ambizioni di un paese povero di tutto tranne che di ingegno e volontà. Un tycoon, un magnate della stessa natura di quelli americani o inglesi presi a modello nei paesi asiatici usciti dal secolare isolamento. Un uomo che ha capito la natura ambigua dei mezzi di comunicazione di massa e ha saputo usarne entrambe le facce, quella che sopperisce a un bisogno incomprimibile (comunicare, conoscere, informare ed essere informati) e quella che manipola la mutevole, capricciosa, vulnerabile opinione pubblica come la chiameranno i sociologi americani. Tra la massa e il potere, per citare Elias Canetti, ci sono i mezzi di comunicazione.
In Giappone anche il secondo grande quotidiano, l’Asahi Shimbun, ha seguito una parabola molto simile come vedremo. In Corea del sud è ancor più stretto l’intreccio non solo con la politica, ma con gli affari e i grandi conglomerati industriali, come nel caso di Hong Jin-ki, uomo politico ed editore che ha stretto legami familiari in perfetto stile monarchico con Lee Byung-chul, il padre padrone della Samsung.
Shoriki nasce a Daimon, nella prefettura di Toyama, un’ampia baia sul mar del Giappone; si laurea all’università di Tokyo ed esordisce come judoka, mentre entra negli alti ranghi della polizia metropolitana. E’ in tutto e per tutto un frutto della rivoluzione Meiji, quella che aprì l’impero del Sol levante e lanciò la competizione aperta con i gaijin, quelli di fuori, i barbari. “Tecnica occidentale, spirito giapponese” diventa la formula del successo. La sua carriera da tutore della legge s’interrompe bruscamente nel 1923, quando viene licenziato durante il repulisti nei ranghi della politica e delle forze di sicurezza incapaci di prevenire il tentato assassinio del principe reggente Hirohito per mano dello studente comunista Namba Daisuke (episodio chiamato comunemente l’incidente Toranomon, “il cancello della tigre”, dal nome dell’ingresso meridionale al Palazzo imperiale di Edo). Un anno dopo, con l’aiuto di un ricco investitore, Shoriki decide di acquistare lo Yomiuri Shimbun (che può essere tradotto come il giornale dello strillone) fondato nel 1874 da Takashi Koyasu. Il quotidiano estende il suo raggio d’azione, ampliando copertura giornalistica e servizi; nel 1941, prima dell’attacco a Pearl Harbor che porta il Giappone nella guerra con gli Stati Uniti e sulla soglia dell’autodistruzione, lo Yomiuri è già il numero uno a Tokyo. Negli anni in cui la destra nazionalista conquista con le buone e con le cattive l’opinione pubblica, Shoriki resta sostenitore dell’apertura all’occidente, tanto da farsi alfiere di una campagna per certi versi paradossale, ma che diventa popolare: introdurre il baseball e sfidare gli Stati Uniti sul loro stesso terreno sportivo-culturale.
Nel 1934 la squadra All star nipponica scende in campo contro la squadra All star degli Stati Uniti. Una competizione impari, ma impressiona tutti per la maestria dei lanciatori e dei battitori giapponesi. Gli americani cominciano a scoprire che i Jap, come li chiamano, sono ossi duri in tutti i campi. La squadra diventa professionista e viene ribattezzata Yomiuri Giants. Che non si tratti solo del passatempo di un nuovo ricco né di una variante del matrimonio tra sport, spettacolo e informazione, lo dimostra la rabbia degli xenofobi. Un gruppo di ultrà nazionalisti prova a uccidere Shoriki: ha fatto giocare gli stranieri nello Jingu, lo stadio del grande parco che celebra l’imperatore Meiji, per questo merita la morte a fil di spada. L’editore se la cava con una brutta ferita. Molti anni dopo, nel 1949, a guerra finita e perduta, diventerà il presidente della lega professionistica che debutta con un campionato di serie A e di serie B: il baseball ormai è lo sport delle nuove generazioni.
La politica del confronto pacifico s’infrange contro l’onda montante del nazionalismo militarista. Nel 1936 alcuni reparti della prima divisione Gemma si ribellano, assaltano i palazzi del governo, uccidono alcune personalità politiche, chiedono un profondo rinnovamento e una politica estera aggressiva. Il putsch fallisce, gli esecutori materiali vengono fucilati, ma le gerarchie militari che lo hanno coperto se non favorito, accrescono la loro influenza e il loro potere di ricatto. Comincia la corsa al riarmo e il successivo allineamento con l’Italia fascista e la Germania nazista che porterà all’asse Roma-Berlino-Tokyo e nel dicembre 1941 all’attacco contro la base americana di Pearl Harbour.
