il foglio del lunedì
La pedagogia inquisitoria dei borghesi occidentali convertiti al maoismo
Le nuove forme di intolleranza su genere, identità, classe e le folli ingiunzioni a cui l’antirazzismo chiede oggi di obbedire: spifferi dell’antico Vento dell’Est soffiano dai campus americani. E i Social Justice Warrior di oggi ricordano, con altri mezzi, il buio dei nostri anni 70. Un’indagine
I maoisti avevano il senso dell’umorismo? A giudicare dai loro fumetti, diciamo che non era la specialità della casa. Perfino Jean Chesneaux, il sinologo che curò nel 1971 con Umberto Eco l’antologia “I fumetti di Mao”, riconosceva a malincuore che, per quanto quelle storie introducessero il lettore occidentale a una società “fraternamente solidale” (ehm), in esse “non c’è posto per l’allegria, l’humour è assente e così l’ironia”. Una noia cimiteriale. Perché? Qui il maoista Chesneaux ciurlava nel manico. Era inimmaginabile che il popolo cinese avesse perso di colpo il tratto migliore delle culture contadine, “il sorriso, la burla scherzosa e contenuta, l’allegria collettiva”. Oltretutto – e qui si richiamava alle autorità di Lu Xun e di Brecht – si può militare ridendo e ridere militando. E allora? E allora boh. La risposta, nel suo saggio, semplicemente non c’era. Bisognava cercarla nelle pagine di un altro sinologo, il belga Simon Leys, così immune dall’intossicazione maoista che Chesneaux fece ogni sforzo per sbarrargli le porte dell’università francese. Prima di tutto – Leys lo ricordava in “Ombre cinesi” – il Grande Timoniere aveva decretato fin dal 1961 che nella Cina ormai liberata la satira di Lu Xun, scrittore morto nel decennio prima della rivoluzione, non aveva più ragion d’essere. E poi era stata proprio la seriosità dei maoisti – chiamiamola così – a impartirgli la prima lezione politica della sua vita. Fu nell’agosto del 1967, a Hong Kong. Davanti alla porta, mentre usciva di casa – lo racconta in “Immagini infrante” – Leys vide Lin Bin e il cugino bruciare vivi in un’automobile, devastata da una bomba incendiaria. Lin Bin era un artista di varietà che conduceva ogni settimana un programma satirico in dialetto cantonese, e che allo scoppio della Rivoluzione culturale aveva avuto l’imprudenza (o la deformazione professionale) di esercitare la sua verve a spese dell’isteria maoista. Così i comunisti ritennero utile dare un esempio a tutti. Il falò dell’umorismo nella persona di un umorista fu persuasivo. Nelle stesse pagine Leys riferisce il caso di uno studente occidentale in visita in Cina con una comitiva di allegri maoisti – uno di quei viaggi organizzati per bovaristi del socialismo a cui Paul Hollander avrebbe dedicato pochi anni dopo il tristemente esilarante “Pellegrini politici”. Per sottrarsi alla noia di un incontro che andava per le lunghe, il ragazzo aveva abbozzato su un foglietto i personaggi dei Peanuts, e aveva messo in bocca a Snoopy la frase: “Viva il presidente Mao!”. Poi lo aveva accartocciato distrattamente e buttato nel cestino. La sera stessa tre funzionari si presentarono con aria accigliata alla porta del suo capo delegazione per denunciare l’increscioso episodio, mostrandogli il foglietto recuperato dalla carta straccia e meticolosamente dispiegato. Lo scarabocchiatore fu sottoposto a un estenuante interrogatorio. Un disegnino innocente? Non sta scritto da nessuna parte che una vignetta debba essere al di sopra dello scrutinio dell’ortodossia politica. Come può essere innocente far pronunciare il nome di Mao a un cane? Il letteralismo sclerotico dei funzionari, la loro cecità ai contesti, ai registri, alle intenzioni, alle sfumature, tutto questo blocco cementizio di ottusità ideologica si rivelò inscalfibile. “Neppure lui riuscì a persuadere le autorità della sua buona fede”, scrive Leys; “fortunatamente, dal momento che fino ad allora aveva dato prova di un sincero fervore maoista, si finì per accordargli il beneficio delle circostanze attenuanti e, alla fine, dopo aver firmato una confessione in cui riconosceva l’enormità del suo crimine, dichiarandosi sinceramente pentito e risoluto a non commettere altri peccati, fu rilasciato”.
