il foglio del weekend
Il dissidente Solzhenitsyn
Dal segretario (“un abruzzese gentile”) all’incontro con Thatcher (“la mano più meritevole”), le memorie dall’esilio dello scrittore russo
Gli archivi dell’Accademia svedese hanno di recente rivelato la preoccupazione tra i giudici per le conseguenze che avrebbero atteso Aleksandr Solzhenitsyn se lo scrittore sovietico avesse ricevuto il premio Nobel per la letteratura. L’autore di “Una giornata nella vita di Ivan Denisovich”, che aveva rivelato gli orrori dei Gulag e alla fine è stato esiliato dall’Unione Sovietica, fu al centro di un feroce dibattito. “Ci sono circostanze esterne che sono riconosciute da tutti ed estremamente difficili da valutare: se un premio Nobel per Solzhenitsyn lo gioverà o lo danneggerà”, scriveva il membro dell’Accademia svedese, Artur Lundkvist, in documenti visti dal giornalista Kaj Schueler e riportati sul quotidiano Svenska Dagbladet. “La propaganda da più parti per la sua candidatura non tiene conto delle conseguenze per lui. Si tratta principalmente di manifestare contro l’Unione sovietica, sia in modo giustificato che ingiustificato. Tuttavia, il premio Nobel non dovrebbe diventare un campo di battaglia tra diversi interessi politici”. L’Accademia aveva già assegnato il Nobel a Boris Pasternak nel 1958, dopo la pubblicazione del “Dottor Zivago”. Pasternak accettò il premio, ma fu costretto a rifiutarlo dalle autorità sovietiche che avevano bandito il suo romanzo. Nel 1965, il Nobel è andato a Mikhail Sholokhov, uno scrittore accettabile per il governo sovietico. Henry Olsson, un altro membro dell’Accademia, si oppose a Lundkvist: “Proprio perché abbiamo consegnato il premio allo stalinista Sholokhov nel 1965, l’imparzialità richiede che dovremmo essere in grado di darlo a uno critico del sistema, come Solzhenitsyn”.
A leggere il secondo volume di “Between Two Millstones”, si capisce perché Solzhenitsyn era inviso, oltre che a Mosca, a parte del mainstream occidentale. “Quando Solzhenitsyn fu privato della cittadinanza sovietica ed esiliato prima nella Germania ovest nel 1974 e due anni dopo negli Stati Uniti, il suo arrivo fu giudicato una vittoria. Ma dalla sua casa a Cavendish, nel Vermont, mentre continuava il suo assalto all’Unione sovietica, Solzhenitsyn incriminò quella che considerava la decadenza e il pacifismo dell’occidente”. Così scrive la Los Angeles Review of Books nel raccontare il secondo volume delle memorie dell’autore di “Arcipelago Gulag” sugli anni dell’esilio americano, prima del ritorno in Russia nel 1994.
Dalla lettura si scopre che il segretario di Solzhenitsyn era italiano. Si chiamava Leonard DiLisio, “un americano di origine italiana e un uomo simpatico, umile e cavalleresco, che vive nelle vicinanze, il nostro primo insegnante di inglese per i bambini. E’ il decimo figlio, il più piccolo, di una famiglia immigrata abruzzese, è sempre stato appassionato di lingue, ha imparato quelle slave e conosce abbastanza bene il russo, ed è abilitato all’insegnamento del latino oltre che, chissà perché, della geometria. Un’anima romantica e gentile, premurosa al massimo. A partire dal 1979 iniziò a lavorare come mio segretario, venendo due volte a settimana. Per l’intera giornata ordinava l’infinito flusso di lettere. Leonardo fa parte della nostra vita domestica, senza essere alcun tipo di peso”.
Il discorso di inaugurazione all’Università di Harvard nel 1978, in cui il Nobel per la Letteratura dichiarò che l’occidente aveva perso il “coraggio civile”, mise fine alla luna di miele di Solzhenitsyn con il mondo libero. Ma all’inizio del libro, e in più parti, Solzhenitsyn esulta per la libertà che trova come scrittore negli Stati Uniti: “Durante tutti i nostri anni nel Vermont, undici ormai dal 1976, non ho mai smesso di sentirli come un dono del cielo, un porto sicuro, nonostante il susseguirsi di vessazioni e calunnie esterne. E non ho mai cessato di essere sorpreso e grato. Il Signore mi aveva davvero messo nella migliore situazione che uno scrittore potesse sognare, data la nostra storia funesta e l’oppressione del nostro paese negli ultimi sessant’anni. Adesso non ero più costretto a scrivere in codice, a nascondere e distribuire gli scritti tra i miei amici”.
