Dal festival di Ravenna
Come l'economia di Dante può aiutare a capire le banche di oggi
Pubblichiamo l'intervento integrale del governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, in occasione del Festival Dante 2021 a Ravenna per il 700esimo anniversario della morte del Sommo poeta
Desidero anzitutto ringraziare gli organizzatori del “Festival Dante2021” e il Presidente Patuelli per il gradito invito a partecipare a queste celebrazioni per il 700° anniversario della morte di Dante Alighieri. In questo breve intervento, come economista e come Governatore della Banca d’Italia, ovviamente non tratterò dell’immenso valore letterario dell’opera di Dante, né della sua enorme importanza dal punto di vista storico e culturale, nonché linguistico. A quest’ultimo riguardo mi fa solo piacere ricordare il ruolo svolto da Bonaldo Stringher, al vertice della Banca d’Italia nei primi trent’anni del Novecento e a lungo vice presidente della Società Dante Alighieri. Mi soffermerò invece su alcuni aspetti che hanno caratterizzato la sua epoca e probabilmente il suo pensiero in materia di economia e finanza, aspetti che rivestono un certo interesse anche in chiave moderna.
Dante fu, come si usa dire, un “uomo del suo tempo”. Partecipò con passione alle vicende politiche della sua epoca, osservò con attenzione le condizioni sociali ed economiche dei suoi contemporanei, fu un testimone diretto e un critico pungente della rapida evoluzione della sua città, Firenze, che, a cavallo tra il Duecento e il Trecento, fu la capitale finanziaria del mondo, oltre che un grande centro manifatturiero, commerciale e culturale. Visse la sua straordinaria e drammatica vicenda umana a stretto contatto, diretto e mediato, con chi allora deteneva, in forme varie, il potere politico, economico e finanziario. Considerò e discusse l’evolversi di quel potere, anche da intellettuale e studioso, nello spazio economico globale dell’Europa di allora: con curiosità prima, partecipazione attiva poi, infine con l’asprezza dettata dai vent’anni trascorsi, esule e senza mezzi, provando «… sì come sa di sale / lo pane altrui, e com’è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» (Par., XVII, 58-60).
Non solo nella Commedia ma anche nel Convivio (in particolare a commento delle canzoni cosiddette “dottrinali”) e nel De Monarchia sono pertanto numerosi i riferimenti alla vita economica dell’epoca di Dante, un’epoca che sappiamo essere stata davvero straordinaria. Il Duecento è il secolo del Basso Medioevo nel quale comincia infatti ad affermarsi un sistema socio-economico sempre più fondato sull’interazione tra attività commerciali e, per dirla con Carlo Cipolla, “meccanismi di mediazione finanziaria”, in cui alcuni studiosi ritengono che si possano individuare i primi tratti di un capitalismo commerciale. Se non si tratta di un processo uniforme, in taluni casi, come nei liberi comuni dell’Italia centro-settentrionale, e nella seconda metà del secolo certamente a Firenze, esso ha luogo in modo decisamente impetuoso. Secondo lo storico francese Fernand Braudel è proprio nell’Italia del XIII secolo che prendono piede istituzioni capitalistiche e di produzione industriale caratteristiche di un’economia globale; lo stesso Karl Marx colloca nell’Italia del Basso Medioevo le origini, se non la piena affermazione, del capitalismo europeo2 . Secondo Jacques Le Goff, invece, “il capitalismo non è nato nel Medioevo e nemmeno si può considerare quest’epoca precapitalistica” dato il sostanziale primato “del sistema di valori proprio della religione e della società cristiane”
Si registra comunque in questo periodo storico una crescita senza precedenti del commercio internazionale. Dopo la morte di Gengis Khan nel 1227, con l’affermarsi della cosiddetta pax mongolica gli spostamenti dall’Europa verso l’India e la Cina, pur ancora lenti, diventano molto più sicuri; ne sono grandemente facilitati gli scambi. Alcuni economisti arrivano persino a chiedersi se questo sia stato il secolo della nascita della globalizzazione. Sebbene le diverse civiltà in Europa e in Asia fossero sempre state consapevoli l’una delle altre e anche in passato gli scambi commerciali fra di esse non fossero stati infrequenti, nel Duecento esse sembrano infatti divenire per la prima volta componenti che interagiscono all’interno di un comune sistema economico.
Soprattutto, non si spostano solo le persone e le merci (in primis quelle più pregiate come la seta e le spezie), ma si muovono da una parte all’altra del mondo e su scala rilevante anche le tecnologie e le idee. I mercanti italiani sono tra i maggiori protagonisti di questi cambiamenti, anche grazie al controllo del Mar Nero (da dove partivano i viaggi, che impiegavano meno di un anno, dalla Crimea alla Cina) da parte di Genova e Venezia: è l’epoca di Marco Polo e delle tratte commerciali descritte da Francesco Balducci Pegolotti nella sua Pratica della mercatura. Il commercio via terra da Firenze verso la Francia, le Fiandre e l’Inghilterra si sviluppa a partire dalla fine del XII secolo, e riguarda soprattutto i prodotti dell’industria tessile, inizialmente con la tintura e l’affinamento dei panni fiamminghi da parte dei commercianti riuniti nella potente corporazione dell’Arte di Calimala, in seguito con la stessa manifattura nell’ambito dell’Arte della lana.
L’Europa registra inoltre una forte crescita demografica e un notevole aumento della produzione agricola, nonostante l’intensificazione delle migrazioni dalle campagne alle città, grazie al netto miglioramento delle tecniche di coltivazione, che consentono di generare un surplus di beni che potevano essere immessi sul mercato. Ma i settori guida dello sviluppo sono soprattutto il commercio internazionale e le manifatture tessili; ad essi si aggiungono le attività connesse con le costruzioni edili e, impetuosa, la crescita del settore finanziario.