Oggi non fischia più il Vento dell’Est, come lo si chiamava all’epoca, ma qualche spiffero di maoismo sotto mentite spoglie è tornato a farsi sentire dalle nostre parti. Imprevedibilmente, però, sta spirando dall’Ovest, dai campus americani (o dall’America che pare un campus a cielo aperto, come dice Andrew Sullivan); e noi sulla facciata occidentale, per ragioni intuibili, non avevamo chiuso a dovere le imposte. Va riconosciuto a Camille Paglia un capriccioso spirito profetico: “Ci sono ovunque segnali di pericolo che stiamo scivolando in una nuova èra delle Guardie Rosse”, scrisse nel 1993 sul Washington Post. Certo, i facinorosi di questo maoismo a bassa intensità non si sognerebbero mai di bruciare vivo un comico, si accontentano di bruciarlo in effigie sui social network, in uno spettacolare rogo dell’immagine, della reputazione e della carriera.
In compenso, si sono dimostrati capacissimi di indispettirsi per uno scarabocchio, di sottoporre il suo autore a inquisizioni spossanti, di intimargli un atto di contrizione pubblica e, quando infine arrivavano le scuse, di non ritenerle sufficienti. “I comunisti cinesi” – è sempre Leys – “conoscono la confessione, ma non l’assoluzione. Anche quando il condannato ha espiato la sua pena, il suo dossier continua indefinitamente a essere utilizzato contro di lui”. Quanto alla stolida tetraggine dei funzionari, è arduo stabilire se sia più stupido prendersela con uno Snoopy che inneggia a Mao o fare la guerra a Pepé Le Pew, la puzzola dei cartoni animati dei Looney Tunes, accusata di incoraggiare la “cultura dello stupro” per via delle sue insistenti molestie a una gattina. Da noi il vento non soffia così forte, e lo si avverte ancora di meno perché è sopraffatto dalle raffiche contrarie di una destra diversamente intollerante; ma abbiamo comunque pensato che fosse cosa buona e progressista dare l’assillo a Gipi o ad Andrea Bozzo – il primo per un fumetto “problematico” sulle denunce di stupro, il secondo per la deliziosa vignetta del talebano che usa lo schwa e gli asterischi. In questi sprazzi di sussiegosa imbecillità i nuovi zelatori ricordano, più che i maoisti cinesi, quelli italiani o francesi degli anni Settanta, che più collezionavano sconfitte politiche più si dedicavano alla vigilanza culturale e a una pedantissima guerriglia semiologica. Chi sfogliasse le vecchie annate di “Servire il popolo” – lo ha fatto anni fa Stefano Ferrante in “La Cina era vicina” – si troverebbe catapultato in un giorno qualunque sui social network del 2021: occhiute disamine dei film politicamente sospetti, da “Ultimo tango a Parigi” ad “Arancia meccanica”; demistificazioni dei feticci televisivi (Celentano, la Carrà, Caterina Caselli con “la parrucca che da sola costa almeno 100.000 lire. Un mese di lavoro” – e chissà quanti mesi per un orologio di lusso); e poi, naturalmente, i fumetti. “Diabolik”, dietro le apparenze leggere, non descrive forse “il mondo della borghesia senza la lotta di classe”? Topolino, Paperino e soprattutto Paperone rappresentano invece “un intervento sistematico in tutti i problemi e le contraddizioni del popolo per creare divisione e antagonismo” (era appena arrivato dal Cile, per Feltrinelli, il best-seller rivoluzionario “Come leggere Paperino” di Ariel Dorfman e Armand Mattelart, analisi marxista-terzomondista del mondo Disney). In Francia, negli stessi anni, operava il Groupe Foudre d’intervention culturelle, commando di guastafeste politici che inscenava azioni di “baccano programmatico”. I maoisti parigini – lo racconta Christophe Bourseiller in “Les Maoïstes. La folle histoire des gardes rouges français” – interrompevano le pièce teatrali o le proiezioni dei film che consideravano ideologicamente inaccettabili, come “Il portiere di notte” di Liliana Cavani o “Berretti verdi” di John Wayne. Agivano direttamente nelle sale, perché a quei tempi non si poteva ancora colpire il nemico “a monte”, come direbbe il fantozziano Folagra, twittando e strillando per contrastare la produzione di un film o impedirne la distribuzione. Ma l’ispettorato permanente sulla cultura pop fornisce solo l’analogia più superficiale, ancorché vistosa, tra i maoisti di allora e i Social Justice Warrior di oggi. Ce ne sono altre che dovremmo considerare più allarmanti.