Dopo la sconfitta nel 1945, Shoriki viene processato come criminale di guerra di classe A e condannato alla prigione. Resterà in cella 21 mesi e verrà rilasciato nel 1947 perché le imputazioni contro di lui sono considerate di natura ideologica e politica, non sostenute da prove materiali di crimini concreti. E’ l’inizio del piano Marshall e di una svolta nella politica contro i vinti, a cominciare proprio dal Giappone che, con l’avanzare della Guerra fredda, verrà sempre più considerato dagli Usa un baluardo contro il comunismo vincente in Cina e in Corea del nord, nonché guardiano degli equilibri strategici nel Pacifico.
Il cappellino da baseball sembra fatto apposta per trasformare Shoriki nel paladino della nuova èra. Arriva poi la televisione: la Ntv si afferma come rete privata numero uno, apertamente filoamericana. E poco dopo la campagna per il nucleare, mentre gli orrori di Hiroshima e Nagasaki tormentano i sonni di ogni giapponese. Nel 1956 viene creata la commissione per l’energia atomica presieduta da Shoriki, che l’anno successivo andrà a guidare anche la nuova Agenzia per la scienza e la tecnologia: altro che baseball, il Giappone entra nella lega A dello sviluppo. Nel 2006 Arima Tetsuo, professore all’università Waseda, scartabella i documenti declassificati della Cia e rivela che dietro queste scelte c’era lo zampone dell’agenzia e il magnate dell’editoria agiva come longa manus e paladino; aveva anche due nomi in codice: Podam e Pojackpot-1. La tecnologia era americana, ça va sans dire. Ma Shoriki Matsutaro non può essere relegato a banale spia, è stato un agente nient’affatto segreto del Giappone contemporaneo e la sua eredità non s’è interrotta: al momento della morte Matsutaro ha lasciato tutte le sue cariche (baseball compreso) al figlio Toru, deceduto nel 2011 a 92 anni. L’Economist l’ha paragonato a Citizen Kane, il personaggio di “Quarto potere” di Orson Wells, ma forse hanno ragione Edward Uhlan e Dana L. Thomas nel definirlo l’uomo del miracolo nipponico, con tutte le sue contraddizioni. E proprio le contraddizioni ci introducono alle vicende dei suoi più acerrimi avversari, gli eredi di Murayama Ryohei, che con Ueno Riichi aveva fondato l’Asahi Shimbun (“il giornale del sole del mattino”) nel 1874. Il numero due nelle vendite è il numero uno tra l’élite colta, se lo Yomiuri è il giornale dei conservatori, l’Asahi è quello dei progressisti, anche se nel corso della sua storia è stato liberale e reazionario, aperto al mondo e chiuso agli stranieri.
Gli inizi sono tradizionali. L’Asahi debutta a Osaka come un foglio di appena quattro pagine, ma nel 1881 comincia ad allargarsi grazie all’arrivo di Ueno, agli aiuti del governo e ai finanziamenti del gruppo Mitsui, uno dei maggiori zaibatsu (i grandi conglomerati industriali integrati verticalmente che verranno presi a modello in Asia a cominciare dalla Corea e dalla Cina). Dunque anche l’Asahi è figlio diretto della rivoluzione Meiji. E’ sotto la direzione di Ueno che il giornale sbarca a Tokyo, acquista diffusione nazionale e si apre alle penne degli scrittori più noti: fa da battistrada Soseki Natsume, uno dei maggiori narratori giapponesi e mondiali che nel 1907, forte del successo del suo romanzo “Io sono un gatto”, lascia l’insegnamento universitario per entrare a far parte del Tokyo Asahi. Le rivolte del riso nel 1918 faranno da spartiacque politico: il primo ministro Masatake Terauchi si dimette e il giornale attacca il governo e sostiene le ragioni dei manifestanti colpiti dall’aumento dei prezzi. Da allora diventa bersaglio della destra nazionalista, finché a metà degli anni Trenta l’Asahi si schiera a favore del principe Konoe Fumimaro che, diventato primo ministro, nel 1937 si scaglia contro la Cina. E’ una svolta imperialista all’esterno e totalitaria all’interno, sostenuta dall’esercito.