Riflettendo sui suoi anni in esilio, Solzhenitsyn scrive: “Mi rammarico che, per dieci anni dopo la ‘Lettera ai leader sovietici’, non ho abbandonato il mio intenso commento sociale e politico o i miei tentativi di ‘salvare’ l’occidente? Questo era ciò che il mio cuore irrefrenabile gridava, e percorrere quel sentiero era inevitabile. Il mio attivismo sociale era certamente nella tradizione della letteratura russa: se vedevo il pericolo incombere, il mio dovere era cercare di aprire gli occhi a tutti. Ma in occidente non era la confraternita politico-giornalista che stavo cercando di convincere, ma la gente comune. E a Est, in quale altro modo avrei potuto proteggere i miei alleati, i miei collaboratori, se non facendo la guerra ai sovietici attraverso i miei scritti sociali e politici? Ma in occidente, non importa quello che ho visto, dovevo tacere? Non me ne pento: ‘La mia anima l’ha chiesto’, non avevo scelta”.
Intanto, dal Vermont, Solzhenitsyn osserva il disgelo: “In Unione sovietica, nel frattempo, il mio nome era ancora vietato. Il respiro della Glasnost è stato sentito da alcuni e alcuni nomi e libri sono stati finalmente strappati all’oscurità dell’oblio, ma non il mio. Per le autorità sovietiche rimanevo un nemico giurato e pericoloso; ero ancora perseguitato dall’organo del Comitato centrale, la Sovetskaya Kultura. La macchina del Comitato centrale lanciava sempre lo stesso messaggio: ‘Solzhenitsyn è la figura più pericolosa di tutte’”. Non credette mai alla figura di Mikhail Gorbachev: “Il torbido progresso della Perestrojka, con le sue misure emblematiche (e spesso insensate), è diventato trasparente per noi, la sua essenza espressa nei calcoli egoistici dei circoli del Partito”. Altro che disgelo, fu solo il tentativo di salvare il sistema sovietico. “Gorbachev era sincero, ma all’interno dello steccato del Partito e sotto la bandiera leninista”.
Se la stampa sovietica la odiava, Solzhenitsyn non risparmiava mai bacchettate al New York Times: “Si è subito unito al coro: ‘Per molti intellettuali sovietici, compresi alcuni che un tempo lo consideravano Solzhenitsyn) come una figura eroica, anche per loro è diventato un personaggio sgradevole, il rampollo spirituale di un ceppo nazionalista russo reazionario che favorisce un isolamento mistico in un’enclave fortificata dai mali secolari dell’occidente’. Ancora e ancora! Quando si tratta di me, quanto amichevolmente, quanto armoniosamente queste due macine macinano, che si tratti del Kgb (e persino degli pseudo-intellettuali) o del dipartimento di stato e del New York Times”.
Solzhenitsyn attacca “gli pseudo-intellettuali, termine assolutamente appropriato per l’attuale establishment intellettuale liberal americano”. Critica il riavvicinamento americano con la Cina, “miope”, chiedendo invece “una nuova opposizione al comunismo ovunque”. Visita Taiwan, la vera “Free China” (“molti nei circoli liberal non erano contenti”, scriverà). Racconta degli attacchi subiti dagli occidentali. “Quell’autunno del 1979, invocare l’ayatollah Khomeini era di moda anche in occidente (la rivoluzione islamica si stava svolgendo in Iran) e ora si sentivano voci che dicevano che il cristianesimo ortodosso in Russia era la stessa di Khomeini in Iran. Che momento opportuno! Dobbiamo schiaffeggiare l’Ortodossia, in modo che non si rimetta mai in piedi? La tecnica delle menti superficiali consiste nell’agganciare un argomento dalla superficie e il gioco è fatto: ‘Khomeinismo’”.