All’inizio degli anni Novanta Jing Lin, una politologa che aveva lasciato la Cina nel 1985 per stabilirsi negli Stati Uniti e poi in Canada, pubblicò per Praeger il volume “The Red Guards’ path to violence”. Non era un libro indimenticabile, ma aveva il pregio di concentrarsi sui fattori politici, psicologici e soprattutto educativi (interi capitoli erano dedicati ai curriculum scolastici e universitari) che avevano reso possibile l’eruzione di fanatismo delle Guardie Rosse. Jing Lin chiudeva le sue pagine traendo da quella storia alcune misure di profilassi per il futuro della Cina: “Per evitare un disastro come la Rivoluzione culturale”, ammoniva, “il pensiero critico democratico dev’essere promosso lungo tutto il curriculum. Questo obiettivo implica che invece di insegnare agli studenti il pregiudizio e l’odio, il curriculum deve focalizzarsi sul trattare ogni essere umano con rispetto e considerare le persone non entro categorie, ma come individui, ciascuno con il suo potenziale e il suo valore”. Ecco, il venticello maoista che soffia dall’Ovest si deve anche alla circostanza che molte università americane stanno rovinosamente abdicando a quei precetti. Specie all’ultimo. I vecchi maoisti – poveretti – non potevano ancora contemplare il mandala intersezionale della Ruota del Privilegio, un diagramma circolare che nella metà alta mostra tutte le categorie del dominio – bianco, maschio, eterosessuale, cisgenere, abile ecc. – e nella metà bassa tutte le identità svantaggiate, oppresse dagli inquilini del semicerchio di sopra. Potevano in compenso incasellare l’umanità nelle Sette Categorie Nere – proprietari terrieri, contadini ricchi, reazionari, cattivi elementi, individui di destra, traditori e spie – e nelle Cinque Categorie Rosse – lavoratori, contadini poveri o medio-poveri, soldati, quadri e martiri rivoluzionari. Schemi diversissimi, beninteso, e tuttavia accomunati da un dettaglio non proprio marginale: in molte di quelle caselle ci si nasce, e una vita di ravvedimento operoso non ti basta a espiare la colpa di esserci nato. In Cina le classi furono trasformate in caste. Scrive Jing Lin che i ragazzi di cattiva famiglia (qui diremmo di buona) “erano intrappolati in una situazione da Comma 22: non potevano scegliere di non essere nati nelle famiglie sbagliate, e non potevano scegliere di uscirne. Se si sforzavano di dimostrare la propria lealtà al sistema, erano sempre sospettati di ingannare; se stavano in silenzio, erano accusati di covare una segreta insoddisfazione verso il sistema”. Quando, nel 1966, Yu Luoke pubblicò “Sulle origini di classe” per condannare questo trattamento iniquo, il suo pamphlet fu considerato reazionario e lui fu condannato a morte. L’esecuzione nello Stadio dei Lavoratori di Pechino, davanti a decine di migliaia di spettatori che sventolavano il Libretto rosso, fu scenografica.
Chi si avventura oggi in alcune zone impervie del dibattito – su genere, razza, identità, classe – rischia di restare impigliato ovunque in analoghi “doppi vincoli”, di cadere in queste trappole da Comma 22. John McWhorter, linguista della Columbia University molto critico con la nuova ondata di antirazzismo (a ottobre uscirà il suo “Woke racism: How a new religion has betrayed black”), ha compilato un piccolo decalogo semiserio delle ingiunzioni paradossali a cui il nuovo antirazzismo chiede di obbedire, ed è evidente che prima di essere contraddizioni logiche si tratta di tagliole psicologiche. Eccone alcune: “Il silenzio sul razzismo è violenza. Ma devi innalzare la voce degli oppressi al di sopra della tua”. “Devi sforzarti eternamente di capire le esperienze dei neri. Ma non potrai mai capire cosa significa essere nero, e se pensi di farlo sei razzista”. “Se sei bianco e frequenti solo persone bianche, sei un razzista. Ma se sei bianco ed esci con una persona di colore, stai, anche solo inconsciamente, esotizzando un ‘altro’”.
