facce dispari
Daniela Ciancio, l'arte di fare monaci con gli abiti
Gli insegnamenti di Piero Tosi, il lavoro con i registi e sul corpo degli attori. "Vestirsi è rispondere a uno stato d'animo. Ma anche un gioco". Colloquio con la costumista e scenografa vincitrice di due David di Donatello
Nell’abito (che fa il monaco) il corpo dell’attore si dissolve e si risolve nel voluto personaggio. Quello è l’istante che un costumista sente più felice. Sente così Daniela Ciancio, napoletana sotto il segno dei Pesci di una generazione cui lo rammentava, oltre agli astrologi, Antonello Venditti. Due David di Donatello in una carriera germinata dai giochi infantili al quartiere Arenella, da cui Napoli distante guarda il mare e dove lei assorbì l’ispirazione del genius loci Salvator Rosa nato proprio lassù, pittore altresì amante di maschere, costumi e tenzoni teatrali nella sua successiva vita a Roma. Stessa strada percorsa da Daniela per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia dove conobbe Piero Tosi, mago dei vestimenti, maestro della Storia cucita sulle stoffe con cui ogni volta ricucì le storie immaginate dai registi.
Quali sono stati per lei i maggiori insegnamenti di Tosi?
La sua grandezza si esplicava nella conoscenza a menadito delle epoche storiche, ma anche nella capacità non documentaristica di rendere con i costumi i personaggi, ricorrendo se necessario a riuscitissimi azzardi. Tosi spiegava agli attori pure come muoversi sul set, perché in un abito del 1750 non puoi sederti o camminare come vestendo quello che porti ogni giorno. Il costume condiziona la postura, il movimento, la stessa psicologia.
Qual è il concetto di partenza?
Quello della silhouette, che muta a seconda dei tempi e della personalità individuale. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, per esempio, la moda impose una verticalizzazione del costume, più evidente nel vestiario femminile ma cui soggiacque anche l’abbigliamento maschile. Non c’è solo tuttavia l’elemento storico: la sua silhouette racconta come un personaggio affronta la vita, se è spavaldo oppure timido, è insomma la traccia da cui muovere il resto.
Come comincia il lavoro di un costumista?
C’è il primo incontro col regista, che illustra la storia dal suo punto di vista. Seguono la lettura della sceneggiatura, la raccolta delle immagini, la riflessione da cui nascono i bozzetti. Però finché non sai chi sono gli attori puoi procedere solo per suggestioni. È sul corpo dell’attore, è dal suo corpo che devi trarre il personaggio. La ricerca documentaria, quella dei materiali e la realizzazione sartoriale sono passaggi affascinanti, ma il momento della verità è la prova costume. Allora, quando l’attore indossa l’abito, capisci se è sparito ed è nato il personaggio.
Tutt’altro che la mera prova sartoriale.
Prima ancora che un personaggio pronunci una battuta, lo spettatore lo vede e se ne fa un’idea. Perciò il compito del costumista è strettamente legato a quelli dello scenografo, del direttore della fotografia: i materiali, i colori e le forme devono integrarsi in un progetto estetico coerente di cui il regista è come il direttore d’orchestra, avendo la visione generale del lavoro creativo dei suoi collaboratori.
È più difficile lavorare per il cinema o per il teatro?
La differenza consistente riguarda il punto di vista dell’osservatore. Il cinema e la televisione operano su uno sguardo ravvicinato, sui primi piani, mentre nel teatro la distanza detta le scelte, soprattutto quando si mette in scena un’opera lirica. Basti pensare ai grandi spazi di un San Carlo, sicché bisogna sovradimensionare le forme per farle recepire, laddove a cinema persino un dettaglio come la trama di una giacca può venire rilevato.
Preferisce lavorare su progetti in costume o contemporanei?
Non ho particolari preferenze, ma non si pensi che il contemporaneo sia più semplice e si risolva, per così dire, con un jeans e una maglietta. Non assicura inoltre quella distanza dall’evento che permette uno sguardo più oggettivo. Qualunque sia l’epoca, però, l’obiettivo resta sempre costruire la credibilità del personaggio, per la quale non basta la sola documentazione.
Qual è il suo sistema?
L’attenta osservazione delle tipologie umane che propone la realtà. Spesso per strada, quando m’imbatto in tipi interessanti, li fotografo di nascosto per non smarrirne l’immagine. Il costumista deve essere mosso dalla curiosità perché il costume, i colori, anche o talora soprattutto certi dettagli sono il racconto di un’anima.
Vestiamo stati d’animo?
Vestirsi, si sa, è la rappresentazione che vogliamo offrire di noi stessi, una sorta di maschera che tuttavia riflette o tradisce gli umori personali del momento e spiega se ci sentiamo a nostro agio oppure no. Quando crei i costumi per un personaggio devi provare a entrare nella sua testa facendoti le solite, essenziali quattro domande: come, quando, dove, perché.
Per lei stessa, vestirsi cos’è?
Rispondere a uno stato d’animo, adeguarsi alle circostanze, ma in fondo anche un gioco. Da ragazza se dovevo andare a una festa mi disegnavo in mente cosa mettere a seconda di come mi sentivo o avrei voluto sentirmi. Crescendo ci ho fatto meno caso.
Lei avrà fatto parte, voglio sperare, della sana schiera di bambini che amano il Carnevale.
