IL FOGLIO DEL WEEKEND
Il nuovo romanzo di Piperno, dove nessuno è colpevole e siamo tutti impostori
Nella sua ultima opera, l'autore di "Con le peggiori intenzioni" si infila nella colpa e nelle bugie, le smaschera e le perdona. Ognuno è mosso dal desiderio di essere qualcosa di più. A costo di rinnegare tutto e poi rimpiangerlo
Di chi è la colpa, e già vorrei dire che non è mia. Di chi è la colpa, il titolo del nuovo romanzo di Alessandro Piperno, appena uscito per Mondadori, è il nodo alla gola dell’età adulta, ma inizia prima, molto prima, a occupare i pensieri, le notti, a togliere l’innocenza ai bambini. Attraverso i desideri, esauditi o negati, ma soprattutto attraverso le azioni e le frustrazioni dell’universo primario, quello dei genitori. Arriva e afferra molto prima di buttare giù madri e padri dal trono d’oro, prima di accorgersi che non sono dei e che se fanno casino, se fanno disastri, sono solo i loro disastri, i loro litigi, le loro incapacità: ma quel senso di colpa accade in realtà forse per sempre, nell’eterna ripetizione dell’identico. A meno che.
A meno che il desiderio, e la fantasia, e fortuna e sfortuna insieme, spezzino la catena e offrano una nuova possibilità: una nuova recita. Alessandro Piperno ha scritto un grande romanzo sulla colpa e sulla forza vitale e spietata dei desideri, sulla perdita dell’innocenza e la scoperta del mondo attraverso le infinite possibilità di impostura. “Scagli la prima pietra chi di voi un giorno non si è trovato a dover recitare una parte! Recita la mamma intonando la ninna nanna al bimbo (eccola scrutarsi da fuori, soddisfatta nel percepirsi madre modello). Recita il fumatore di pipa, il masticatore di chewing gum, il patito di Ray-Ban a specchio. Recita il giudice che condanna un uomo all’ergastolo, e perfino il neo ergastolano gridando la propria innocenza. Recita il martire che si fa esplodere in una piazza gremita e il clochard riverso sul sagrato della chiesa”. Le imposture (e dunque le avventure, nel modo in cui anche Charles Dickens considerava le avventure) sono quelle di un ragazzino che vuole disperatamente sentirsi fico, ma sono anche le imposture di una madre che vuole cancellare il suo passato, le imposture di un seduttivo zio del bel mondo, le imposture di un padre che simula una storia eroica di cui vorrebbe essere protagonista ma che lo insegue in realtà soltanto attraverso debiti, fallimenti, fino alla grande, terribile accusa e terribile colpa.
O forse no: perché quando arriverete alla fine di questo libro, forse divorando le pagine come ho fatto io, o forse assaporandole come sarebbe più sensato (ma la libertà di leggere come vogliamo non può mai essere giudicata, e io corro per la curiosità e la gioia di farlo), quando volterete l’ultima pagina, non saprete più dire chi è il colpevole, e soprattutto se esiste. Chi è il cattivo, di chi è la colpa. Non è mai così semplice. Avrete fatto molti giri di giostra dentro la vita, esteriore e interiore, di un ragazzino adolescente e introverso, “un cacasotto”, che diventa un uomo attraverso un totale cambio di vita e anni di impostura, e che dopo aver cercato a lungo di non guardarsi indietro, non può fare a meno di riconsiderare la sua storia, la storia di tutti, con una nuova pietà e un dolore acquietato. Di chi è la colpa, forse di nessuno. Di chi è la colpa, e intanto si vive, ci si strugge per una ragazza, si indossano abiti nuovi, si conquista ciò che sembrava inaccessibile, si rinnega quello che non è utile al proprio sogno, si finge di essere felici e ci si costruisce uno stile, un contegno. Lo stile è una menzogna, un artificio, una costruzione, ma non mente mai. Nella scrittura e nella vita.
Così il protagonista del romanzo di Piperno, l’io narrante, che non ha un nome forse perché è “everyman”, ma anche perché ha cambiato identità, ha cambiato cognome, ha acquistato perfino un nom-de-plume israelita (succedono così tante cose in questo romanzo che adesso è facile incuriosire il lettore, accennandole soltanto senza rivelarle), acquista il suo stile, il suo contegno nel nuovo mondo in cui si trova ad avere diritto, e scopre che gli viene naturale, perché l’ha tanto, troppo desiderato. Da quando ha smesso di considerare il padre il grande eroe della sua infanzia, genitore epico che ha tutto sotto controllo e lo porta al mare invece che a scuola, che gli fa vedere di notte un certo film di Elvis Presley, regalo di Natale anticipato e clandestino, l’uomo capace di trasgredire con allegria alle inflessibili regole materne, da quando insomma vede quell’uomo ingrassato e assediato dai debiti e dalle figuracce nel modo in cui forse adesso lo vede anche sua madre, e di certo l’affascinante e ricco zio, questo bambino tremebondo e affettuoso, tenuto all’oscuro dei segreti di famiglia, super protetto ma non abbastanza protetto, fa una cosa gigantesca, che è il contrario dell’innocenza: passa dalla parte dei vincenti. Abbandona chi perde.