Si espandono i grandi centri di scambio come le fiere, quali quelle organizzate dai conti di Champagne in Francia. Nascono nuove organizzazioni commerciali e finanziarie, con la costituzione di “nuovi tipi di società quali la colleganza e la commenda e vari tipi di partecipazione del capitale all’attività dell’impresa”9 , con l’affermazione di grandi compagnie di mercanti e banchieri, inizialmente a carattere familiare, e una successione di innovazioni nella contabilità e nella finanza, dalle lettere di cambio ai giroconti, dai libri di conto alla partita doppia, e così via. In un mondo che inizia a integrarsi, la compresenza di numerose monete diverse conduce a un forte sviluppo di nuovi mestieri, come quello dei cambiavalute.
Con l’attività di cambio ha altresì luogo, sulla spinta del commercio in mercati sempre più aperti, una vera e propria rivoluzione della finanza occidentale che si regge, come scrive Amedeo Feniello, sul “miraggio di un nuovo mondo fondato su un assioma … non solo quello del raggiungimento della ricchezza … ma della creazione della ricchezza con – e per – la ricchezza”, con un’attività, quella del credito, che rende “il denaro, tutto a un tratto, vivo”, trasformandolo da statico a dinamico10. Vedremo in seguito quale grande conflitto ciò finirà per generare tra la pratica della realtà economica e sociale e la dottrina metafisica e teologica da cui promanava la distinzione tra il bene e il male, tra il lecito e l’illecito, tra il percorso terreno e l’“altra vita”.
Nel complesso, quindi, la crescita dell’economia nel corso del Duecento e nei primi anni del Trecento – a Firenze, così come in Italia e in Europa – fu molto forte, anche se quantificarla è sostanzialmente impossibile. Cipolla elenca una lunga serie di “indizi” che testimoniano la grande portata del fenomeno11. Ad esempio a Genova, tra il 1274 e il 1293 la quantità di merci importate ed esportate quadruplicò; nelle Fiandre il numero dei sigilli posti dalle autorità comunali di Ypres ai pannilana prodotti localmente aumentò di quasi nove volte in soli sette anni (tra il 1306 e il 1313). In Oriente esplose la produzione di porcellane celadon, in Persia quella delle ciotole smaltate di turchese; fiorì la costruzione di templi induisti in India, così come quella delle cattedrali in Europa12. Relativamente a Firenze, se minori e spesso non del tutto attendibili sono le informazioni quantitative riferite a questo periodo, non vi è dubbio che lo sviluppo delle Arti e la crescita del loro potere, anche politico, con particolare riguardo alle corporazioni della tessitura e della colorazione della lana sono un chiaro indice dell’espansione senza precedenti della manifattura e del commercio
Anche se, per i limiti posti alla concorrenza e le rigidità a detrimento dell’innovazione, lo sviluppo delle corporazioni delle arti e dei mestieri sarà oggetto, qualche secolo dopo, della forte critica di Adam Smith13, dalle cronache dell’epoca si percepisce un fermento e un progresso di straordinaria portata. Scrive ancora, con icastica sintesi, Carlo Cipolla: “Al tempo di Dante la gente doveva avere la sensazione di vivere in un mondo ricco di innovazioni tecnologiche”.
L’espansione dell’economia, del commercio e del credito fu talmente rapida da richiedere la coniazione di nuove monete: in Italia, accanto a quelle d’argento, nel 1252 nacquero il genovino a Genova e il fiorino a Firenze (e, successivamente, nel 1284, il ducato a Venezia). Erano monete il cui valore intrinseco, molto più elevato di quello delle monete d’argento, facilitava gli scambi internazionali su larga scala. Non si trattava comunque solo di differenze nel valore intrinseco ma nella loro stessa stabilità: assoluta e costante per le prime, altamente variabile, lungo un trend di progressiva svalutazione quelle usate negli scambi di tutti i giorni.
La stabilità della sua moneta e la forza della sua produzione manifatturiera posero Firenze e le sue compagnie mercantili-bancarie al centro del commercio continentale. Le banche fiorentine dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli, dei Buonaccorsi, dei Frescobaldi, in seguito dei Medici, aprirono filiali in tutta Europa. Lo sviluppo di queste compagnie, nel credito come nella raccolta di depositi, fu grandemente favorito anche dagli incarichi svolti per la Chiesa, in particolare nella riscossione delle decime, e dalle relazioni di prestito con le grandi case regnanti in Europa.
Eppure, solo alcuni anni dopo la morte di Dante questa vigorosa espansione dell’economia e della finanza si interruppe in tutta Europa. Osserva Cipolla che con i cambiamenti economici e demografici si ebbe nel corso del XIV secolo anche un mutamento di tono politico, sociale e culturale: “L’età del Cantico delle Creature cedette il passo all’età della Danza macabra”16. Il Trecento sarà infatti un secolo attraversato da crisi profondissime. Vale la pena ricordare la peggiore di esse, la pandemia che prima dall’Asia giunse in Italia e poi si propagò rapidamente in tutta Europa: tra il 1347 e 1351, su una popolazione di appena 80 milioni di persone nel nostro continente, la peste nera causò ben 25 milioni di morti17. Superata l’epidemia, la società e l’economia ripartirono velocemente e si registrò anche un netto aumento dei salari reali indotto dal calo della forza lavoro. Ma la peste divenne endemica e continuò a funestare l’Europa per almeno tre secoli. A Firenze, solo in quel secolo, ritornerà ancora nel 1363, nel 1374-75, nel 1383-84 e nel 1390; ma molte altre città europee, come Venezia e Parigi, furono ripetutamente investite dalle ondate del morbo.