“Le persone di colore non possono essere ritenute responsabili di tutto ciò che ogni persona di colore fa. Ma tutti i bianchi devono riconoscere la loro personale complicità nella malvagità storica della whiteness”. Eccetera. Quando espiare è allo stesso tempo irrinunciabile e impossibile, non resta che rifugiarsi in quella che Pascal Bruckner chiama “identità di contrizione”, la cui formulazione paradigmatica è in un tweet ormai famoso dell’attrice Rosanna Arquette: “Sono dispiaciuta di essere nata bianca e privilegiata. Mi disgusta. Mi vergogno molto”. E’ la caricatura – tutta vestita di virtue signalling, un abitino a bassissimo costo – della vecchia via penitenziale dei borghesi occidentali convertiti al maoismo, che rinnegavano la propria origine e si spogliavano dei loro averi, non ultimo perché convinti che la partecipazione alla condizione proletaria desse accesso a una conoscenza del mondo che ai privilegiati era preclusa (un pervertimento dell’evangelico “hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli”). Jing Lin cita un libro dei primi anni Cinquanta in cui alcuni insegnanti cinesi confessavano che le radici borghesi avevano impedito loro di capire che tutto doveva essere analizzato da una prospettiva di classe, e che il loro compito quotidiano consisteva nel “rivoluzionare sé stessi”; altri annunciavano di voler trattare diversamente gli studenti a seconda delle loro origini, di modo che i privilegiati “rompessero con l’influenza dell’ideologia dello sfruttamento e si schierassero con la classe operaia”.
Sembrano storie lontanissime, ma l’epistemologia della lived experience che si è fatta strada nelle università americane arriva per vie diverse a conclusioni tutto sommato simili: conoscere significa spogliarsi dei privilegi, perché solo chi è in fondo alla scala angelica (o diabolica) delle dominazioni può aprire gli occhi sulla vera natura dei rapporti sociali. In “Cynical theories”, Helen Pluckrose e James Lindsay citano questo passo di Barbara Applebaum, filosofa dell’educazione, che teorizza la Social Justice applicata alla pedagogia: “Spesso gli studenti bianchi ritengono che la loro responsabilità cominci e finisca con la presa di coscienza del privilegio. Ammettendo o confessando il privilegio, tuttavia, finiscono per non fare i conti con la loro complicità nel razzismo sistemico”. Se poi gli studenti hanno da obiettare qualcosa alle teorie sul systemic racism, la loro resistenza va salutarmente spezzata, perché è uno stratagemma per tenersi abbarbicati ai privilegi. La filosofa femminista Alison Bailey chiama questa resistenza “opposizione epistemica preservatrice del privilegio”, un’attitudine che spacciandosi per “critica” infligge ulteriore violenza epistemica ai gruppi oppressi. La pedagogia ispirata alla Social Justice, al contrario, deve considerare le opinioni degli studenti sui temi sociali “non come proposizioni da valutare per il loro valore di verità, ma come espressioni di potere la cui funzione è re-inscrivere e perpetuare le diseguaglianze sociali”. Per osservare dottrine di questo genere in azione, un documento illuminante è tuttora “Professing feminism” di Daphne Patai e Noretta Koertge, saggio-inchiesta dei primi anni Novanta che registrava le avvisaglie delle nuove tendenze dando voce, spesso in forma anonima, a insegnanti e studenti. Le autrici, due femministe eterodosse, denunciavano una pratica pedagogica terapeutico-confessionale in nome della quale, per esempio, si chiedeva a uno studente di scrivere una tesina per analizzare il proprio razzismo, raccontare il primo incontro con una persona di colore, descrivere i rapporti tra i sessi all’interno della sua famiglia, o gli si dava il compito di registrare su un diario le proprie reazioni personali alla lettura dei testi di studio. Un metodo in odore di psicoterapia, in apparenza, senza però l’indulgenza del patto terapeutico. Uno studente, annotando le sue reazioni a un saggio della femminista intersezionale Bell Hooks, aveva commentato con perspicacia: “Appartengo ell’etnia dominante ma non sono razzista. L’articolo nega che io possa superare il pregiudizio con cui sono stato programmato”. Lo studente credeva che “tutti – sì, anche i perfidi anglosassoni – possano sollevarsi al di sopra della propria palude culturale”… Ma qui interveniva la correzione ortopedica dell’istruttore: “Come puoi non essere razzista, quando trai benefici e privilegi dal razzismo? Il tuo atteggiamento difensivo ti ha impedito di capire l’articolo (…); sono deluso e amareggiato dalle tue razionalizzazioni per auto-proteggerti”. Dopo una tale conoscenza, quale perdono? Patai e Koertge coglievano in questa pedagogia, accanto allo stile della psicoterapia e del religious awakening, “echi delle auto-incriminazioni obbligatorie richieste in Cina durante la Rivoluzione culturale”. Curiosa simmetria: lo psichiatra Robert Jay Lifton, nel suo libro sulla Rivoluzione culturale (“Revolutionary immortality”, 1976), aveva osservato che il dettagliato auto-esame ideologico dei maoisti era un metodo di purificazione individuale in grado di offrire benefici simili a quelli della psicoterapia e dell’illuminazione religiosa. Tout se tient.
