Édouard Manet, Mazzo di asparagi (1880); olio su tela, 46×55 cm, Wallraf-Richartz-Museum, Colonia (Wikimedia commons) 

Dettagli naturali

L'orto letterario. Il poteri dei simboli nei libri e nelle storie

Gaia Manzini

Gli asparagi di Proust, la mela dei fratelli Grimm, le albicocche di Emma Bovary.  Ogni frutto espande la pagina oltre i suoi confini, evoca significati altri, fino a dare ai personaggi sfumature e caratterizzazioni psicologiche

Creature in forma di ortaggi. Il gambo rosato, spruzzato di viola e di azzurro, con qualcosa di terreno e di celestiale in quelle sfumature d’arcobaleno: sono gli asparagi, lunghe e delicate presenze sulla tavola di Marcel Proust. Da dove sia nata la passione dello scrittore per l’asparago non si può sapere con esattezza, non si sa se si tratti di gusto personale o ci siano altri riferimenti. Ma forse si possono tentare dei percorsi. Nella Colazione dei canottieri, capolavoro dipinto da Pierre-Auguste Renoir nel 1880-81, i piccoli movimenti evocati dagli atleti seduti al tavolo sotto la tenda a strisce bianche e rosse sembrano convergere per un gioco di prospettiva verso una figura sullo sfondo, una figura che con la scena informale in primo piano sembra entrarci poco. L’uomo in nero con la tuba sta parlando con un giovane in giacca. Il suo viso è colto di sfuggita, ha un accenno di barba. Chiaramente non è un atleta, non è lì per svago. È lì, dipinto tra gli altri, in forma di omaggio. È Charles Ephrussi. Ephrussi si era trasferito da Odessa a Parigi appena ventenne. Era figlio di banchieri e amava l’arte. Amava soprattutto gli impressionisti e aveva iniziato a collezionarne le opere, che appendeva alle pareti del grande appartamento nell’albergo parigino di sua proprietà dove era solito organizzare, insieme al fratello Ignazio, cene e ricevimenti.

 

La colazione dei canottieri, nella quale compare sullo sfondo, torna tra le pagine della Recherche: nel romanzo di Marcel Proust è attribuita a Elstir ed è un quadro della collezione del duca di Guermantes. Ephrussi è stato una figura letteraria, per il suo gusto estetico, la sua mondanità ed eleganza. E qui iniziano altri parallelismi. Swann, il protagonista del capolavoro di Proust, progetta di scrivere un saggio su Vermeer; Ephrussi scrive un saggio su Dürer. E ancora, Ephrussi era un amico di Manet. Il pittore un giorno gli fa recapitare un piccolo dipinto (17x21 cm), al centro è ritratto un asparago, ed è accompagnato da un biglietto: “Ne mancava uno al vostro mazzo”. Nel 1880 Ephrussi infatti aveva commissionato al pittore un quadro. Desiderava una natura morta da aggiungere alla sua collezione: un bel mazzo di asparagi che con semplicità avrebbe attirato l’attenzione dei suoi ospiti. Si dice che Charles Ephrussi, insieme a Charles Haas frequentatore dell’aristocrazia più esclusiva e del Jockey Club, sia stato per Proust uno dei modelli sui quali costruire la figura di Charles Swann.

 

Ma torniamo agli asparagi: a Combray (dov’è ambientato Dalla parte di Swann, primo volume del ciclo di Proust), quell’anno si mangiarono tanti asparagi, solo asparagi, ortaggi meravigliosi capaci di rammentare a tutti la loro presenza anche il giorno successivo, con quell’inconfondibile odore – profumo a detta di Proust – che promana dai vasi da notte. Françoise, la cuoca, lasciava che a “spiumare” tutti quei gambi fosse la servetta. Una giovane mite e incinta, sempre affaticata e con l’aria malaticcia, che ricordava una figura di Giotto. Nonostante il ventre gonfio, la cuoca le affidava ogni sorta d’incombenza, tra cui quella di pulire tutti gli asparagi, ben sapendo che la ragazza era allergica all’ortaggio tanto ammirato. La letteratura si fa con i sensi, con i dettagli che si vedono, si toccano, si possono gustare e odorare. Sono i dettagli a espandere la pagina oltre i suoi confini, a evocare significati simbolici, a dare ai personaggi sfumature e caratterizzazioni psicologiche. A dire senza dire esplicitamente. La cuoca, conservatrice più dei suoi padroni, sfida la giovinezza, l’ingenuità, la rinascita in ogni sua forma, con le piccole lance eleganti degli asparagi – lì a dire della doppiezza che si nasconde in ogni cosa, anche quella apparentemente bella o innocua.

