L'appartenenza politica senza sfumature nel romanzo amaro di Pierluigi Battista
Più che un romanzo La casa di Roma è il fallimento del tentativo di un romanzo. Dentro è possibile trovare il desiderio di riconoscersi in qualcosa, una famiglia divisa e la colonna sonora di un'intera generazione
Gli esseri umani, così padroni assoluti del mondo che lo stanno distruggendo, sono sostanzialmente, profondamente fragili e spaventati. Per fragilità, per paura, si uniscono in famiglie, in bande, in partiti, in movimenti, fanno propria un’idea e la perseguono tenacemente, acriticamente, individuano un nemico da combattere e gli si oppongono. “Ciecamente amiamo distruggere”, scriveva Cyril Connolly, in arte Palinuro, ne La tomba inquieta, apparso da Adelphi nel ’95.
Mi è tornata in mente quella frase leggendo il nuovo romanzo di Pierluigi Battista, La casa di Roma (Nave di Teseo, 292 pp., 19 euro), che ruota intorno al desiderio di appartenenza e all’incapacità di almeno uno dei protagonisti – Raffaello – di riconoscersi in qualcosa, fosse la propria generazione o la propria tribù di fratelli, genitori, zii, finendo col distruggere ogni relazione e ritirandosi “sconfitto nel suo eremo vicino a Sorano”. Ho detto “romanzo”, ma sapientemente Battista si sottrae alle derive di un genere a cui è sempre più difficile dare struttura tradizionale – senza pagare lo scotto di un epigonismo di giorno in giorno più fiacco – raccontando in realtà il fallimento di un tentativo di romanzo. Quello dello sceneggiatore trentenne Marco Grimaldi che vorrebbe ricostruire la storia di famiglia per narrarla in un libro e per farlo stimola in uno scambio epistolare la madre Anita e lo zio Raffaello, che hanno fra loro rapporti freddi quando non ostili. Li stimola a “dire la verità” su vecchi aneddoti familiari e nuovi risentimenti, finendo per acuire i dissidi e non venendo a capo di nulla. E’ un libro amaro questo La casa di Roma, che sarebbe poi “Villa Caterina”, un villino del quartiere verde e borghese dei Prati, in via Orsini, fra viale Mazzini e il Tevere. Luoghi che appartengono strettamente all’autore come, è l’impressione, tanti dettagli delle cose narrate, galleria di persone spinose e di vittime designate, come il bel ritratto della svagata zia Teresa dagli “occhi incredibilmente orientali”, un tipo “faccio cose, vedo gente” che morirà come la Bachmann, bruciata da una sigaretta e troppe sostanze ingerite.
Ma mi rendo conto che sto glissando sulla parte centrale di questa narrazione, sulle divisioni tra fascisti e comunisti nella stessa famiglia trasmesse da una generazione all’altra, dai tempi di Mussolini a quel periodo che va sotto il nome compresso in un unico anno di ’68, e che si estese in realtà fino alla fine degli anni Settanta. Periodo che pretendeva lo schieramento, l’appartenenza: stare da una parte o dall’altra, senza sfumature. E su queste divisioni la famiglia Grimaldi si sfalda ulteriormente e i due tronconi, sistemati su piani diversi di Villa Caterina, finiranno per non poter più convivere a una distanza tanto ravvicinata… Ma intanto ecco le manifestazioni e gli slogan arrabbiati, ecco “i burocrati della ribellione predicata e mai praticata”, le camionette della polizia e i morti da una parte e dall’altra.
A ripensarci adesso sembra tutto inconcepibile. Ma il sangue era vero sangue, la morte vera morte. Il tutto con colonna sonora dal festival di Woodstock a quello del milanese Parco Lambro, “grottesca parodia”, commenta acido Raffaello in pagine finali testamentarie. Eppure forse, se qualcosa si può salvare di quegli anni pretenziosi e confusi, è proprio la musica, che accompagna questo libro con epigrafi tratte da Guccini e Paolo Conte, De Gregori e Dalla e i Negramaro e Caterina Caselli, e Patti Pravo e Battisti e naturalmente Morandi… E sopra tutti i Beatles, quando una giovanissima Anita scappa di casa per andarli a sentire al Teatro Adriano, ammantandosi di gloria agli occhi del figlio che avrà, Marco, il narratore. Sì, la colonna sonora di una generazione. Né migliore, né peggiore di tante altre alla fine, e che in fondo ha conosciuto anche la leggerezza, come testimonia Raffaello nei suoi irresistibili elenchi finali delle dieci cose che nei vari campi, letteratura, cinema, vita privata… gli sono piaciute di più.