Non mancarono le crisi economiche, tipicamente causate dal clima più freddo e instabile registrato in particolare nella prima metà del Trecento, con piogge forti e irregolari che sovente produssero gravi danni ai raccolti in gran parte dell’Europa (ad esempio tra il 1315 e il 1317 e poi nel 1346 e nel 1347). E furono gravissime le crisi finanziarie, specialmente la bancarotta del Comune di Firenze nel 1345 e, tra il 1341 e il 1346, i fallimenti di tutti i principali banchieri fiorentini, dovuti soprattutto agli avvenimenti politici: dalla decisione del re d’Inghilterra Edoardo III di non rimborsare gli enormi prestiti contratti presso le compagnie dei Bardi e dei Peruzzi per finanziare la guerra con la Francia ai timori che portarono il re di Napoli, i suoi baroni e gli alti prelati del regno, che detenevano grosse somme presso i banchieri fiorentini, ad avviare una corsa al prelievo dei loro depositi. Come scrive ancora Cipolla, il “triplice colpo della bancarotta inglese, dei prelievi napoletani e del crollo dei titoli del debito pubblico in Firenze furono più di quanto il sistema bancario fiorentino potesse sopportare”.
Ma torniamo agli anni di Dante. Egli fu certamente consapevole di come, nel giro di poche generazioni, si registrò a Firenze un notevole miglioramento del tenore di vita. Ma il giudizio complessivo sugli effetti dello sviluppo economico-finanziario, oltre che dell’evoluzione politica – a Firenze come nell’Italia nel suo complesso e in Europa – appare sostanzialmente critico. Mentre non lesina giudizi di natura metafisica, teologica e in ultima istanza etica, sostanzialmente sulla base della dottrina scolastica dominante nel tempo, con evidenti richiami alla filosofia aristotelica (pur se con qualche necessario distinguo come è stato rilevato, soprattutto negli ultimi decenni, da numerosi studiosi), egli sembra curarsi meno della straordinaria cesura che, sul piano dell’economia, si stava allora determinando.
Dico “sembra” perché dalla seconda metà del secolo scorso alcuni contributi hanno cercato di produrre, da una lettura ampia e complessiva non limitata alla Commedia, analisi sistematiche del suo pensiero in ambito “economico-politico”. Ne sono derivate interpretazioni diverse, da quella “liberista” avanzata, con un’evidente forzatura, da Giuseppe Garrani a quella anti-utilitarista di Marco Romanelli, a quella anti-capitalista di Francis Hittinger, ma tutte volte a rinvenire nelle opere di Dante, al di là dell’apparente fedeltà ai canoni sostanzialmente conservatori della filosofia scolastica, gli elementi della ricerca di un disegno organico, volto a promuovere un mondo di maggiore equità e benessere.
Questo contrasta con la visione, in qualche modo oggi forse prevalente, di un Dante Alighieri grandissimo poeta ma in fondo pensatore non particolarmente originale, decisamente sopravvalutato come “filosofo e politico”; per riprendere la nota opinione di Benedetto Croce, non parrebbe infatti utile, al fine di apprezzare il carattere straordinario, la qualità lirica, della sua opera poetica, procedere in studi approfonditi sulla sua filosofia, “su quel tanto, se pur vi fu, che egli nel suo generale tomismo immise di altre correnti speculative e pensò di proprio; sul suo ideale politico …; sulle vicende della sua vita pubblica e privata …; su quel che credeva reale nei fatti a cui alluse e su quel che stimava semplicemente probabile o addirittura immaginò pei suoi intenti; … e se il fine del poema sia etico-religioso o politico o entrambi questi fini combinati; e via enumerando e particolareggiando”.
Al di là del giudizio di Croce, in un testo peraltro certamente notevole per la profondità dell’analisi e la ricchezza dei riferimenti, ma certamente da esso partendo, come osserva Marco Romanelli nel secondo dopoguerra si è repentinamente trasformato un “Dante poeta-vate investito di una missione nazionale in un conservatore irrimediabilmente prigioniero di una ‘utopia regressiva’, per dirla con Marco Santagata”, anzi in un “reazionario”, come lo definisce Edoardo Sanguineti. Proprio per questo, per guardare con maggiore equilibrio alla figura storica di Dante, accettata con Croce la dimensione straordinaria, unica, di Sommo Poeta, mi pare in fondo importante il contributo di testi che approfondiscono la visione di Dante su temi, sui quali pure già molto si è scritto, quali avarizia e ricchezza, usura e corruzione, stabilità politica e monetaria.
Alle opere citate aggiungerei tuttavia un prezioso volumetto pubblicato nel 1898 da un giovanissimo autore, Livio Cibrario, che succintamente descrive l’ambiente economico dell’epoca di Dante, le teorie allora dominanti e il modo in cui egli guardò nella Commedia a vari fenomeni della vita sociale ed economica. Le mirabili pagine di questo volume, scritte dal ventiduenne nipote dell’insigne storico Luigi Cibrario, allievo di Salvatore Cognetti de Martiis e tragicamente vittima quello stesso anno di un incidente di alta montagna, sono state sorprendentemente ignorate da tutti gli studi citati, a partire da quello di Benedetto Croce, ma la loro lettura fece scrivere a Luigi Einaudi queste parole: “Noi speriamo che il geniale libretto, di cui raccomandiamo la lettura a tutti coloro che s’interessano di cose Dantesche, non siano se non la prefazione ad un’opera più vasta, destinata a delinearci il contributo dato all’economia non dagli economisti di professione, ma dai grandi poeti e prosatori italiani”.
È senz’altro vero che in celebri versi Dante mostra grande diffidenza nei confronti dei mercanti-banchieri che, pur se da poco installatisi in città, sembrano arricchirsi troppo facilmente, anche se è impossibile che ignori i benefici, diretti e indiretti, da loro apportati alla comunità cittadina: «La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (Inf., XVI, 71-73). Ed è altrettanto vero che fa dichiarare al suo trisavolo Cacciaguida che la Firenze del XII secolo era sì molto diversa, ma anche moralmente superiore, rispetto a quella degli anni in cui scrive la Commedia: «Fiorenza dentro da la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora e terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica. / Non avea catenella, non corona, / non gonne contigiate, non cintura / che fosse a veder più che la persona. / Non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre, che ‘l tempo e la dote / non fuggien quinci e quindi la misura» (Par., XV, 97-105).
