La rassegna Portici di carta (Foto Ansa)

l'anticipazione

Nevrosi da lettura. Quando il piacere di leggere assomiglia tanto a una mania

Guido Vitiello

Un poppante recidivo, un voyeur, un maniaco dell’ordine, un sadico, un parricida: ecco che cosa può nascondersi dietro al lettore comune. Un libro esplora tic, ossessioni e stravaganze di chi ama i libri. Un’anticipazione

“Il lettore sul lettino” (Einaudi, 168 pp., 13,50 euro) è il libro di Guido Vitiello in uscita. “Un campionario brillante, colto e divertente delle abitudini che circondano l’uso dei libri e dei meccanismi profondi che regolano i piaceri e i dispiaceri della lettura”, annuncia il risvolto di copertina. Ne anticipiamo alcune pagine.


 

C’è una vecchia battuta, di solito attribuita al drammaturgo Jerome Lawrence, ma credo dovuta in origine al genio di un chirurgo inglese, Lord Webb-Johnson. Dice pressappoco così: il nevrotico costruisce castelli in aria, lo psicotico ci abita, lo psichiatra riscuote l’affitto. E’ la battuta chiave di questo libro: tutto sta a mettere “librerie” al posto di “castelli”. 


Qualcuno la prende un po’ troppo alla lettera, rivelando una sinistra contiguità tra la biblioteca domestica del maniaco dei libri e la stanza imbottita dell’ospedale psichiatrico. Pensate a Jean des Esseintes, il dandy parigino di Controcorrente di J.-K. Huysmans, che si fa rilegare pareti e soffitto in marocchino per vivere in una specie di libro gigante; o al sinologo Peter Kien, protagonista di Auto da fé di Elias Canetti, che tappezza le pareti di libri fino al soffitto e fa murare anche le finestre, accontentandosi della luce che filtra dai lucernari (non va a finire bene, come si può intuire dal titolo incendiario e da qualche semplice considerazione sull’infiammabilità della carta); o ancora a Carlos Brauer, il bibliofilo impazzito di un romanzo breve di Carlos María Domínguez, La casa di carta, che edifica su una spiaggia sperduta una casupola di libri-mattoni: “Un Borges per completare la base della finestra, un Vallejo accanto alla porta, con sopra Kafka e di fianco Kant, e una dura edizione rilegata di Addio alle armi, di Hemingway; e poi Cortázar, e Vargas Llosa, sempre voluminoso; Valle-Inclán con Aristotele, Camus con Morosoli, e Shakespeare, fatalmente legato a Marlowe dall’impasto di cemento; tutti destinati a innalzare un muro, a gettare ombra”. 


E va bene, direte voi, questi sono romanzi. Ma non v’illudete: le cronache dei secoli passati, specie dell’Ottocento, riportano casi perfino più inquietanti. Un picchiatello inglese, tale Sir Thomas Phillipps, si era messo in testa di procurarsi una copia di ogni libro in circolazione, e quando morì lasciò detto nel testamento che nessuno si azzardasse a riordinare la sua inumana collezione, racchiusa in un edificio in stile neogreco che pareva il Partenone, e soprattutto che non ci mettesse piede il genero, che sospettava essere un ladro di manoscritti. Un suo connazionale, Sir Richard Heber, dovette comprare otto case – quattro in Inghilterra, quattro nel continente – per sistemare i suoi libri, ciascuno dei quali possedeva in tre copie: la prima per conservarla, la seconda per leggerla, la terza per prestarla agli amici. Il grado eroico della bibliomania ha ispirato anche crimini, di solito circondati da un alone leggendario – dalla cleptomania di un conte e matematico opportunamente chiamato Guglielmo Libri agli omicidi multipli di Johann Georg Tinius, pastore protestante che uccise due ricche vedove a colpi di martello per soddisfare la sua fame di libri. E non poteva mancare il cannibale, nella fattispecie quello che si mangia la carta – tutti ne hanno avuto uno in classe, all’asilo, ma l’avventuriero settecentesco Johann Ernst Biren pensò bene di continuare anche da grande.


