Pablo Picasso nel suo studio ad Antibes nel 1946 (ANSA /Michel Sima) 

Addio atelier

Ugo Nespolo

Luogo sacro e creativo, fonte d’ispirazione, eremo e contenitore. Lo studio dell’artista ha preso molteplici forme. Pure quella virtuale

“Lo studio sono io”
Sebastian Matta

  
È noto che i luoghi comuni possono contenere verità sia pure annacquate da comodi e facili discorsi ad effetto. Ecco, per esempio, intorno a quello che Daniel Buren chiama “luogo di ineludibile complessità”, ovvero l’atelier degli artisti, il suo ruolo, le sue trasformazioni si preferisce limitarsi a pensare trattarsi in fondo dello spazio fisico che la letteratura ci ha raccontato come tana esclusiva del genio e della sua creatività. Neppure convince e ci basta la teoria per la quale lo studio – sin dal Quindicesimo secolo – altro non sia che uno spazio d’isolamento, l’invalicabile barriera che separa l’artista dal mondo reale, la solida fortezza che lo protegge dalle distrazioni e dalle banalità del mondo esterno. 

  
È Stefania Zuliani che nel suo magistrale saggio “Atelier d’Artista” (Mimesis), già nella premessa, mette in chiaro la relazione profonda che lega  l’atelier alla creazione delle opere d’arte. Risulta inconfutabile l’energia che questo straordinario luogo di lavoro ha esercitato ed esercita ancora oggi su artisti e opere. “Che sia bottega o factory, alcova, letterario salotto, immacolato ufficio o caotica officina di immagini e fallimenti, mansarda, piazza o scrivania, lo studio dell’artista rappresenta un oggetto di analisi complesso quanto ineludibile”. Non si tratta solo di legare la struttura fisica degli spazi, le fonti di luci, l’ampiezza o l’esiguità, la collocazione nel tessuto urbano o en plein air, l’azzurro del mare, le ombre severe delle montagne, si tratta invece di affermare con qualche sicurezza che lo studio con le sue caratteristiche è prima di tutto l’autoritratto dell’artista. 

  
La storia dell’arte e degli artisti è strettamente legata a questi sancta sanctorum che sono poi i luoghi di lavoro concepiti e risolti in una varietà infinita di sentimenti, gusti, desideri. Basta pensare a Claude Monet che nel 1874 dipinge su una barca per essere più vicino alla mobilità dell’acqua, coglierne i riflessi frammentando la luce in minuscole chiazze di giallo, verde rosa e nero. Avveniristica invece la visione di Kazimir Malevi,č che sogna “ci possano essere un giorno grandi città e studi di artisti contemporanei sostenute nell’aria da enormi Zeppelin”. Per Ardengo Soffici l’atelier deve essere “cabina radiotelefantastica aperta a tutti i messaggi”, mentre De Chirico confessa come secondo lui “l’atelier del metafisico ha dell’osservatorio astronomico, dell’ufficio d’intendenza di finanza della cabina del portolano. Ogni inutilità è soppressa, troneggiano invece certi oggetti che la scempiaggine universale relega tra le inutilità” (Flavia Matitti). 

  
Ogni artista nel realizzare il proprio atelier mette in scena – è il caso di dirlo – istanze e variabili infinite tutte però fortemente legate all’idea che lo spazio possa trasformarsi da semplice luogo di produzione fisica degli oggetti dell’arte in una sorta di laboratorio intellettuale, di fucina straordinaria in cui le idee nascono e dove il frutto della sensibilità e del pensiero possano prendere forma e forza fisica. 

  
Luogo concreto che sposa una condizione mentale, varcare la soglia dello studio per lo scrittore ed il pittore equivale forse al gesto di liberarsi dai vincoli della quotidianità. Così racconta per esempio Miró. “Entro nel mio atelier e sono avvinto da un magnetismo. Un tubo di colore per terra e mi attira, è necessario che lo apra, che cominci non importa che cosa. Avviene tutto da solo. Sono nella mia grotta”. Sintetizza Elisabetta Orsini: “Lo studio è dunque un’architettura dell’architettare, un pensatoio pensato per pensare, un oggetto propulsivo”. In alcuni artisti si verifica l’inversione dei valori tra la verità del mondo esterno che viene come cancellata e sostituita con l’unica porzione di autenticità da vivere solo all’interno dello studio. Scrive Alberto Giacometti: “Quando ho lasciato l’atelier e sono in strada allora più niente è vero di ciò che ho intorno”. 