 

La freschezza del dettaglio naturale accompagna la narrazione dell’umanità fin dagli albori. Certo, la Genesi. Certo, la mela. La mela che immaginiamo rossa come un enorme rubino, tonda come il mondo, pulsante come un cuore, bellissima nonostante il suo colore suggerisca un pericolo, al quale però non riusciamo a sottrarci. Non si sottrae Adamo nel Paradiso Terrestre, ma non si sottrae neanche Biancaneve, anche se ad allungargliela è una strega rugosa e inquietante. La mela è tentazione, irragionevole cedimento, prevalere dei sensi sulla ragione. Certo. Ma nei libri – e nella vita – si può giocare con gli immaginari condivisi per piegarli, declinarli, verso nuovi significati. In un bel racconto di Amy Hempel, maestra americana della short story, una donna fa il punto sulla sua vita coniugale. L’amante del marito è una certa signora Greed, donna di particolare gaiezza e allegria nonostante l’età: più che una puttana, una libertina, almeno nell’opinione condivisa.

 

La signora Greed è molto più vecchia del marito della voce narrante, tanto che spesso i due si rammaricano di non essersi conosciuti prima, in un prima quando lei probabilmente sarebbe stata più giovane e non ancora sposata. Quando si danno appuntamento di nascosto, tuttavia, la moglie se ne accorge subito. “Una cosa tra loro due: mele verdi. Mai rosse, sempre verdi. Sapevo quando mio marito aveva intrattenuto la signora Greed perché un trio di cestini in cucina si riempiva di lucide mele verdi. Mio marito sosteneva di trovarle belle; non l’ho mai visto mangiarne una. Appena cominciavano a diventare molli e marroni, le buttavo via”.

 

Poi però, i cestini ritornano a riempirsi. Non sono mele che si mangiano quelle di questo racconto: sono una tentazione abbondante, ma estetica; un appagamento intellettuale, intensissimo, ma a una temperatura diversa dal solo piacere dei sensi. Al fedifrago, la signora Greed ricorda sua madre; ci tiene a rimarcarlo spesso, come a dire che il loro è un amore diverso, precedente a tutti gli altri: la ricerca di un’origine. A mangiare le mele, a divorarle per cancellare l’offesa e l’umiliazione, è la moglie seduta sui gradini di casa. Ogni torsolo buttato lontano tra i cespugli, la mattina viene però ritrovato sui gradini. Ci sono immagini che non ci lasciano, che continuano a tormentarci, che hanno sempre e ancora bisogno di un aggiustamento di senso. C’era un uomo molto anziano una volta (o forse si tratta di un personaggio letterario: i due piani si sovrappongono e confondono spesso nei miei ricordi) che quando qualcuno gli regalava delle mele acerbe si metteva a imprecare, se non a piangere.

 

Amava le mele, amava il loro sapore fresco e dissetante, ma ogni mela acerba diceva del tempo che gli stava sfuggendo dalle mani, che si stava esaurendo: non poteva aspettare che maturassero, ogni mela poteva essere l’ultima e lui voleva assaporare la vita subito, ancora una volta, senza dover aspettare un solo giorno. La mela cambia le cose, sovverte un sistema, la mela è rivoluzionaria. Isaac Newton sonnecchiava sotto un albero quando venne svegliato da un frutto maturo che gli era caduto sulla testa. Nella biografia di Newton scritta dall’amico William Stukeley c’è il ricordo esatto di quell’aneddoto che abbiamo sempre creduto leggenda. Il frutto non è caduto in testa allo scienziato, probabilmente a pochi passi da lui, ma è stato comunque il motore scatenante che ha portato alla formulazione della legge di attrazione universale.

 

E ancora, la mela di Touring, padre dell’informatica moderna. Si dice si sia suicidato usando una mela avvelenata come nella celebre fiaba. Con questi aneddoti, siamo fuori dalla letteratura, ma non dal valore simbolico dei dettagli. Quando Steve Jobs decise di inventare un marchio per la sua azienda, lui che ha saputo creare negli anni uno dei più efficaci racconti di brand, ha tenuto conto di tutte le narrazioni che la mela portava con sé (senza dimenticare che la mela dava forma anche al marchio dalla Apple Records, la storica casa discografica dei Beatles, con la quale infatti ci fu una disputa legale durata trent’anni). Steve Jobs scelse la mela perché è il frutto più domestico, quello che più accomuna le vite di molti di noi, che mette in moto il nostro desiderio. Ma qui è il desiderio di una radicale rivoluzione del quotidiano – di fatto la tecnologia negli ultimi trent’anni ha completamente ridisegnato la nostra vita lavorativa, domestica, relazionale. Eccola lì la Apple, la mela multicolore (almeno nella versione originaria), una mela un po’ hippie contro il grigiore della East Coast e della Grande Mela Manhattan; una mela che ci ha trasformati, purtroppo o per fortuna, in uomini contemporanei.