Allo stesso modo appare disprezzare il fiorino, “il maladetto fiore”, che pure aveva consentito a Firenze di affermarsi come principale piazza finanziaria internazionale: «La tua città, che di colui è pianta / che pria volse le spalle al suo fattore / e di cui è la ’nvidia tanto pianta, / produce e spande il maladetto fiore / c’ha disviate le pecore e li agni, / però che fatto ha lupo del pastore» (Par., IX, 127-132). Ma più che l’aspirazione di un ritorno a un passato forse più sobrio ma certamente più povero (e mi pare ben centrato il giudizio di Cibrario, che “Non il poema dei morti egli dettava, ma il poema della vita”), più che il risentimento per essere stato egli stesso vittima del mondo “nuovo”, queste parole mettono in luce la percezione che da un cattivo uso della finanza possano solo derivare, nel breve come nel lungo periodo, conseguenze gravi e funeste, un tema antico che ricorre regolarmente nella storia ed è, come ben sappiamo, ben presente anche ai nostri giorni.
Per restare agli anni immediatamente successivi alla morte di Dante, come abbiamo visto ben presto i nodi dell’“euforia” in cui si era andata sviluppando l’“alta finanza” vennero al pettine, con la bancarotta di Firenze e il fallimento dei grandi banchieri fiorentini. Questo avrebbe evidentemente rafforzato il giudizio sulla dubbia moralità dell’attività finanziaria. A tale riguardo, trent’anni fa Amartya Sen si interrogava, in Banca d’Italia, sulle ragioni per cui “un’attività tanto utile sia stata giudicata così dubbia sotto il profilo etico”. Sen ricordava una serie di episodi della storia antica: Solone che cancellò i debiti e vietò molte forme di credito nell’antica Grecia, Gesù che cacciò i mercanti di denaro dal Tempio a Gerusalemme, la definizione di Aristotele, poi ripresa da Tommaso d’Aquino e ben presente nelle riflessioni di Dante relative all’usura, dell’interesse sui prestiti come un’innaturale e ingiustificata riproduzione del denaro dal denaro.
È indubbio che la crisi finanziaria globale, scoppiata nell’estate del 2007 e culminata con il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008, e la successiva crisi dei debiti sovrani nell’area dell’euro abbiano di nuovo profondamente eroso la fiducia nelle istituzioni finanziarie. L’integrità della condotta degli intermediari finanziari è stata quindi messa in discussione sotto vari profili, dall’onestà nei comportamenti dei dirigenti bancari alla capacità nel gestire rischi finanziari spesso eccessivi, dall’impegno a curare gli interessi della clientela all’attenzione al sistema di incentivi perversi connessi a premi e remunerazioni. Molto è stato fatto a livello globale negli ultimi anni per migliorare la regolamentazione bancaria, ridurre i rischi di credito, e recuperare la fiducia del pubblico, anche se ancora molto resta da fare per quanto riguarda l’intermediazione finanziaria non bancaria, straordinariamente cresciuta nell’ultimo decennio.
Ma, come ricordava ancora Amartya Sen, la finanza “svolge un ruolo importante per la prosperità e il benessere delle nazioni”, nella condivisione e nella distribuzione dei rischi, nella rimozione dei vincoli di liquidità, nel trasferimento delle risorse nel tempo e nello spazio, nella promozione dello sviluppo favorendo l’innovazione. Sono in effetti abbondanti nel tempo gli esempi di buone “innovazioni finanziarie”, dalle lettere di cambio già ricordate, introdotte dai mercanti italiani nel Medioevo, allo sviluppo del micro-credito che dalla seconda metà del secolo scorso ha fortemente contrastato i divari nell’inclusione finanziaria, in particolare nei paesi in via di sviluppo, al venture capital che negli ultimi decenni ha svolto un ruolo cruciale nella promozione di imprese innovative di successo. Tutti esempi, come si vede, di una finanza al servizio dell’economia reale, in ultima istanza utile per conseguire il “bene comune”.
Ed è al bene comune, alla necessità che esso prevalga sugli interessi particolari – come nel De bono comuni scritto dal domenicano Remigio de’ Girolami tra il 1300 e il 1301 e probabilmente ascoltato, come osserva Romanelli, nella sua attività di lettore in Santa Maria Novella – che esplicitamente Dante si richiama. Va osservato, però, che non si tratta di una mera aspirazione ideale ma di una pratica, essenziale («impossibile est ius esse, bonum comune non intendens», De Monarchia, II, V, 2), possibilità, che può (deve) avere come protagonista una figura super partes, qual è (o deve) essere – investito del potere temporale – l’imperatore del Sacro romano impero. Di questo Dante ritiene esservi assoluta necessità, dato il disfacimento politico e sociale dei suoi giorni, un disfacimento che trova origine nella cupidigia («… una lupa, che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza, / e molte genti fé già viver grame», Inf., I, 49-51): la bramosa ricerca di denaro (e anche di potere), che sempre più tende ad affermarsi come fine ultimo, più che come mezzo, espediente, per meglio agire, come proposto invece dalla «cara e buona imagine paterna» (Inf., XV, 83) del suo maestro Brunetto Latini.
È dalla cupidigia che nascono infatti gli eccessi egoistici degli avari, l’avidità degli usurai, le ruberie dei simoniaci, la corruzione dei barattieri, i delitti dei falsari di monete. Non è questa la sede per sviluppare in dettaglio questi temi, alla luce delle vicende del tempo, delle teorie dominanti e di una approfondita lettura degli scritti di Dante, in versi e in prosa, in latino e in volgare, né la mia “scienza” sarebbe sufficiente allo scopo. Ma certamente non mancano approfondimenti, ricchi e illuminanti, in particolare sull’avarizia e sull’usura. Mi limiterò quindi, al riguardo, ad alcune brevi notazioni.