  
Mentre tra Sette e Ottocento l’atelier ci viene offerto come lo stereotipo romantico della gelida soffitta per gelide manine, mansarda a poco prezzo, sottotetto scarsamente luminoso e malsano che per lo più rende tisici artisti e modelle, con l’affermarsi dello storicismo e dell’orientalismo gli studi si colmano di oggetti eterogenei sino quasi a dare l’idea di ambire a essere una via di mezzo tra teatro di posa, scenografia, operistica o sala da museo. Studi come Wunderkammer succubi dell’horror vacui e dell’affettazione imperante. 

  
Il Novecento con le sue avanguardie riporta lo studio a una concezione essenzialista, per lo più si tratterà di contenitori per elementi spartani utili solo come fonte d’ispirazione. Basta pensare alle immagini dell’atelier di Picasso e Braque al Bateau-Lavoir, all’epoca della rivoluzione cubista e alla collezione di sculture africane che saranno modelli diretti di opere epocali come le Demoiselles d’Avignon. 

  
Un’essenzialità che veniva da lontano, dal monachesimo intellettuale dei Nazareni e persino da Baudelaire che nel 1863, come ben ricorda Flavia Matitti, pochi mesi dopo la morte di Eugène Delacroix, in visita alla sua casa museo al sei di Rue Furstenberg a Parigi nota come “non vi erano panoplie arrugginite, né kriss malesi, né ferrivecchi gotici, né similoro, né ciarpame, né cianfrusaglie… solo un vasto spazio, dove una luce tenue e tranquilla creava un’aria di raccoglimento”.

  
I resoconti fotografici dello studio di Delacroix suggeriscono l’idea che l’immaginazione romantica di pittori e poeti possa nascere soltanto in contesti di povertà e di solitudine. Sono ambienti che vivono della loro essenzialità, come se l’eccesso di decorativismo e del superfluo fossero in grado di nuocere alla purezza e quindi alla qualità del risultato artistico. L’esempio più diretto di quest’ideologia prenderà vita negli anni Venti con l’atelier di Piet Mondrian in Rue du Départ a Montparnasse a Parigi, spazio che vorranno visitare scrittori ed intellettuali d’ogni sorta per poter forse vivere la sensazione di entrare in un’opera dell’artista olandese, gustare le rigidità geometriche e i colori primari di De Stijl. Pareti bianche con i toni potenti dei colori primari, rossi, blu, gialli. É la fotografia di Paul Delbo che nel 1926 documenta spazi e arredi di un atelier distrutto nel 1936 quando Mondrian si trasferirà in Boulevard Raspail prima di rifugiarsi a Londra e definitivamente a New York. 

  
Conviene allora affidarsi, quando si può, alla verità della fotografia che nel tempo ha documentato frammenti degli spazi che hanno ospitato le storiche avanguardie, le fantasie esotico-moderniste del futurismo, la Casa del Mago di Depero, l’esoterismo psicologista degli interni surrealisti e avanti sino ai giorni nostri, sino alla scomparsa pressoché totale del concetto di atelier, dissolto in pratiche nuove ed estroverse. Verso la metà degli anni Sessanta esplode  con l’irruenza di un fenomeno culturale epocale la cultura pop. Non è passato molto tempo dal 20 maggio 1964, giorno in cui le gigantesche ruote dell’aereo Globemaster C130 decollato dalla base militare McGuire in New Jersey, si posero stridendo sulla pista della base aerea di Aviano. Il prezioso trasporto ha almeno una doppia valenza. Si tratta di 99 opere di 9 giovani artisti americani, venuti per vincere la Biennale di Venezia e segnare, non solo simbolicamente, il declino della Scuola di Parigi e il dominio della ricca cultura estetica continentale. Non soltanto il mondo degli intellettuali manifesta l’ansia di conoscere i nuovi artisti e vagheggia dei loro ambienti creativi, del mistero ultramodernista della città che li genera e li ospita, del palcoscenico mediatico rappresentato da una New York ancora lontana e da interpretare. Il documento più intenso che ancora ci emoziona è di certo il lavoro fotografico che Ugo Mulas, indimenticato artista, la cui opera sarà poi raccolta in un raro album del 1967 New York, “Arte e Persone”, volume ricco di un coinvolgente testo di Alan Solomon direttore del Jewish Museum, personaggio che nel 1964 con Geoffrey Golf-Smith direttore dell’United States International Service di Venezia è tra gli artefici del clamoroso successo della Pop Art alla Biennale e in Europa.