 

La mela e la pera è una serigrafia tratta dalla Serie della natura del grande designer italiano Enzo Mari: una collezione che ha segnato profondamente la cultura pop italiana e mondiale. Una mela rossa, una pera verde, idee platoniche di entrambi i frutti. Riflessione su come i soggetti naturali possano trasformarsi in un simbolo o in un segno ripetibile. Ma torniamo alla letteratura. Torniamo a Emma Bovary e al suo cesto di albicocche. Le arriva in dono la mattina del giorno in cui dovrebbe scappare con il suo amante, con Rodolphe: l’amore che l’ha resa audace, che l’ha trasformata, annullando per anni la monotonia della vita di provincia. Il frutto non è scelto a caso. Che sensazione si prova quando si accarezza un’albicocca? Il velluto sotto la pelle, il sospetto che – almeno nel suo presentarsi al tatto – sia qualcosa di più di un frutto. Richiama la sensualità femminile. Emma, seduta davanti alla cesta che le ha fatto recapitare l’amante, probabilmente rievoca il suo stesso piacere, la passione che l’ha fatta rinascere. Che è molto più di pomeriggi amorosi e baci appassionati: il desiderio è il motore delle nostre vite, ci proietta fuori da noi stessi, ci consente di alzare lo sguardo. Il desiderio è sempre voglia di un posto nel mondo.

 

Ma gli scrittori sono spesso crudeli con le loro creature: albicocca dopo albicocca, c’è qualcosa che non torna. Perché quel cesto è lì tra le mani di Emma quando lei e Rodolphe tra pochissimo dovrebbero fuggire insieme? Sul fondo della cesta c’è un biglietto: è una lettera d’addio, che rivela tutta la doppiezza dell’ardore. L’ardore non era la prefigurazione di un amore romantico destinato a durare una vita, come l’ingenua Emma Bovary pensava; l’ardore era solo albicocche, bellezza della sensualità; meraviglia della natura. Rodolphe non partirà con lei e lei non lo rivedrà mai più. E il succo d’ananas che mescolato al gin beve sempre Humbert Humbert? Che sensualità c’è nell’ananas? Forse solo l’infantilismo di un gusto dolciastro e tropicale, estensione dell’esotico come inusuale, azzardato, strambo, rischioso, avventuroso, qualcosa capace di inventarti daccapo come la sola vista della giovanissima Lolita.

 

Il cocktail, nella sua mescolanza dell’adulto gin all’innocente ananas, è già la prefigurazione di quello che avverrà. Se Gregor Samsa deve accontentarsi di verdura quasi marcia, come ogni scarafaggio che si rispetti, al nonno di Archie Ferguson, protagonista dell’ultimo romanzo di Paul Auster, 4321, tocca la sorte opposta. Il nonno di Ferguson partì a piedi da Minsk, sua città natale, con soli cento rubli cuciti nella giacca, attraversò la Polonia, arrivò a Berlino e da lì giunse ad Amburgo dove si imbarcò sulla Empress of China. Sbarcò a New York il 1 gennaio del 1900 e si ritrovò ad Ellis Island, dove si aveva l’impressione che gli immigrati fossero trattati come scarafaggi, ma a lui non importava. Nessuno capì il suo nome russo e da quel giorno fu Ichabod Ferguson. Scappare da casa propria, trasferirsi in un altro continente che è come un altro mondo, essere una persona nuova con un nuovo nome e una vita da inventare da capo, ma con un’unica certezza. Il suo primo pomeriggio a New York, un posto così strano e diverso da tutto quello che aveva visto fino a quel momento, Ichabod vede qualcosa che conosce bene: le mele.

 

Le più belle, le più rosse e splendenti che abbia visto fino a quel momento in tutta la sua vita. La mela che si porta dietro la familiarità col desiderio, la quotidianità della tentazione, l’idea stessa di sentirsi esseri umani così legati alle stesse esigenze. Ichabod vede le mele, sono esposte sulla bancarella di un ambulante. “Incapace di resistere, ne comprò una e l’addentò con ingordigia”. Ma lì il dettaglio inverte la rotta. C’è qualcosa di strano in quella mela. Nessuna traccia della dolcezza già pregustata, piuttosto un retrogusto amaro, una morbidezza oscena. Al primo morso una colata di liquido rossastro gli inonda il cappotto. Quella mela non è una mela, ma un pomodoro del New Jersey, primo assaggio del Nuovo Mondo per Ichabod. Una mela che è un pomodoro: non c’è modo migliore di raccontare lo spaesamento di una persona, il disorientamento radicale di tutta la sua vita. Non c’è modo migliore di raccontare l’epopea di un uomo con un dettaglio che sembra stare ai margini; di dire la vita senza spiegarla e far sentire il mistero dell’esistenza.

 

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