Da uomo del suo tempo è innegabile che Dante dovesse affrontare il tema dell’usura consapevole delle posizioni filosofiche e teologiche allora prevalenti. Profondamente inserito nella vita politica e osservatore attento e interessato della realtà non poteva non vedere la progressiva divergenza tra teoria canonica e pratica dell’attività creditizia in anni, e in luoghi, in cui sempre più si manifestavano i segni della utile connessione tra commercio e mediazione finanziaria. Un tema, questo, che stava al fondo del confronto tra teologi domenicani – fermi su posizioni di condanna tomistico-aristoteliche del prestito a interesse come pratica tesa a generare, contro natura, denaro prodotto dal denaro grazie alla “vendita del tempo” senza averne la proprietà – e francescani spirituali – in primis con l’ormai celebre Tractatus de usuris di Pietro di Giovanni Olivi30 – anche teologicamente aperti al “giusto” interesse nel caso questo andasse a remunerare un “capitale” destinato all’attività commerciale.
Ma rispetto alla legittimità di un interesse volto a coprire il rischio e remunerare un capitale volto a usi produttivi, Dante che posizione aveva? Cosa pensava della teoria dell’Olivi? Del confronto tra francescani spirituali e teologi domenicani? Il dibattito mi pare ancora aperto; certo tra gli usurai menzionati nel Canto XVII dell’Inferno mancano molti protagonisti anche di estremo rilievo del mondo bancario di allora (pur se, come ricorda Gaetano Salvemini, gli affari dei grandi banchieri in gran parte riguardavano prestiti “a re, nobili, conventi, vescovi e città di tutta Europa” in cambio di concessioni di varia natura e a tassi d’interesse compresi tra un “normale” 36 per cento e un indubbiamente esorbitante 262 per cento…). Soprattutto, se, come oggi si ritiene, fonte importante della Commedia fu la Lectura super Apocalypsim dell’Olivi32 – tacciato per essa di eresia e in effetti ispirata dalla Expositio in Apocalypsim di Gioacchino da Fiore, eretico per la Chiesa ma non per Dante che lo ricorda «di spirito profetico dotato» (Par. XII, 141) – con ogni probabilità dell’Olivi Dante conosceva anche la teoria sull’usura esposta nel Tractatus, certo diversa da quella, ortodossa, di Remigio de’ Girolami, alle cui posizioni sul bene comune, come ho ricordato, egli pure sembrava vicino.
Non si tratta solo di questioni di natura etica, ma sono anche cruciali le conseguenze pratiche. L’eccessiva brama di denaro finisce per ostacolare il meccanismo della circolazione della ricchezza. Il concetto evidentemente non è nuovo; ricorda Stefano Zamagni che già nel 370 Basilio di Cesarea scriveva che “le ricchezze ferme sono inutili”33. Ma se, alla Olivi, l’interesse riguarda un credito che consente al “capitale” di essere produttivo, allora lo si può considerare certamente lecito, non vi è “dismisura” e non si compromette il conseguimento diffuso della felicità su questa terra, felicità non solo di chi non ha ma anche, in ultima istanza, di chi ha.
È nel famoso “Canto della Fortuna”, il VII dell’Inferno, che Dante in qualche modo introduce una sua visione dell’economia, sottolineando l’importanza di una corretta circolazione dei beni e del denaro: «Colui lo cui saver tutto trascende, / fece li cieli e diè lor chi conduce … / similemente a li splendor mondani / ordinò general ministra e duce / che permutasse a tempo li ben vani / di gente in gente e d’uno in altro sangue, / oltre la difension di senni umani» (Inf., VII, 72-81). Ed è essenziale che questa circolazione avvenga con la massima rapidità: «… Le sue permutazion non hanno triegue, / necessità la fa esser veloce; / sì spesso vien chi vicenda consegue» (Inf., VII, 88-90). Questo non significa che in Dante, come in altri autori di riflessioni sulla realtà sociale e politica dell’epoca, già fosse chiaramente percepibile una demarcazione tra considerazioni di natura teologica e filosofica e pensiero economico e politico. Il basso Medioevo è ancora profondamente caratterizzato da una visione teocentrica della realtà e nella narrazione di Dante la Fortuna è l’intelligenza preposta da Dio ad amministrare i beni terreni. Ma evidentemente, come Dante stesso ricorda nel primo libro del De Monarchia, l’essere umano è dotato di libero arbitrio: l’equilibrio “naturale” determinato dalla Fortuna è ostacolato dal comportamento di chi è dominato dalla cupidigia. Si va dunque contro il conseguimento del bene comune e «così s’impedisce la felicidade» (Convivio, IV, 4).
In particolare, con riferimento all’usura, la forma estrema di avarizia che confina con la frode, Dante fa dire a Virgilio che «… l’usuriere altra via tene, / per sé natura e per la sua seguace / dispregia poi ch’in altro pon la spene » (Inf., XI, 109-111). Quindi anziché dalla natura e dalla sua “seguace” – l’arte e cioè il lavoro – l’usuraio trae la sua ragione di vita da un uso del denaro fine a se stesso. Che Dante abbia qualche dubbio d’interpretazione si rileva tuttavia proprio dalla domanda cui – in piena coerenza con la dottrina prevalente – risponde Virgilio. Contro natura, certo; non necessariamente, direi, contro un “giusto” interesse a fronte del lavoro e dell’ingegno umano.