  
Gli scatti in bianco e nero della camera di Mulas testimoniano con chiarezza come gli atelier e le opere degli artisti di questa nuova generazione rivelino l’abbandono della tensione alla severità dell’atteggiamento drammatico di outsider, tipico degli uomini dell’action-painting, rivelando fin dall’allestimento degli spazi una sorta di ricercata inclusione e accettazione della società contemporanea. Scrive Solomon: “Si entusiasmano per la musica del rock and roll, si interessano al cinema, alla televisione, ai quotidiani di massa e al gusto di massa rappresentato magari dalle carabattole in plastica dei grandi magazzini”. Pare che questi artisti non s’interessino più al jazz o alla musica classica o ai romanzi impegnati e considerino noiosissimo il teatro “legato a convenzioni arcaiche”. 

  
Lo studio si trasforma in un luogo destinato alla celebrazione di un rito intorno a un leader. Certo lo è nel caso della prima Factory di Warhol nella 41st East a New York, Andy è una maschera anonima “un feticcio d’argento circondato da pareti argentate con la luce che scivola leggera” come scrive Brian O’Doherty: “Warhol intrecciò il gioco di ruolo della discoteca con quella dell’atelier in un sogno fatto di lusso e superficialità”. 

  
Intanto curiosità e voyeurismo, non disconnessi alla disneyzzazione di tanta arte contemporanea, vuole riproporre il brivido dell’intrusione fisica di questi spazi esclusivi della creazione. Il viaggio lo si fa spesso come curioso compendio in ambienti ricostruiti con gli artifici elettronici ma, di gran lunga più convincente e redditizio, è il rifacimento fisico di atelier storici. Si deve innanzitutto annoverare la totale ricostruzione dell’atelier di Brancusi a Parigi messa in opera da Renzo Piano, operazione che ha dato il via “ad un processo di museificazione degli studi che non pare avere sosta”. Lo spazio leggendario dello studio di Francis Bacon a Reece Mews,  in South Kensington a Londra, quello che l’artista stesso aveva definito un “cumulo di compostaggio”, è stato ricostruito a Dublino sotto forma di attrazione turistica e quindi depotenziando totalmente il suo valore di tormentato luogo creativo. 

  
La feticizzazione di artisti e relative opere si è ormai da tanto tempo estesa all’artificiosa ricostruzione dei luoghi in cui hanno operato. In Italia non si può dimenticare la vetrinizzazione dello studio di Morandi a Bologna, a Parigi impressiona l’impossibile calda ricostruzione dell’atelier di Alberto Giacometti di Rue Hippolyte Maindron 46, quel luogo di cui Genet diceva: “Non avrà altra casa se non l’atelier e questa camera. Se è possibile li vorrebbe più modesti ancora”. Come scrivono Davidts e Paice nel loro saggio “The Fall of the Studio”, ben indagato dalla Zuliani, l’atelier è diventato ormai sin dagli anni Sessanta “un bersaglio per la critica”. Non si tratta in realtà di abbattere solo l’aura eroica considerandolo inutile reiterazione del rifugio romantico ed esclusivo della creatività artistica, quanto piuttosto di indicare l’odierna infinita possibilità dei luoghi di lavoro alla luce della miriade di poetiche messe in atto dalle ideologie figlie dell’iniziale everything goes, quel tutto va bene scatenato dal pensiero postmoderno.

