il libro
Sarà pure un'apologia, ma il ritratto di Foucault fa pensare al contrario
Pretende di trattare la storia senza mostrarne la continuità dialettica, e quindi "sostituisce il cinema con la lanterna magica, il movimento con una successione di immobilità”. La biografia scritta da Didier Eribon.
Nell’ultimo mezzo secolo, le quotazioni di Michel Foucault sul mercato culturale sono rimaste sempre molto alte. Lo si può verificare anche oggi: quando si parla di identità di genere o di gestione biopolitica della pandemia, il suo nome viene citato di continuo. Non è chiaro, però, se le sue sonde concettuali illimpidiscano o confondano le acque. Fin dalla “Storia della follia” (1961) e dal suo bestseller “Le parole e le cose” (1966), Foucault gioca a nascondino muovendosi tra fatti e suggestioni, tra epistemologia positivista e voli nietzschiani. Il suo procedimento più tipico consiste nell’addobbare uno schema concettuale piuttosto rozzo con documenti tratti dagli ambiti più diversi (giuridici, medici, estetici).
Così intimidisce il lettore, che credendo a un’erudizione smisurata si beve la tesi di fondo e le interpretazioni assai discutibili dei testi portati a sostegno. Alla fine l’autore non ha dimostrato quasi niente; ma ha suggestionato un certo tipo di pubblico, e ha contagiato i colleghi con la sua maniera capziosa di argomentare. In questo senso, Foucault non è mai citato a sproposito: dalle sue pagine, infatti, si possono ricavare spunti per qualunque tema, perché non oppongono resistenza. Ma non si può negare che nella sua opera spicchi un motivo dominante. Foucault indaga le zone d’ombra proiettate dalla luce della Ragione moderna, che tende a criminalizzare o medicalizzare le esperienze che la ostacolano. Più in generale, tenta di definire i modi in cui “l’episteme”, ovvero la visione del mondo inconscia e diffusa di un’epoca, condiziona l’intero campo dei saperi ed esclude certi fenomeni dal suo orizzonte. Ma se si gratta via lo stile fantasmagorico, questi a priori foucaultiani si rivelano troppo simili alle categorie del vecchio storicismo. Nel 1961, davanti alla sua tesi di dottorato sulla follia nell’età classica, il presidente della commissione Henri Gouhier fece a Foucault alcune critiche che si possono estendere ai libri successivi.
Gouhier lo accusò di proporre una “sociologia mitizzante”, e di pensare per allegorie che implicano “una sorta d’invasione metafisica nella storia”: “La Follia è personificata, si evolve attraverso concetti mitologici: il Medioevo, il Rinascimento, l’Età classica, l’Uomo occidentale, il Destino, il Nulla …”. Trovo queste critiche nella biografia di Didier Eribon “Michel Foucault. Il filosofo del secolo”, uscita ora in Italia per Feltrinelli. È un ritratto apologetico, ma come si vede fornisce il materiale per farsi un’idea diversa. Oltre al parere di Gouhier sugli esordi di Foucault, resta impresso quello di Sartre su “Le parole e le cose”. L’anziano re del pensiero francese, sul punto di essere detronizzato, osserva che il suo giovane avversario non spiega come si passa da episteme ad episteme: pretende di trattare la storia senza mostrarne la continuità dialettica, e quindi “sostituisce il cinema con la lanterna magica, il movimento con una successione di immobilità”.
Del resto, Foucault non spiega nemmeno il cambiamento di quei mini-epistemi che sono i suoi paradigmi. Curioso: un pensatore che vuole demistificare la storia e ritrovare le genealogie nascoste, quando si tratta della propria è un mistificatore di prim’ordine. A posteriori cerca di mettere il suo comunismo giovanile sotto il segno di Nietzsche, poi cancella le tracce del suo strutturalismo, infine si smarca dai maoisti dopo avergli dato corda (i filosofi francesi esaltano la metamorfosi continua e non vogliono che il loro pensiero sia sottoposto a una morale da stato civile, ma in realtà sono preoccupatissimi della propria figura pubblica). Il fatto è che Foucault si becca tutte le febbri di moda, e come ha ben detto Mandosio, le sue prese di coscienza sono sempre “a scoppio ritardato”. Un caso clamoroso è quello del suo entusiasmo per Khomeini, lodato con termini da giornalista di regime di fronte ai quali ci si chiede a cosa siano servite tante lambiccate analisi foucaultiane su potere e linguaggio. Come in altri autori della French Theory, tutto forse dipende da un rapporto sbagliato tra biografia e filosofia. Non c’è dubbio che molti dei temi di Foucault gli siano suggeriti da forti esperienze personali (la paura dell’esclusione, la malattia, il sesso); ma la relazione tra questa radice e le formulazioni accademiche non viene discussa. Così il suo fantasma riappare in un estremismo verbalistico che non è commisurato alla vita reale. Eribon ricorda un aneddoto significativo. Nel 1972, in una cittadina francese, per l’omicidio di una sedicenne il giudice istruttore incarcera un notaio legato alla compagnia delle miniere di carbone. Gli tolgono l’inchiesta, ma gli operai lo sostengono. I maoisti parlano di crimine “borghese”. Foucault, che anziché i tribunali proletari esige direttamente i linciaggi, va sul posto, liricheggia, e sostiene che basta vedere i luoghi per sapere che il colpevole è il notaio. Quattro anni dopo confesserà a un amico che si era sbagliato: “avevo subito elaborato tutta una teoria…”. Non è proprio così che ragionano, alcuni noti filosofi del 2021?