Non è questa la sede per addentrarci in una discussione del dibattito sull’usura, la cui storia copre diversi millenni. Nell’età “moderna” come in quella contemporanea leggi sull’usura sono state introdotte, modificate e abrogate a varie riprese. Nel Settecento a un Adam Smith che si schierava a favore dell’introduzione di un limite massimo al tasso d’interesse per evitare che fossero incoraggiate iniziative imprudenti a scapito di un uso produttivo del credito rispondeva Jeremy Bentham, preoccupato per l’effetto negativo che ciò avrebbe avuto nei riguardi di iniziative d’investimento promettenti ancorché rischiose. Nel tempo il contrasto all’usura ha sempre più significato contrasto a forme criminali volte ad approfittarsi dello stato di bisogno dei debitori, spesso anche con violenti atti di estorsione.
Era questo, in effetti, il fondamento del reato previsto nel nostro paese fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso quando, con la legge 108 del 1996, si è passati a definire come usurari prestiti, da chiunque erogati, superiori a un predefinito tasso “soglia” selezionato con particolari procedure amministrative, indipendentemente dallo stato di bisogno e del livello di cognizione di chi li domanda (pur se le condizioni di difficoltà del prenditore di un prestito possono rientrare tra le circostanze aggravanti). Anche se il contenimento dei tassi d’interesse sui prestiti entro “ragionevoli” limiti trova ancora giustificazione in letteratura sulla base di ragionamenti connessi con la presenza di asimmetrie informative e rischio morale o la necessità di tenere conto dell’insufficiente grado di consapevolezza (e alfabetizzazione finanziaria) dei mutuatari, possiamo osservare come la disciplina oggi in vigore in Italia sia, da un lato, la più severa in Europa e tenda, dall’altro, a concentrare l’attenzione sugli sconfinamenti, peraltro spesso di difficile definizione, nel credito “legale” praticato da intermediari autorizzati all’attività creditizia, a scapito forse di un più efficace contrasto dell’usura di chiara origine criminale.
Particolarmente subdole, invece, si rivelano le situazioni nelle quali le motivazioni celate nel contratto di prestito siano di per sé lecite, ma ottenute mediante pressioni tese a carpire indebitamente il consenso del debitore. Tipici sono i casi in cui l’usuraio si impadronisce di immobili ovvero di attività commerciali del debitore. A fronte dei costi molto alti del contenzioso interno al circuito creditizio legale e alla predominante tendenza all’archiviazione dei procedimenti nei confronti degli esponenti bancari, sempre più quindi si avanzano rilievi di scarsa efficacia dei presidi volti a contrastare l’operato di organizzazioni criminali, tanto più necessari in un periodo quale quello attuale di accresciuta vulnerabilità economica di imprese a famiglie per effetto dell’emergenza pandemica. Una messa a punto dell’impianto metodologico lungo un percorso di riforma legislativa volto ad assicurare coerenza con l’obiettivo originario di tutela dei soggetti vulnerabili in un quadro di certezza del diritto è quindi auspicabile.
Vi è comunque certamente di più. Anche alla luce delle esperienze, a livello globale, degli ultimi decenni e dell’impetuoso sviluppo, anche tecnologico, di nuovi strumenti e tecniche di gestione finanziaria, non possiamo che sottolineare i rischi associati alla loro complessità e all’opacità nelle informazioni e nei comportamenti che spesso l’accompagnano. Ne discendono certo nuove responsabilità sul piano regolamentare, oltre che su quello della promozione effettiva dell’educazione finanziaria. Perché, se è oggi eccessiva l’idea che il fine ultimo della finanza (o dell’usura intesa come suo possibile sinonimo) sia la tesaurizzazione, con le conseguenze economiche, etiche e politiche che da Dante in poi sono state nel tempo più volte richiamate, una incontrollata separazione tra lo sviluppo della finanza e le necessità dell’economia reale può portare, come sappiamo, a rischi anche molto gravi per i redditi e l’occupazione, e per la stessa stabilità del sistema economico.
Non è infatti solo questione di livello ma anche, direbbe oggi un economista, di stabilità dell’equilibrio economico, ovvero, direbbe Dante, dell’ordine “naturale”, limitato tanto dal rallentamento quanto dall’eccessiva accelerazione della circolazione del denaro di cui sono rispettivamente responsabili gli avari e i prodighi, che insieme e in opposizione scontano infatti la stessa pena nel quarto cerchio dell’Inferno. E nel più politico dei canti, il VI del Purgatorio, nel rivolgersi con feroce ironia alla Firenze da cui è stato violentemente espulso egli ne critica esplicitamente quella che oggi chiameremmo “volatilità” – politica, amministrativa e monetaria – oltre che dei comportamenti di cittadini e governanti: «Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: / tu ricca, tu con pace, e tu con senno! / … che fai tanto sottili / provedimenti, ch’a mezzo novembre / non giugne quel che tu d’ottobre fili. / Quante volte, dal tempo che rimembre, / legge, moneta, officio e costume / hai tu mutato e rinovate membre!» (Purg., VI, 136-137, 143-147).
Nota il Garrani, al riguardo, che a Dante “non poteva sfuggire la giusta e larga rinomanza che Firenze si era procurata col conio del fiorino, mentre la moneta d’argento, usata in città per i negozi quotidiani, era soggetta a frequenti oscillazioni, il che concorreva, insieme con le altre cause, a determinare l’instabilità politica … ed a provocare attriti e perturbazioni … per le sperequazioni che ogni svalutazione monetaria determinava…”. Ci si riferisce qui alla tendenza svalutazionista, e ai conseguenti effetti sul potere d’acquisto dei salari, che si osserva ripetutamente prima dell’introduzione della moneta fiduciaria e dell’inizio dell’“era delle banche centrali”39. Come osserva Cipolla, tuttavia, non possiamo a posteriori ignorare il fatto che, data la rigidità dell’offerta di materia prima (l’“intrinseco”, in questo caso l’argento) e la contemporanea crescita della domanda di moneta per finanziare l’aumento delle produzioni e degli scambi sui mercati (la “nuova economia”), questa tendenza al deprezzamento della moneta finisce per allontanare il rischio di deflazione secolare.