Le autrici di “Professing feminism” esaminavano anche lo sforzo sistematico di “ripulire il curriculum dai fantasmi fallici” cercando impronte del patriarcato ovunque, dalla Nona di Beethoven alla logica di Frege, con una monotonia pari solo alla pedanteria. Lo stesso accade con gli studi sul razzismo. Non si può non pensare a quel compendio maoista di “Storia della filosofia europea” che Leys si divertiva a citare in “Ombre cinesi”, in cui Nietzsche diventava il “difensore di imprese di oppressione crudele e di aggressione portate avanti dalla classe reazionaria borghese”, Bergson era “l’espressione di un cieco spasimo della classe reazionaria borghese”, l’esistenzialismo, “una scuola filosofica reazionaria borghese attualmente molto diffusa nel mondo capitalistico”, e così via. Stesso trattamento era riservato al canone cinese pre-maoista, con l’effetto paradossale che la nuova élite dirigente era molto più ignorante della classe meno colta del vecchio regime, perché incontrava i grandi del passato (se pure li incontrava) solo sotto l’aspetto di un campo di macerie da spazzar via. C’è una pagina preveggente di “Anna Karenina” in cui Goleniscev, compagno di Vronskij al corpo dei paggi che ritrova l’amico mentre questi è in viaggio in Italia con Anna, descrive la cultura di un pittore russo alla moda: “In antico un uomo che avesse voluto istruirsi, mettiamo in francese, avrebbe cominciato a studiare tutti i classici: e i tragici, e gli storici, e i filosofi, e capite tutto il lavoro intellettuale che avrebbe avuto dinanzi a sé. Ma da noi adesso egli s’è imbattuto direttamente nella letteratura negativa, ha assimilato molto presto tutto l’estratto della scienza negativa, ed eccolo pronto. E non solo, venti anni fa avrebbe trovato in questa letteratura i segni della lotta con le autorità, con le opinioni secolari, da questa lotta avrebbe capito che c’era stato qualcosa d’altro; ma adesso s’imbatte direttamente in una letteratura cosiffatta, in cui non si degnano neppure d’una discussione le opinioni antiche”. E’ il rischio che corrono le scienze umane e sociali da quando nei loro terreni si sono azionate le ruspe di una grande impresa di decostruzioni, che marciano emettendo il fastidioso clangore di mille gerghi cacofonici.
