La prima mondiale
La rinascita di Madina alla Scala di Milano
Tra terrorismo, violenza e kamikaze. La storia di una donna che combatte la sua famiglia di estremisti diventa opera-danza internazionale
Nella vita sono accomodante, ho un buon carattere perché ho la scrittura. Posso metterci dentro di tutto: la rabbia, il furore, la sofferenza. Scrivere è il mio sfogo, è la cosa che amo fare da sempre. Da bambina, appena ho capito come tenere la penna in mano, ho iniziato a scrivere, e a 17 anni ho steso La Notte di Matteo, una favola dolorosa, nata in seguito alla morte di mio fratello maggiore. Tempo fa a Parigi ho sentito su Antenne 2 una frase di Françoise Sagan, l’autrice ormai scomparsa di Bounjour Tristesse. In risposta a Bernard Pivot, l’ormai leggendario conduttore della trasmissione ‘Apostrophe’ che le domandava di questo e di quello, lei a un certo punto rispose: ‘Io sono sempre tollerante con chi scrive perché capisco che tutti, in fondo, abbiamo un fuoco da spegnere’. Bellissima frase, non trova?”. Emmanuelle de Villepin sorride e spesso ride dopo aver parlato di quanta gente, ormai, scriva e di quanto poco invece legga. Con la sua erre francese che si arrotola su se stessa e si attorciglia come i lunghi capelli biondi, appena striati di grigio, attorno a un volto da eterna ragazza, possiede un’eleganza naturale, svolazzante.
È davvero incantevole la guida femminile scelta per introdurre ai misteri, che noi in parte conosciamo e in parte proprio no, di Madina, l’opera-balletto, anzi di teatrodanza, in prima mondiale, al Teatro alla Scala il primo ottobre, per restarci altre quattro recite. Peraltro tutto è nato dal suo La ragazza che non voleva morire (2008), il secondo di altri sei romanzi, sempre pubblicati da Longanesi, l’editore che considera la sua famiglia letteraria e attorno a lei ha creato un contesto affettivo importante. La Scala aveva già messo in cartellone con la Siae questa novità nel 2020, ma la pandemia l’ha in questo caso provvidenzialmente bloccata. La storia tratta infatti di terrorismo, di violenza sulle donne, di kamikaze, e dunque rimanda all’attuale e tragica realtà afghana. Anche se – e qui ci concediamo una breve digressione – secondo Claudio Bertolotti, esperto e autore di Shaid, analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, (Franco Angeli, 2009) il termine kamikaze, di origine giapponese, nulla avrebbe a che fare con gli shaid: attaccanti suicidi e terroristi afghani, ma non solo. I kamikaze furono i soldati che nella Seconda guerra mondiale si lanciavano per vie aeree con le insegne dell’impero nipponico, e combattevano, secondo il diritto bellico e nel rispetto del codice d’onore del Sol Levante, con obiettivi simbolici e tecnico-strategici ben precisi. Bertolotti ha anche stigmatizzato in un’analisi etnografica condotta in Afghanistan, l’incidenza del fenomeno jihadista al femminile, cioè delle estremiste islamiche della guerra santa, pronte a morire per annientare gli infedeli. Sarebbero una su duemila campioni in un paese che ha ben 50 diverse etnie.
Molto più numerose, le combattenti curde, irachene, siriane, uzbeke, pachistane e un tempo cecene: tutte forzate a diventare tali, o vittime di forti traumi, come quelle installatesi in Europa. Il blitz parigino del 2015 nel Teatro Bataclan, di cui in questo periodo, a Parigi, si celebra il processo all’unico terrorista sopravvissuto, fu sgominato grazie al tradimento di una donna jihadista. Ne conviene anche Emanuele Giordana, altro esperto di politica mediorientale, che rimarca il terribile maschilismo tradizionale di ritorno nell’odierna società afghana, contrario a ogni forma di modernizzazione. Secondo quell’atavica mentalità, il burqa, che copre interamente la figura femminile, sarebbe una protezione. Mentre la donna assumerebbe un ruolo di assoluto comando in casa: regnerebbe come una sorta di domina romana, ma senza libertà. Guai a ricordare gli anni Settanta, quando le donne andavano a scuola, guidavano anche filobus elettrici, indossavano persino minigonne e dirigevano giornali, anche se di propaganda socialista brezneviana. Meglio rammentare che nel 1991 chi uccise Rajiv Gandhi, il figlio di Indira, nascondendosi in un commando di quattordici Tigri del Tamil, l’organizzazione militare clandestina in lotta per l’indipendenza dei Tamil dello Sri Lanka, fu una convinta “tigre” assassina.