Ben più forte è comunque l’attacco che Dante porta ai falsificatori di moneta, siano essi sovrani, approfittatori o mestatori politici. Ai falsari riserva in particolare l’ultima bolgia dell’Inferno, quella dei fraudolenti la cui azione finisce per essere particolarmente violenta. Con forti toni di colore descrive quindi l’incontro con Mastro Adamo, indotto dai potenti conti Guidi di Romena, per motivi forse anche politici oltre che di lucro, a falsificare il fiorino d’oro, e cioè a «… batter li fiorini / ch’avean tre carati di mondiglia» (Inf., XX, 89-90). Ma è soprattutto all’arbitrarietà del signoraggio dei sovrani e in particolare alle azioni di Filippo il Bello che, in più luoghi della Commedia, Dante rivolge l’attenzione.
Oltre che a ovvie considerazioni di carattere politico che lo spingono in questa direzione (risparmiando invece l’imperatore Arrigo VII, pure responsabile del conio di fiorini falsi), è da sottolineare l’implicito attacco condotto contro la dottrina del valor impositus, cui si faceva allora risalire il diritto del principe di battere (e anche svilire) la moneta, senza il consenso dei rappresentanti del popolo. Notevole è l’anticipo di Dante sulle idee espresse contro tale teoria, circa mezzo secolo più tardi, da Nicola da Oresme nel Tractatus de origine, jure, et mutationibus monetarum riguardo all’illegittimità per il principe di trattenere il guadagno derivante dalla svalutazione della moneta per finanziare le sue spese, in particolare, anche se non solo, militari. Ed è altresì evidente la sua preoccupazione per l’instabilità sociale, oltre che monetaria, che dalla azione dei re “falsi monetieri” derivava, con grave danno per i sudditi. Preoccupazione non dissimile, direi, da quella che nel corso del tempo ha portato a separare le decisioni in materia monetaria dalle necessità finanziarie degli Stati. Questa, però, è evidentemente un’altra storia.
Dante si chiese ripetutamente cosa fare per contrastare le diverse forme di instabilità, in un modo o nell’altro causate dalla cupidigia dei mortali, e destinate a minare il bene comune e il conseguimento della felicità. Come ho ricordato, la soluzione individuata nel Convivio e nel De Monarchia – dopo le incertezze degli anni della sua avventura politica, manifeste nella successione delle sue canzoni dottrinali (dal relativo ottimismo di Le dolci rime alla sconsolata riflessione di Doglia mi reca, passando per la pedagogia di Poscia ch’amor) – è quella di affidarsi a un Monarca universale, il reggitore dell’Impero: «conviene … essere Monarchia, cioè un solo principato, e uno principe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possedendo, li regi tegna contenti ne li termini dei regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, in quest’amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemente; che è quello per che esso è nato» (Convivio, IV, 4).
Se è evidente il richiamo alla Politica di Aristotele, Dante tratteggia una possibile soluzione, originale e concreta, valida ora e subito nel periodo storico del suo esilio (come sappiamo dalle tre epistole rivolte all’imperatore Arrigo VII) e del tutto aliena dall’appello a una provvidenza ultraterrena, ancorché rispettosa del ruolo spirituale proprio dell’autorità religiosa. Come è stato recentemente osservato, “la riflessione dantesca va ben al di là dello sterile rimpianto di maniera per un passato tanto idealizzato quanto irrecuperabile”, non essendo l’Impero “la riproposizione arbitraria di un potere assoluto sciolto da ogni obbligo” ma l’autorità, al di sopra delle parti, che si identifica con il diritto stesso.
Certo, oggi non si può che concordare con chi sottolinea “il carattere utopistico della Monarchia di Dante, e più in generale del suo pensiero politico” come risulta della lettera dei suoi scritti. Non solo la figura del “veltro” è storicamente datata ma, anche se è evidente la separazione tra il potere religioso del Papa e il potere politico dell’autorità imperiale, è poco comprensibile la relazione tra quest’ultima e l’autorità “filosofica” che nel Convivio viene posta a guidarne la condotta per evitare difetti di governo. E certamente ben altro spessore assumerà la proposta, pochi anni dopo, di un professionista della scienza politica quale Marsilio da Padova, per il quale uno Stato “è tale solo se gli individui che lo compongono partecipano tutti assieme, ciascuno secondo le proprie competenza e possibilità, al suo costante progresso”.
In fondo è questo il significato che possiamo attribuire alla natura di “animale compagnevole” (o sociale) messa in rilievo da Aristotele e richiamata da Dante nel Convivio. Pure, muovendo dalla tesi che “il ‘progetto’ politico dantesco fu, nella coscienza del suo autore, tutt’altro che il sogno utopistico di un visionario, ma una proposta operativa ordinata a risultati concreti” c’è chi ricorda che la riflessione dantesca deriva “dall’osservazione diretta delle violente trasformazioni che sconvolgevano l’età sua aprendo la strada a un mondo futuro che, pur essendo ancora indecifrabile, si intuiva gravido di minacce quanto di opportunità”
A questo proposito mi pare utile sottolineare che la forza innovativa dell’analisi di Dante, anche rispetto alla più coerente riflessione di Marsilio, sta nel rilevare la natura globale dell’instabilità, da lui direttamente osservata e magistralmente descritta nei versi della Commedia, e la necessità quindi di un mutamento istituzionale adatto a farvi fronte. Ai giorni nostri la crisi finanziaria del primo decennio di questo secolo, quella dei debiti sovrani nell’area dell’euro del secondo decennio, quella che deriva dalla pandemia di Covid-19 che stiamo ancora affrontando hanno una caratteristica comune: la necessità di una risposta sovranazionale. Non possiamo quindi che procedere lungo il sentiero difficile, a volte impervio ma unico, della cooperazione internazionale, un punto messo in luce all’indomani del primo conflitto mondiale da un notevole articolo di Padre Mariano Cordovani che si richiama al De Monarchia di Dante per avanzare sue riflessioni sulla neonata Società delle Nazioni.