Solzhenitsyn osserva che il pubblico occidentale “sembra aver perso totalmente l’abitudine di riflettere sui libri – anche se forse non sugli articoli giornalistici – e gli stessi scrittori occidentali, per la maggior parte, non rivendicano il potere di persuasione. La letteratura attuale in occidente è degradata al livello di intrattenimento e paradosso”. Reagisce intanto agli eventi in Europa. “Quando Jaruzelski ha introdotto la legge marziale in Polonia, mi sono seduto e ho scritto, per la rivista francese L’Express, un articolo intitolato ‘La lezione cruciale’. Diceva che il comunismo è internazionale e ogni nazione ha i suoi lacchè dei carnefici e non sono necessariamente occupanti dall’esterno”. E ancora: “L’apocalisse di Chernobyl, il silenzio criminale dei leader e la vista straziante (ripresa anche dalla televisione americana) di ballerini ucraini nell’aria radioattiva della parata del Primo Maggio sulla Kreshchatik di Kiev”.
Compie un viaggio in Vandea. “Penso all’irritazione dei circoli di sinistra in Francia, che così ciecamente ammiravano, fino ad oggi, la loro crudele rivoluzione”. Poi va a Roma, in udienza con Papa Giovanni Paolo II. “Aveva fissato il nostro incontro in un importante giorno per lui: il quindicesimo anniversario della sua ascesa al trono. Mi sono incamminato verso il Papa pieno di rispetto e ben disposto nei suoi confronti. Negli anni precedenti c’erano stati, tramite comunicazioni verbali tramite terzi, segni che sembravano indicare una solida alleanza tra noi contro il comunismo e ne avevo parlato in alcune mie apparizioni pubbliche. Ha visto in me un alleato importante”. Se la prende con chi evoca una amnistia politica mondiale. “Anche per le Brigate Rosse?”. E attacca Amnesty International, “con la sua inclinazione a sinistra”. Lo scrittore continua a criticare la “stampa pazza di sinistra”, paragonandola ai “giornali dell’era sovietica”. E ancora: “La nostra intellighenzia umanitaria ha le stesse radici, le stesse radici dei bolscevichi”.
Poi l’incontro con Margaret Thatcher. “Stavamo andando a Downing Street. La stampa aveva chiesto all’ufficio della Thatcher se avrei accettato di scattare fotografie insieme. Non riuscivo a capire perché no. Lungi dal fare cerimonie, ho baciato la mano di Thatcher. Raramente la mano di una donna è stata più meritevole e ho provato sia profonda ammirazione che simpatia per questa statista. Per un’ora ci siamo seduti attorno a un tavolino basso, un’ora di conversazione sostanziale, mentre Irina traduceva con precisione e senza sforzo. Non c’erano momenti di vuota cortesia e nessuna distrazione. Mi ha chiesto cosa potevo dirle di Andropov. Dissi che era solo una ripetizione di Stalin”.
Nel settembre del 1993, prima di concludere i suoi vent’anni di esilio, Solzhenitsyn va a Vaduz, in Liechtenstein. E di nuovo, come quindici anni prima, lo scrittore russo rovinò la festa. “Recentemente siamo stati intrattenuti da una favola ingenua del felice arrivo alla ‘fine della storia’, del trionfo straripante di una beatitudine tutta democratica; si supponeva che l’ultimo accordo globale fosse stato raggiunto. Ma tutti vediamo e sentiamo che sta arrivando qualcosa di molto diverso, qualcosa di nuovo e forse piuttosto severo. No, la tranquillità non promette di scendere sul nostro pianeta, e non ci sarà concessa così facilmente”.
Un fraintendimento fra Solzhenitsyn e l’occidente nato l’8 giugno 1978 a Harvard, quando apparve quell’uomo barbuto, che non parlava inglese, che aveva un aspetto ieratico, mistico. E lo choc per le sue parole fu enorme. Stabilì la terribile somiglianza fra le società comuniste e il soffocamento della vita spirituale in occidente. Richard Pipes, lo storico di Harvard pilastro della Guerra fredda reaganiana, scriverà: “Avevamo sentito un attacco devastante all’occidente contemporaneo, per la sua perdita di coraggio, la sua autoindulgenza, il suo autoinganno. Era come se l’oratore, un rifugiato dell’inferno, ci avesse condannato, noi abitanti del purgatorio, per non vivere in paradiso”. Non gli perdonarono mai di averci avvertito che si può scivolare nella servitù volontaria.