Questa realtà mediorientale e dell’Asia centrale è complessa, confusa, spesso avvolta in una nebbia in cui è difficile distinguere luci e ombre, ed è ambigua. Ne conviene anche Emmanuelle di Villepin, che ritiene nient’altro che ambigua la vera protagonista della sua Ragazza che non voleva morire. Costei è una cecena di vent’anni orfana dei genitori, uccisi durante il secondo conflitto coi russi. Dopo essere stata stuprata, è pure costretta da uno zio, diventato capo dei wahabiti, terroristi antisovietici, a compiere un attentato a Mosca. Imbottita di droghe, indossa una cintura suicida per sé e omicida per gli altri. Giunta sul posto, getta via la cinta carica di tritolo, si salva, ma uccide un artificiere russo. Viene chiamata a giudizio ma durante il processo mantiene un atteggiamento enigmatico, quasi subdolo, dall’inizio alla fine. Ha una smorfia sul viso. Non dimostra simpatia per i terroristi poiché ha fatto di tutto per tradirli, ma non riesce neppure a definirli tali, ad accusarli. Forse quello zio era suo fratello. Le danno vent’anni in una prigione vicino a Mosca, una pena che ormai dal 2006, circa, a oggi, avrebbe già dovuto scontare – ma della sua scarcerazione, di cui anche la De Villepin si è interessata, nulla si sa.
Colpita, anzi sconvolta, da questa vicenda vera letta sui giornali francesi che all’epoca davano molto spazio alla Cecenia anche grazie a quegli intellettuali star, come Bernard André Levi, André Glucksmann che lì si recavano per restituire reportage molto seguiti dai lettori, Emmanuelle si mise al lavoro. Non abitava più in Francia, dopo aver vissuto, giovanissima, a Ginevra, essersi laureata in Legge a New York e infine sposata, a Milano, nel 1986 con Rodolfo De Benedetti, figlio di Carlo e padre delle sue tre figlie. Tuttavia, con il suo paese d’origine continuava e continua a mantenere stretti contatti e a ricevere informazioni giornalistiche, talvolta senza neppure cercarle. La scrittura l’accalorò: presa dall’impeto di difendere tutte quelle donne shaid comunque vittime poiché, a suo avviso, anche quando decidono volontariamente di farsi saltare in aria hanno alle spalle tragedie e lutti, De Villepin decise di trasfigurare tutto. Chiamò la ragazza Madina, un nome di fantasia ma caucasico, e le sottrasse ogni ambiguità, rendendola solo vittima ed emblema universale delle sventurate che nei luoghi di guerra e terrorismo suscitano in noi una pena infinita. L’intreccio del libro si avvalse però anche di un altro episodio, quasi una fortunata coincidenza. In una libreria di Metz, l’autrice della Ragazza che non voleva morire scopre Sourvivre en Tchétchénie (“Sopravvivere in Cecenia”, Gallimard 2006), un testo del ceceno Soultan Iachourkaev.