Lo psicologo sociale Jonathan Haidt è rimasto sconcertato dall’orgia di fanatismo nei campus. In “The coddling of the American mind”, scritto nel 2018 con Greg Lukianoff, usa lui pure l’analogia maoista, ricordando le “sessioni di lotta” in cui le persone colpevoli di impurità ideologica erano circondate dai loro accusatori e umiliate finché non offrivano scuse abiette, impegnandosi a diventare migliori. Tra le condizioni che resero possibile le gogne delle Guardie Rosse, ricorda Haidt, c’era la paura di difendere pubblicamente i linciati, una pavidità che gli è sembrato di rivedere in questi anni ogni volta che un professore bersaglio delle intimidazioni non è stato difeso dai colleghi (se non nella penombra di una email privata) o è stato lasciato in pasto alla folla da direttori di dipartimento pilateschi. L’ultima puntata del tetro feuilleton sono le dimissioni del filosofo Peter Boghossian dalla Portland State University. Per tutto questo Anne Applebaum ha evocato, oltre alla Lettera scarlatta e a Salem (il suo saggio su The Atlantic si chiama “The New Puritans”), il clima plumbeo della Russia di Stalin e dei regimi dell’Europa centrale sovietizzata: tutti contesti in cui dietro il paravento della moralizzazione ideologica si combattevano guerricciole dispettose, si costruivano carriere, si consumavano vendette. Ma avrebbe potuto trovare analogie altrettanto persuasive nelle cronache della Rivoluzione culturale. Racconta Jing Lin: “Parole dette tra amici, colleghi o vicini nelle conversazioni quotidiane venivano spesso annotate e riportate al capo dell’unità”. La scuola e l’università erano terreni pericolosissimi, vista la coincidenza tra intellettuali e borghesi: “Per esempio, un insegnante mi ha detto che non sapevi mai quando qualcuno poteva saltar su, battere il pugno sul tavolo, puntarti il dito contro e chiedere che ‘confessassi’ i tuoi crimini. Non riuscendo a ricordare quando potessi aver detto o fatto qualcosa, eri messo in una posizione difensiva. Così nella vita quotidiana la gente diventò molto cauta. Molte persone non dicevano mai ciò che pensavano, e tutti aspiravano a stare il più possibile dalla parte della maggioranza”. Anche Simon Leys aveva raccolto una testimonianza simile: “H…, che per qualche anno ha lavorato come supplente presso diverse scuole di Canton, mi descrive quest’esperienza come un vero e proprio calvario. Più il loro pedigree è ineccepibile, meno gli studenti si sentono tenuti a prestare ascolto a ciò che si tenta di insegnar loro. Sicuri della propria impunità, scherniscono i maestri che, in effetti, non osano rimproverarli nel timore di subire rappresaglie; chiunque osasse far valere la propria autorità sarebbe infatti immediatamente accusato di voler ‘soffocare la spontaneità delle masse rivoluzionarie’. Non appena rimangono indietro nel lavoro scolastico denunciano l’insegnante accusandolo di ‘mandarinismo esoterico’; lo sventurato, del resto, si fa riprendere dal direttore della scuola quando i giudizi d’esame di questa bella gioventù sono troppo mediocri: ‘Come le viene in mente di perseguitare questi figli di proletari?’”.
A meno di essere obnubilato dalla simpatia o dall’antipatia ideologica, il lettore non avrà faticato a capire che la Cina della Rivoluzione culturale, uno dei picchi sanguinari del Novecento, è usata qui come un’iperbole, una gigantografia che permette di vedere con più chiarezza la logica profonda delle nuove forme di intolleranza. Nelle odierne “sessioni di lotta” non si è costretti, come il romanziere Ba Jin, a stare per ore in ginocchio sui cocci di vetro davanti a diecimila persone che ti insultano e ti sputano addosso: i fortunati se la cavano con qualche giro d’infamia sullo spiedo virtuale dei social network, i meno fortunati perdono lavoro, amici, reputazione. Gli ispettori non irrompono in casa tua in cerca di prove – pratica che in Cina si chiama chaojia – ma si limitano a frugare nei tuoi account, non sia mai avessi scritto dieci anni fa qualcosa che viola gli standard morali promulgati l’altro ieri. I nuovi maoisti non hanno un Libretto rosso, per quanto sembrino applicarne pedissequamente una delle citazioni: “Ogni idea erronea, ogni erba velenosa, tutti i mostri e i demoni devono essere sottoposti alla critica; e non si può a nessun costo lasciare che si sviluppino liberamente”. Non hanno neppure un capo da venerare o una società ideale da proporre (anche se, lo ha insegnato Eric Hoffer, un movimento fanatico può fare a meno di un Dio, purché abbia un diavolo). Tutto questo è vero. C’è però un’ultima cosa che non mi fa dormire la notte. Sì, d’accordo, l’umorismofobia, la degenerazione accademica, la pedagogia inquisitoria, le patacche intellettuali dei nuovi dottrinari, la pavidità dei carrieristi. Ma questo non spiega tutto. La frase più candidamente agghiacciante l’ha raccolta Anne F. Thurston in “Enemies of the people”, grande storia orale della Rivoluzione culturale. Perché in tanti presero parte con entusiasmo a quel barbarico festival di umiliazione? Risponde Wang Hongbao, uno dei testimoni: “Penso che fosse perché le loro vite erano così noiose…”. Del resto, i maoisti non avevano il senso dell’umorismo.