Eccome. Tormentavo mia mamma per avere un costume sempre diverso. Mi travestii anche da cowboy per giocare coi miei cugini e pretesi in regalo la pistola, ma mi piaceva anche l’abito da principessa. Però una volta, alla recita di compleanno da mio nonno, feci il principe perché essendo tutte femmine quello ci mancava.
Immaginava che avrebbe fatto questa professione?
Mi divertivano l’osservazione e la manualità. Sono grata a uno zio pittore che m’insegnò a disegnare superando la paura del foglio bianco e che mi portava a passeggiare per gli angoli suggestivi di Napoli, scoprendo vicoli, portoni, stimolando la mia creatività. Da bambina mi piaceva fabbricare costumi per le recite scolastiche con la carta crespa, accessori con il fil di ferro e il DAS… Poi frequentai l’Accademia di Belle Arti e feci tanto laboratorio teatrale, che mi ha insegnato a utilizzare i materiali disponibili e a sviluppare la capacità risolutiva. Mi è tornata utile soprattutto nel cinema, dove il mestiere di costumista è condizionato dalla rapidità di realizzazione.
Sul set si occupa anche delle acconciature?
Appartengo alla vecchia scuola italiana, che purtroppo sta cedendo il passo all’impostazione di separare trucco e capelli dai costumi. È sbagliato perché il personaggio è uno: se devo raccontare un calciatore d’oggi lo vesto con una certa maglietta, certi pantaloni, ma funzionano solo se li combino a un determinato taglio di capelli, magari ai tatuaggi, a un orecchino. È un insieme di elementi che non può essere scisso.
A volte il personaggio deve essere volgare. C’è il cattivo, c’è il brutto.
È una delle differenze con uno stilista. Io anzi qualche volta mi diverto più a raccontare il brutto. O a decostruire. Prendiamo ‘Il divo’ di Sorrentino con il personaggio di Giulio Andreotti. La prima prova costume di Toni Servillo fu un fallimento perché la sartoria aveva operato sull’abito con criteri, per l’appunto, sartoriali. Dovetti costringerla a lavorare contronatura. Per nascondere le gambe di Servillo ricorsi a un taglio di pantaloni anni Quaranta, poi disposi interventi sulla giacca e sulla camicia alzando il collo per accentuare la somiglianza con Andreotti, oltre naturalmente all’inserimento della gobba. Non fu facile farlo comprendere al sarto.
Servillo diventa Jep Gambardella ne ‘La grande bellezza’, con tutt’altro intento.
Bisognava esaltare un personaggio colorato ma elegante come voleva Sorrentino, stando attenti perché l’uso delle tinte forti rischia di rendere un uomo buffo o comico. Mi risolsi di scegliere a riferimento l’eleganza maschile caprese: pantaloni bianchi e camicia bianca anziché celeste come base neutra, miscelando tutto con lo stile della famiglia Kennedy negli anni Sessanta. Con qualche ammiccamento a ‘L’innocente’ di Visconti, per esempio sulle calzature.
Per i costumi di ‘La grande bellezza’ lei vinse, nel 2014, il secondo David; il primo nel 2005 per ‘Il resto di niente’ di Antonietta De Lillo, tratto dal romanzo di Enzo Striano che racconta la vita, e la tragedia, di Eleonora Pimentel Fonseca, “patriota” finita sulla forca nel 1799. Quali scelte operò per il personaggio?
Decisi assieme alla regista di lavorare molto sui valori cromatici, ogni scena con le sue predominanze, ma volemmo che la protagonista indossasse sempre, da quando era bambina, lo stesso taglio di costume che aveva quando si consumò il dramma finale. Impiegai tessuti a base di seta ma con strati di tela sottostanti, a trama più o meno larga per incidere sulla profondità dell’abito e dei colori, che grazie alle luci donavano al costume una particolare vibrazione a seconda delle scene. Per il mondo che girava attorno a Eleonora mi attenni a una visione naturalistica, che rendesse credibile quel popolo di Napoli.
Un criterio seguito anche all’Opera per i costumi della ‘Cavalleria rusticana’, nell’allestimento di Roberto De Simone al San Carlo.
Il maestro desiderava un popolo che fosse il più possibile verosimile, direi cinematografico, effetto ottenuto grazie ai colori e all’invecchiamento dei vestiti per renderli coerenti all’ambientazione. Predominavano le tinte scure mentre impiegai, per i solisti, tonalità più chiare dal marrone al grigio. Santuzza, la donna centrale dell’opera di Mascagni, doveva spiccare anche per i colori, quindi la vestii di rossi e bianchi che davano risalto. Un processo simile alla creazione di un quadro, ma con la necessaria collaborazione tra regista, costumista e scenografo.
Tutti i costumi che realizzate, dopo i film e le opere, che fine fanno?
Spesso sono riutilizzati. Manca una regolamentazione dei diritti d’autore del costumista. Non è una questione soltanto italiana, ma forse da noi c’è meno tutela che altrove. Riconosco ancora, in vari film, i costumi di Tosi e anche quelli per il popolo settecentesco di ‘Il resto di niente’ sono tuttora noleggiati.
Mentre parla, sullo smartphone di Daniela Ciancio arriva dalla sartoria la foto di un giubbetto in pelle per una nuova serie tv. Lei pignola risponde che non è abbastanza invecchiato: bisogna logorare un po’ di più le cuciture, i bordi delle maniche.
Magari il pubblico di questi dettagli non s’accorgerà, eppure bisogna curarli. Le minuzie! Sapesse quanto sono importanti le minuzie.