Con riferimento alla crisi finanziaria globale possiamo concludere che le risposte di riforma del quadro regolamentare – con l’introduzione di misure volte a tenere sotto controllo fonti tradizionali di rischio per le banche che, se non controllate, possono avere gravi conseguenze sulla stabilità del sistema finanziario e dell’economia – sono state effettivamente di natura globale. Come ho ricordato, il controllo di quelli che sono i rischi principali dell’attività bancaria, rischi quali l’eccessiva crescita del credito e della leva finanziaria, il mismatch di liquidità, l’accentuata trasformazione delle scadenze, le frodi e i comportamenti illeciti degli intermediari, è stato fortemente rafforzato dai provvedimenti regolamentari approvati dal Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria, sotto l’impulso politico del Gruppo dei Venti (G20) e l’azione tecnica del Consiglio per la stabilità finanziaria.
La validità delle misure introdotte ha trovato conferma nella buona performance, a livello globale, delle banche nel sostegno dell’economia di fronte all’emergenza pandemica. Ma nel decennio che ha fatto seguito alla crisi del 2008 lo sviluppo del sistema finanziario ha soprattutto riflesso la crescita dell’intermediazione non bancaria: le attività finanziarie detenute dalle società che operano in questo settore hanno quasi raggiunto la metà del totale. La crescita della finanza di mercato è stata trainata da fattori sia strutturali (progresso tecnico e digitalizzazione) sia congiunturali (riduzione dei tassi d’interesse e domanda di liquidità). Se alcuni di questi fattori possono rendere il sistema finanziario più diversificato, efficiente e resiliente a shock avversi, non sono pochi i rischi, tradizionali e nuovi, connessi alla natura stessa dell’innovazione tecnologica (dal ruolo dell’automazione nell’amplificare gli effetti di vendite generalizzate a fenomeni di instabilità, anche a fronte di tentativi di frode, che la digitalizzazione dell’economia può accentuare).
Carenze del quadro regolamentare e del sistema di supervisione sulla finanza di mercato hanno giocato un ruolo, ad esempio, in alcuni recenti episodi di fallimento di intermediari non bancari (da Wirecard ad Archegos, da Greensill a Huarong). Inoltre, come abbiamo sperimentato nel marzo dello scorso anno, ai fattori di vulnerabilità strutturale può sempre più attribuirsi un peso non trascurabile nell’amplificazione degli shock e nell’aumento della prociclicità del sistema. Di tali questioni si occupa ora in modo intenso il Consiglio di Stabilità Finanziaria che, sotto la guida e il supporto del G20, quest’anno a presidenza italiana, ha elaborato un articolato programma di lavoro; ma la sfida per ridurre i rischi di instabilità che possono essere generati dalla “nuova” finanza resta elevata, tanto più che la necessità di risposte globali riguarda a volte le ripercussioni internazionali di istituti e fenomeni caratteristici di specifiche giurisdizioni.
A conclusione di questo non breve excursus sull’epoca e sulle (possibili) idee “politico-economiche” di Dante mi pare che convenga almeno ricordare l’imprudenza nella quale rischiamo di incorrere “leggendo” la storia con gli occhiali delle categorie politiche e socio-economiche odierne. Il rischio principale è che si finisca per rinvenire nelle opere di cui siamo stati eredi così fortunati ciò di cui ciascuno di noi è già in qualche modo convinto. Mi sembra tuttavia non azzardato sottolineare quanto siano ricchi gli spunti che i tentativi di lettura organica dell’evoluzione e della cristallizzazione del pensiero dantesco di cui ho qui provato a tenere conto possano offrirci ancora oggi, nella consapevolezza dei limiti e dei rischi di questi esercizi.
Dante ci ricorda che «la necessità de l’umana civilitade … a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo per sé è sufficiente a venire senza l’aiutorio d’alcuni, con ciò sia cosa che l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può. E però dice lo filosofo che l’uomo è compagnevole animale» (Convivio, IV, 1). Come raggiungere la felicità non è ovvio, ma le imperfezioni e i limiti che derivano dalla cupidigia rischiano di compromettere, diremmo oggi, l’efficiente allocazione delle risorse e la stabilità dell’equilibrio monetario, con effetti ingiusti anche sul piano dell’equità distributiva. Vi è quindi necessità di un intervento esterno, riequilibratore e stabilizzatore, con uno sguardo esteso oltre i confini nazionali.
Molti secoli dopo anche il più grande economista del Novecento si espresse con forza contro il principio, o “mito”, della “mano invisibile” e le degenerazioni di un capitalismo instabile e diseguale. Ritenendo impossibile fare a meno del contributo positivo di un’economia di mercato, John Maynard Keynes considerava però essenziale che essa non fosse lasciata in balia di sé stessa; non ne condivideva, comunque, i valori di fondo, in particolare l’“amore per il possesso del denaro – da non confondersi con l’amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita”46, in questo quindi ben vicino a quanto possiamo capire del pensiero di Dante. Forse più realista di Dante (o semplicemente sulla base dell’esperienza accumulata proprio a partire dall’epoca di Dante), scrivendo negli anni Trenta Keynes riteneva però che finché non si fosse risolto definitivamente, anche grazie all’innovazione tecnologica, il nostro “problema economico” (soluzione con un certo ottimismo attesa a distanza di un centinaio di anni), non avremmo potuto fare altro che continuare “a fingere con noi stessi che il bene è male e il male è bene”, come suggerito dalle streghe del Macbeth (“fair is foul and foul is fair”), la straordinaria tragedia scritta da William Shakespeare, l’altro grande vate del secondo millennio.
Ignazio Visco
Governatore della Banca d’Italia