  
L’affrancamento dai recinti murari degli atelier parte da lontano, se persino un artista come Robert Smithson già nel 1968 dichiarava: “l’emancipazione dai confini dello studio libera in parte l’artista dalle trappole del mestiere e dalla schiavitù della creatività”. Si pensi intanto alla pratica corrente di produrre opere site-specific per capire che la messa in scacco dello studio è un fatto compiuto che abbraccia persino l’avvenuta crisi degli spazi espositivi tradizionali: i musei. 

 
Le opere saranno multimediali, intermediali, transmediali e crossmediali, private della possibilità d’essere assemblate all’interno degli atelier. Vedi la complessità dimensionale dei “Sette Palazzi Celesti” di Anselm Kiefer o il gioco scenografico di “Carne y Arena” di Iñárritu. 

 
Nessuna necessità di atelier per Orlan, nota per le sue ricerche post-organiche, che usa il tavolo operatorio come studio in cui si sottopone a rifigurazioni chirurgiche per modificare il suo aspetto, includendo protesi, proiettando in video gli interventi e persino conservando, in quelli che definisce “reliquiari”, i resti delle operazioni chirurgiche. Per Orlan il tavolo chirurgico: “C’est un atelier d’artiste”. 

  
Siamo all’arte della “generazione Google” come dice allegramente Hahan che da Yogyakarta, in Indonesia, soltanto attraverso il suo computer, vende nel mondo frammenti digitali della propria opera “Speculative Entertainment N°1”  e molto altro. E di certo non necessiterà di studio l’artista digitale Beeple, milionario antesignano dell’invadente arte immateriale, l’era degli Nft, dei token crittografati e delle vendite attraverso blockchain e smart contracts. Si vendono insomma lunghe sequenze di numeri compresse con un processo chiamato hashing, lo stesso delle criptovalute. Ma le trasformazioni dell’atelier sino alla sua scomparsa son dovute spesso alla creazione collettiva o alla delega delle opere d’arte a persone e strutture terze, lontane dall’artista e persino dal suo diretto controllo. 

 
Marta de Menezes, artista portoghese, ha davvero un atteggiamento radicale nel proporre “una nuova forma d’arte, un’arte creata in provetta, che usa i laboratori come atelier”. La sua poetica ci spinge ad esplorare il confine tra naturale ed artificiale. Dice: “ho creato delle farfalle le cui ali presentavano motivi modificati per ragioni artistiche”. La Menezes parla di artisti che spesso utilizzano il Dna, i geni e i cromosomi per creare opere concettuali provocatorie. “Ho utilizzato le tecniche della biologia cellulare per disegnare alcuni motivi nel nucleo di cellule umane grazie a delle sonde di Dna marcate con dei fluorocromi.” 

 

  
Salotto, mansarda, alcova, vetrina e negozio, factory o tavolo operatorio, scrivania o white cube, l’atelier dà l’idea di aver orchestrato in qualche modo il proprio tramonto con la malinconia di tutto ciò che racconta la propria scomparsa prima di lasciarci fisicamente.  Proprio questo vuoto ritenuto incolmabile sembra però colorarsi di luci pulsanti provenienti dal più che confuso pianeta arte. Si fanno avanti generazioni più nuove provviste di pensiero, ricerca di profondità a confronto dei giochi di superficie e del clima edonistico e cinico che traspare persino dietro il vano tentativo di riportare l’Artworld verso l’impossibile ritorno al passato, tribolato anche dallo sconquasso pandemico.

  
Più che mai attuale il desiderio di poter vivere nuove, più autentiche stagioni culturali fatte di progetti, teorie, gioia e meditazione. Pensiero e azione, sostanze ideali da progettare e mettere in pratica forse proprio all’interno di nuovi atelier-laboratorio, quelli che presto immancabilmente riappariranno. Post fata resurgo.

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