Come nelle migliori famiglie, insomma, anche in quella degli amanti dei libri non manca qualche zio matto, il cui ritratto è tenuto prudentemente in soffitta. Sono casi studiati dagli psichiatri, schedati dai criminologi, frugati morbosamente dagli amanti delle bizzarrie. Ma non è di loro che parlerà questo libro, se non per additarli come spauracchi, come fantasmi ammonitori, come esempi iperbolici di vizi che generalmente si presentano in forma meno eclatante. Più che ai lettori psicotici, insomma, ci dedicheremo ai turbamenti del lettore nevrotico, che poi altri non è che il lettore comune – quel common reader di cui Virginia Woolf tracciò quasi cent’anni fa un identikit tuttora utile.


Il lettore comune, scriveva Woolf nel 1925, va tenuto ben distinto dal critico e dallo studioso. Non si presume che sia coltissimo e, a dirla tutta, neppure troppo intelligente. Legge per suo diletto, non per impartire conoscenza agli altri o raddrizzarne le opinioni. Può permettersi quindi di essere frettoloso, approssimativo, superficiale. E’ libero di fare e disfare mondi nella fantasia, e mentre legge “non smette mai di tirar su un suo pur sgangherato e traballante edificio” (eccoli, i castelli in aria del lettore nevrotico). Incontriamo questo ritratto sulla soglia di una celebre raccolta di saggi di Virginia Woolf, Il lettore comune. E’ l’iscrizione benevola all’ingresso di un tempio, messa lì per non scoraggiare i passanti e i semplici curiosi, che potrebbero fuggire intimiditi. Peccato però che, visto da vicino, il lettore comune sia meno comune di quanto sembrava. Solo che per accorgercene dobbiamo entrare nel tempio da una porticina laterale.


Facciamo qualche passo indietro – una pagina appena – e noteremo che prima di quel ritratto così affabile e lusinghiero del lettore comune Virginia Woolf aveva apposto una dedica: A Lytton Strachey. Suo amico intimo, lui pure critico e scrittore, nel giro di Bloomsbury lo chiamavano the great Strachey; e non per vezzeggiarlo, né per accostarlo scherzosamente a Gatsby o ad Alessandro Magno, ma per distinguerlo da the little Strachey, ossia il fratello minore James, psicoanalista e traduttore in inglese delle opere di Sigmund Freud, di cui negli anni Venti era stato anche paziente. E’ lui la nostra porticina. Il 19 marzo del 1930, alla British Psycho-Analytical Society di Londra, il piccolo Strachey aveva tenuto un intervento dal titolo: Some Unconscious Factors in Reading. Era la prima ferita narcisistica inferta al lettore comune.


Strachey aveva osservato delle strane abitudini in alcuni dei suoi pazienti. Uno di loro, per esempio, leggeva con enorme difficoltà, paralizzato da mille inibizioni. Teneva sempre una matita in mano, e in fondo a ogni pagina – ma solo se aveva la certezza di aver capito tutto – metteva una spunta. Questo nei giorni buoni, intendiamoci; perché nei giorni cattivi metteva una spunta alla fine di ogni paragrafo, o di ogni riga. Nei periodi veramente bui, o se il libro gli pareva di speciale importanza, una spunta dopo ogni parola. Inutile dire che leggeva ben poco; in compenso consumava moltissime matite. Un altro paziente di Strachey, correttore di bozze (che come vedremo è una patologia a sé), viveva nella perenne ossessione che gli fosse sfuggito qualche refuso madornale, e questo dubbio lo obbligava a leggere e rileggere in continuazione. Casi come questi mostrano che al lettore comune di Virginia Woolf, che in teoria dovrebbe leggere for his own pleasure, a volte è precluso ogni piacere. 


Ma di che natura è il piacere della lettura? Quali pulsioni serve a sublimare? Strachey rispondeva che accanto alla scopofilia (il piacere di guardare) e alle pulsioni della fase anale (il piacere di ordinare e immagazzinare) il ruolo dominante lo giocano le pulsioni legate alla fase orale. Lo rivelano metafore molto comuni: lettori “voraci”, libri “indigesti” e altri che si lasciano “divorare”. Il lettore immerso nel suo libro, irritato da qualunque fonte di disturbo, ricorda il poppante attaccato al seno materno. Non a caso, notava Strachey, i bambini leggono sempre tenendo a portata di mano qualcosa da sgranocchiare, o mal che vada si mettono un dito in bocca; e anche gli adulti sprofondano nella poltrona più comoda con una pipa e un whisky e soda (parlava evidentemente degli adulti degli anni Trenta, quelli che noi abbiamo visto solo nei film). Fin qui tutto bene. Ma lo stadio orale dello sviluppo psicosessuale, insegna Freud, è diviso in due fasi; alla beatitudine sdentata del poppante segue presto la fase sadico-orale, e gli ostacoli al piacere della lettura secondo Strachey derivano da lì. Quando prevalgono le tendenze distruttive, non ci nutriamo più fiduciosamente delle parole altrui, ma le addentiamo, le sminuzziamo, vogliamo assaggiarle bene prima di mandarle giù, per paura che siano velenose. Ecco spiegate le piccole manie dei due pazienti ossessivi.