Lo sfoglia e si avvede che è il diario di un vecchio contadino capace di annotare tutti gli avvenimenti terribili, ma anche quotidiani, che avvengono nel suo piccolo paese, durante le due guerre contro la Russia. Sulle prime si stupisce; aveva sentore che gli scrittori ceceni fossero un po’ rustici e grezzi, invece trova letteratura pura e un’intensa poesia e bellezza. Ne approfitta per trasformare il vecchio contadino nel personaggio dell’ottantenne Sultan, l’anima bella del suo testo, lo zio saggio di Madina e del fratellino Shamil, che tenta in ogni modo di dissuadere il figlio Kamzan, il capo dei terroristi, e qui zio di Madina, dai suoi propositi omicidi. Invano. Un odio profondo per la distruzione della sua famiglia ha cancellato ogni residuo di dolcezza in quello che da bambino Sultam chiamava “Usignolo il brignante”. Madina è uno strumento nelle mani della sua ferocia, nonostante sia stata stuprata e con lei l’innocente amica Zarema che muore soffocata: le urla disturbano gli invasori vigliacchi e ubriachi. Altre figure hanno screziate valenze positive in questo universo dove la nostra romanziera, nel 2008, già preannunciava nuovi temi dolorosi e centrati sulla complessità dell’animo umano e soprattutto su quell’aller-retour tra etnie, lingue e culture diverse, insiti nei suoi futuri scritti.
Dalla Cecenia, infatti, il libro slitta a Parigi, dove Sultan crescerà il nipotino Shamil, scrivendo un suo diario, e dove vivono Olga, la zia occidentale di Madina, e Louis, il pavido caporedattore di un giornale parigino. Dapprima insensibile a quell’intrico ceceno, Louis, per amore di Olga, si farà paladino della giovane martire che si è rifiutata di morire. Finito il romanzo con buone vendite ma una sola tiratura – “io non sono Dan Brown”, ride De Villepin – entra in scena chi davvero ha trasformato La ragazza che non voleva morire in Madina. È Fabio Vacchi, il nostro compositore contemporaneo di maggior respiro internazionale. Emmanuelle lo incontra una sera, a casa di una comune amica melomane; aveva appena terminato il suo quarto romanzo, ma l’ospite suggerisce di leggere il romanzo ceceno al geniale creatore di opere e concerti spesso ispirati alla letteratura, al cinema, amante dell’incrocio tra i linguaggi, del corpo danzante e lontanissimo dalle glaciali ricerche di sonorità che non entrano in sintonia con la fisicità della musica, di chi la interpreta, ma anche di chi l’ascolta.
Quando a casa Villepin-De Benedetti squilla il telefono e Vacchi si dice deciso a lavorare sul libro che ha divorato con passione, la reazione del marito Rodolfo è netta. “E’ uno scherzo”, afferma sicuro di sé, “figuriamoci se alla Scala si potrà mai portare una storia di terrorismo!”. Emmanuelle è delusa, ma ritiene audace l’offerta e la missione. Ora sa che Madina con i sui cantanti (il soprano Anna-Doris Capitelli e il tenore Chuan Wang), l’attore Fabrizio Falco, il coro spazializzato, causa Covid, l’orchestra diretta da Michele Gamba, il corpo di ballo, guidato dall’estro di Mauro Bigonzetti, il coreografo, e capitanato da Roberto Bolle, darà un segnale importante su quanto sia necessario offrire al pubblico, soprattutto giovane, opere calate nell’altalena di un mondo che pare affogare nella bramosia del potere, tra guerre, violenza, inaudita sopraffazione maschilista contro le donne, e non solo medio orientali. Poche settimane orsono, nell’evoluta Italia, sei mariti hanno ucciso le loro mogli in sei giorni… macabro gioco al lotto.