E’ troppo forte il desiderio (il diritto?), la seduzione del mondo luccicante e disinvolto, l’esatto contrario della sua goffaggine di adolescente: quella scintilla si sprigiona una sera, a una cena di Pesah, la cena che conclude la Pasqua ebraica. Il bambino che non sapeva di essere ebreo, non sapeva che sua madre lo fosse e conosceva un’unica storia, quella di amore coniugale e litigioso dei suoi genitori, la stanza buia con il letto matrimoniale dove non aveva il permesso di entrare, osserva adesso pieno di stupore, fascinazione e inadeguatezza l’ingresso in scena, uno dopo l’altro, dei personaggi che gli toglieranno il fiato e il sonno per il resto della vita. A cominciare dal portiere dello stabile signorile dove si svolge la riunione famigliare, per finire con la cugina che gli farà perdere la testa, passando per una lontana parente detta Myriam la stracciona, ricchissima e taccagna, che ogni inizio mese sale in autobus e batte tutta la città, vestita di stracci appunto, per riscuotere di persona gli affitti. Quanto sono interessanti gli esseri umani, i loro tic, le battute, le seduzioni, le schermaglie, i vestiti, perfino gli occhiali che indossano per recitare al meglio la propria parte.
Il tentativo continuo di salvarsi, di mostrare all’altro che non è colpa sua, che c’è un capro espiatorio lì vicino, vicinissimo, pronto all’uso. E’ colpa di mia madre, che è troppo bella, troppo borghese. E’ colpa di mio padre, che è un fallito. E’ colpa della mia famiglia, così ipocrita. E’ colpa di Israele. E’ colpa tua. Ognuno è a suo modo un impostore, e ognuno si affanna a sembrare quello che non è, o che ancora non è. Quella sera indimenticabile, grazie a una serie di fuochi d’artificio e piroette di questi personaggi, e grazie a una scrittura così tridimensionale e densa da offrirci lo spettacolo tutto intero, in prima fila ma allo stesso tempo dal buco della serratura, “everyman”, attonito e entusiasta, scopre anche che si può andare in vacanza a New York. Scopre che si parla in un certo modo, che ci si annoia in un altro modo, che suonare la chitarra è una risorsa sociale e che l’importante è fare colpo, mostrare di avere personalità. Scopre che esiste sempre un pubblico, e che con il pubblico bisogna misurarsi. Scopre anche, o forse lo scopriamo solo noi che leggiamo, che l’invidia è un sentimento sacro, perché spinge in avanti e perché contiene in sé l’ammirazione. “Mai avrei creduto che il calore, l’intelligenza, la curiosità fossero così sexy; e l’indifferenza, la stupidità e il cinismo tanto muti”.
Ora devo fermarmi, per non rischiare di rovinare lo stupore di chi legge: gli accadimenti successivi sono importanti e meritano la sorpresa. Ma questo ragazzino che vibra di curiosità e porta con sé lo stupore di Dickens e le notti disperate di Proust, mentre assiste al disastro umano prendendovi parte e costruendosi uno stile, un egotismo e un disincanto, continuerà in fondo sempre a cercare senza ritrovarla la felicità del tempo perduto, quando era tutto ancora intero. Quando nessuno era colpevole e lui pendeva dalle labbra di suo padre.
Questo è un romanzo classico, che omaggia George Eliot di amore letterario omaggiando Francesca, la cugina amata e detestata: è lei che quando esce di casa per un appuntamento si ficca in tasca un libro di George Eliot, perché “Non si sa mai”. Non si sa mai, è esattamente quello che succede nel libro. Non si sa mai è la fiducia nelle sorprese dell’esistenza, e nelle decisioni inaspettate. Non si sa mai è fidanzarsi un giorno con la ragazza che si sognava da lontano, che non si osava avvicinare, grazie a una bugia. E non esserne nemmeno felici. Non si sa mai è anche il perdono che, alla fine, forse, meritiamo tutti. Per le meschinerie, le menzogne, per non avercela fatta o per avercela fatta troppo bene. “Ci risiamo, mamma. Tu e le tue stronzate. E’ per questo che ti piaccio? Perché ti somiglio? Rigo dritto, faccio le cose per bene, armato del necessario stoicismo e di un forte senso della dignità. Quindi basta questo a fare di me un individuo rispettabile, un onesto cittadino del mondo. E’ questo che mi stai dicendo? E le balle, allora?”.
Quali balle, scusa? “Le cazzate che raccontiamo. L’orgoglio che ci spinge a concepirle. L’ipocrisia che ce le ispira. Vivere senza dire la verità agli altri, omettendola. Chissà perché poi. Per vergogna, forse?”. Le bugie sono un’ossessione, così come i continui smascheramenti. Si balla sempre sull’orlo del baratro, anche una gita in campagna può diventare un thriller con rivelazione finale. In gioco c’è sempre l’idea di noi che hanno gli altri, e quel che facciamo per continuare la recita. Ma più di tutto, più dell’impossibilità di salvarsi, quello che conta la passione per la vita. Per il rumore che fa, per tutte le luci di New York, le promesse e i segreti. Per quel capirsi male e girarsi le spalle per anni, e costruirsi milioni di alibi. E poi un giorno, anche troppo tardi, cambiare idea.