Un contributo importante viene da un pensatoio che raccoglie alcuni dei più influenti opinionionisti: si chiama Associazione di ricerca Showa (nome della dinastia regnante guidata da Hirohito) nata nel 1930 per riformare la costituzione Meiji, sostiene la teoria pan-asiatica che vorrebbe il Giappone alla guida di un nuovo ordine nel sud-est asiatico al quale debbono sottostare tutti gli altri paesi, a cominciare dalla Cina. Sul piano interno il gruppo proclama un assetto socialista e guarda con interesse a tutte le esperienze anti o post capitaliste, dall’Unione sovietica al fascismo e al nazismo. Un contributo di pensiero rilevante viene dagli editorialisti dell’Asahi: l’economista di formazione marxista Ryu Shintaro e Ozaki Hotsumi, informatore di Richard Sorge, la famosa spia tedesca che lavorava a Tokyo per conto di Stalin. Il direttore del giornale, Ogata Taketora, era a sua volta membro della Genyosha, il più famoso gruppo ultranazionalista nato nel 1881.
Le posizioni di Ogata diventano scomode persino durante la guerra, tanto che nel 1943 Murayama Nagataka, cognato del fondatore e presidente dell’Asahi, è costretto a rimuoverlo. Un anno dopo l’influente giornalista diventa ministro senza portafoglio e capo dello spionaggio nipponico. La compromissione con il regime, la guerra e la sconfitta è totale e nel novembre 1945 i vertici si dimettono in massa. Ma anche per l’Asahi come per lo Yomiuri arriva il tempo della riconciliazione. Il giornale calca di nuovo le originarie sponde progressiste, conduce una campagna a favore dell’articolo 9 della Costituzione che bandisce la guerra (nel 2014 si oppone anche alle Forze di autodifesa giapponesi che aprono la strada a una revisione della originaria posizione pacifista), si schiera nella battaglia delle donne per la parità e la piena emancipazione, durante il disastro nucleare di Fukushima, nel 2011, scende in campo contro il governo. Il quotidiano pubblica la prima testimonianza tenuta segreta di Yoshida Masao, il manager dell’impianto il quale sostiene che i dipendenti se l’erano squagliata nonostante avessero ricevuto l’esplicita consegna di rimanere. I fogli di destra passano a sinistra e condannano il giornale per aver demonizzato i lavoratori. In realtà è una cortina fumogena, perché poco dopo lo Yomiuri pubblica la stessa testimonianza ricevuta da altra fonte. Ma l’attacco va avanti e s’aggiunge anche il primo ministro Abe Shinzo, tanto che il direttore chiede scusa e si dimette mentre i giornalisti autori dello scoop vengono puniti. I dipendenti della centrale sono eroi, lo spirito giapponese deve comunque prevalere sulla tecnologia occidentale. Yoshida morirà nel 2013 per un cancro all’esofago.
Anche il gruppo Asahi è ormai un grande conglomerato mediatico con tanto di tv, dimensione internet, sponsorizzazione sportiva, negli anni ha sviluppato un rapporto con il New York Times e con l’università di Harvard che rende il marchio davvero internazionale. Il quotidiano resta comunque il cuore pulsante con i suoi cinque milioni e rotti di copie. La gestione è manageriale, ma la proprietà è ancora trasmessa di generazione in generazione: la famiglia Murayama ha la quota principale, seguita dalla famiglia Ueno. Anche grazie a una bella fetta di azioni ricomprate dalla stessa holding, il controllo è assicurato, del resto non si vede chi possa penetrare nelle fortezze giapponesi dell’informazione, protette dalla barriera della proprietà non solo dalla lingua. Persino i fondi d’investimento, attivisti e determinati, si muovono con passo felpato, nel rispetto del cerimoniale.
Da tempo si discetta sulla crisi del modello nipponico, sulla stagnazione del paese, l’invecchiamento, il debito pubblico, la mancanza di ricambio politico, l’insidia cinese che ha il sapore della vendetta. A ogni passaggio epocale il Giappone ha fatto i conti con i propri spettri. Viene in mente un brano di Soseki nel romanzo “Anima”: “Allora al culmine dell’estate l’imperatore Meiji trapassò… Ero sopraffatto dalla sensazione che io e gli altri cresciuti in quell’era eravamo lasciati indietro per vivere come anacronismi. Lo dissi a mia moglie. Si mise a ridere. Poi mi disse quasi per burla: ‘Bene, allora junshi è la soluzione del tuo problema, seguirai il tuo signore nella tomba’”. Il Maestro, figura chiave della storia, la prende sul serio e si uccide “per lealtà verso lo spirito dell’epoca Meiji”. Eppure il sole sorge ancora a oriente.
I precedenti articoli della serie Editori: Rupert Murdoch, Axel Springer, la famiglia Sulzberger e i Lagardère