E cosa rappresentano inconsciamente i libri? Qui la conferenza prendeva una piega alquanto disgustosa, e possiamo solo augurarci che sia stata tenuta lontano dai pasti: ne parleremo più in là. Diciamo intanto che, in un crescendo visionario, Strachey trasformava il libro in un grande teatro edipico in cui la pagina vergine sta per il corpo materno, le parole stampate sono i pensieri fertili ma profanatori emessi dal padre, e il lettore ha la parte del figlio “desideroso di farsi strada con violenza nel corpo della madre, di scoprire cosa c’è dentro, di strappare via da lei le tracce del padre, di divorarle, di farle proprie, di esserne lui stesso fecondato”. Ecco perché, osservava in una noticina in coda, molti lettori sottolineano i libri, ci scribacchiano sopra, li mutilano, fanno le orecchie ai bordi delle pagine, mentre il vero bibliofilo – che a quanto pare è paralizzato dal triangolo edipico – guarda con orrore al più lieve maltrattamento.


Ricapitolando: nel common reader si nascondono un poppante recidivo, un voyeur, un maniaco dell’ordine, un sadico, uno stupratore incestuoso, un parricida. E ora tutti a chiedere scusa a Baudelaire, che ci aveva dato solo degli ipocriti. 

 

Leggere è un vizio, “come tutte le abitudini alle quali torniamo con un sentimento vivo di piacere, nelle quali ci rifugiamo e ci isoliamo, e che ci consolano e ci servono da rivincita nelle nostre piccole delusioni”, riconobbe il poeta Valéry Larbaud negli stessi anni in cui Virginia Woolf blandiva il lettore comune; ma è anche, a differenza di quasi tutte le altre abitudini compulsive, un vice impuni, un vizio impunito “che ci dà l’illusione di condurci alla virtù”. Ne consegue che più siamo viziosi, più ce ne vantiamo. E’ la radice di quasi tutti i problemi che ci affliggeranno nelle prossime pagine, e nessuno ha saputo dissotterrarla meglio di Somerset Maugham nel racconto Il sacco dei libri: “C’è chi legge per istruirsi, cosa lodevole; c’è chi legge per divertimento, gusto innocente, ma molti leggono per abitudine, e questo non mi sembra né lodevole né innocente. A questa deplorevole categoria appartengo io stesso. La conversazione, dopo un certo tempo, mi secca; i giochi di società mi stancano, e i pensieri miei, che dovrebbero essere il conforto immancabile dell’uomo ragionevole, tendono a esaurirsi. Allora mi precipito sui libri come un fumatore d’oppio che si getta sulla sua pipetta. Piuttosto di nulla mi leggerei l’orario delle ferrovie o il catalogo dell’Unione Militare, anzi ho trascorso molte ore piacevoli leggendo l’uno e l’altro. C’era un tempo che non uscivo mai senza portare in tasca un catalogo di libri usati, lettura fra le più gustose. Naturalmente leggere in questa maniera è paragonabile al vizio degli stupefacenti, e stupisco sempre della faccia tosta di chi, leggendo tutto il giorno, disprezza gli analfabeti. Da quale punto di vista superiore è preferibile aver letto mille libri invece di aver arato mille solchi? Ammettiamo che per noi la lettura è soltanto uno stupefacente, di cui non possiamo fare a meno. Chi di noi non conosce l’irrequietezza che lo prende quando è stato troppo tempo senza leggere? L’affanno, il cattivo umore; e il sospiro di sollievo appena trova una pagina stampata? Evitiamo dunque di vantarcene, come non si vantano i miseri schiavi della siringa o del mezzo litro”. Potrebbe essere l’avvio di una ipotetica terapia di disintossicazione per i bibliodipendenti.

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