Grazie alla sua visionaria genialità, Vacchi aveva già escluso dalla sua Madina del 2020 ogni riferimento ceceno e affidato la stesura del libretto a De Villepin. Drammaturga neofita, la romanziera ha ridotto le circa 300 pagine del suo libro in un vademecum conciso diviso in tre quadri, che le è risultato, a suo dire, abbastanza bene. Salvo quando, pur seguendo le indicazioni del compositore, ricevette da lui due misteriose email: “Nella scena terza del quadro secondo vorrei 24, 36, 212”. Cosa saranno mai tutti questi numeri? Si tratta di metrica: doveva cercare parole che vi si adattassero ma avessero anche un senso rispetto alla storia narrata. “Non facilissimo”, sorride, mentre dice che di “Madina” scriveranno soprattutto i critici musicali, perché Vacchi è ormai un compositore accreditatissimo e teme: “Se diranno: Vacchi il grande Vacchi, opera meravigliosa, nonostante quel libretto idiota?”. L’allegria della nostra guida non viene meno, anche quando sembra pronosticare tra sé e sé che la star di “Madina” non sarà certo la scrittura, bensì la musica unita alla danza. Il pubblico della Scala darà meno attenzione alla parola di quanti hanno comprato o compreranno il suo libro (in via di ristampa, per l’occasione, crede).
Forse scambieranno le sue parole per didascalie, ma anche Mozart si appoggiava a quelle di Lorenzo da Ponte: “In fondo è piacevole capire la trama di un’opera”. Comunque vada per lei è un onore essere affiancata a un artista internazionale, senza il quale la musica contemporanea italiana sarebbe assai più povera. La sua ammirazione è grande per il suo linguaggio musicale colto, pregnante, “anche difficile”, ma sempre carico di pathos, capace di portare con sé la tradizione e di arricchirla in modi del tutto originali. “Pensi che una mia amica americana mi ha detto che al Lincoln Center di New York Fabio ha ottenuto una standing ovation, cosa rara per quel pubblico sempre un po’ ingessato”. Emmanuelle de Villepin non teme più il confronto con Vacchi quando assiste ad alcune, prime, prove di “Madina”, senza musica. L’emozione è fortissima: vede la sua creatura immersa nelle video-scene e sotto le luci di Carlo Cerri, diventare autonoma. “E’ come avere un figlio che va a scuola, lo accompagni e poi capisci che sta per imboccare la sua strada”. Resta incantata dal “suo” Kazan, interpretato da Roberto Bolle che rapisce e cattura l’occhio per la sua beltà da Bronzo di Riace, ma lei trasale per la durezza e cattiveria che l’étoile è capace di esprimere come capo dei terroristi, e per come bistratta Antonella Albano che interpreta Madina.
Grazie al coreografo Bigonzetti, tutti e due le paiono straordinari: lei per il suo misto di forza, tristezza e rassegnazione. Lui, dal volto reso barbuto, per come sa dominare la sua diabolica bellezza traendone grande forza e violenza. Entrambi riescono a restituire l’essenza esteriore, avvolti come sono, assieme al resto degli altri ballerini, nei costumi di Maurizio Millenotti, e interiore dei personaggi che ha cercato di tratteggiare nel suo libro. Emmanuelle scrive di pomeriggio; non sono le ore che corrono verso il tramonto a esaltare la sua vena letteraria, ma la necessità di occuparsi al mattino di Tog, la fondazione “Togheter to Go” di cui è vicepresidente, fondata dalla famiglia De Benedetti, nel 2011, per la riabilitazione di bambini affetti da gravi disturbi neurologici “E’ una realtà espansa, ormai, a Milano, e siccome le cure sono del tutto gratuite, mi occupo di finanziarle. Non è il lavoro più divertente del mondo e difficile anche. Bisogna interpellare fondazioni bancarie, ci sono i bandi europei, non è più come una volta quando c’erano le signore della carità”. Tra queste benemerite, De Villepin avrebbe brillato per censo e dinastia. Ma lei ha scelto, come la figlia Neige De Benedetti, fotografa di guerra nei luoghi più pericolosi, di abbracciare, trafelata tutto il giorno e come può, il dolore del mondo. Nei suoi libri non si espone, non narra della sua vita, anche se vi sono elementi del suo vissuto sparsi qua e là. “Nessuno scrive di cose che non conosce o che non ha provato; in realtà, tutti i libri sono autobiografici, anche ‘La ragazza che non voleva morire’, sa?”. Ma è diventato uno spettacolo. “Evviva, lunga vita a Madina!”.