Dall'Isola di Wight all'isola di Samoa
Ogni viaggio un capolavoro. Stevenson e il suo gioco con la vita
Era destinato a costruire fari. Scelse un’altra strada, senza radici, che gli permise di scrivere romanzi come “L’isola del tesoro” e “Dottor Jekyll e Mr Hyde”. Amori e avventure di uno scozzese leggendario
La maggior parte dei ritratti che da tempo vado scrivendo è stata alimentata dal desiderio di risarcire persone notevoli, che per misteriose ragioni non hanno ricevuto la meritata considerazione. L’uomo di cui sto per parlare non appartiene a questa categoria.
Robert Louis Stevenson è sicuramente uno degli scrittori più riconosciuti di tutti i tempi, privilegio che gli fu concesso da vivo (al contrario di tanti suoi sfortunati colleghi) e avvalorato dopo la sua morte. Dai suoi libri sono state tratte innumerevoli versioni cinematografiche, e nelle librerie di tutte le case del mondo almeno uno dei suoi titoli è presente. Quel che mi preme ricordare non è dunque la sua opera (non ne ha certo bisogno) bensì la straordinaria parabola della sua vita, appassionante quanto, se non addirittura più dei suoi romanzi d’avventura. Pensando alla quantità di pagine scritte, chilometri macinati, miglia marine solcate e vite vissute in soli quarantaquattro anni, si resta sbalorditi. Tutto ciò che Stevenson ha compiuto nel suo breve percorso terreno non si deve al caso, ma a un caparbio, forsennato desiderio di esistere, di prendersi il possibile e talvolta l’impossibile.
Se da generazioni ci tramandiamo i suoi libri lo dobbiamo al suo stato di salute, provato sin dall’infanzia da una malattia che compromette i suoi polmoni e lo costringe a letto. Come accade a molti altri scrittori, è il ricovero forzato che gli fa scoprire la sua inclinazione (quanti geni ci saremmo persi se avessero goduto di buona salute…). Nei libri, nei sogni, nelle leggende scozzesi che gli racconta la sua affezionata nutrice Cummy (che in una poesia a lei dedicata definisce “my second mother, my first wife, the angel of my infant life…”), il piccolo Louis trova un rifugio consolatorio. Dando ascolto a quel che definisce “l’attività innaturale del mio cervello di bambino” comincia a scrivere molto presto, a sei anni, i primi versi:
The world is so tall,
and I am so small,
I don’t like it at all, at all.
A sedici anni pubblica il primo libro grazie al padre, che impressionato dalla sua scrittura, fa stampare cento copie di un breve saggio storico sulla rivolta di Pentland del 1666. Si potrebbe pensare che il genitore assecondi le inclinazioni letterarie di Louis, ma non è così. La scrittura è un passatempo, non può essere considerata una professione; nei progetti di Thomas il suo unico figlio è destinato a proseguire la tradizione familiare inaugurata dal nonno: costruire fari. Gli Stevenson sono una stimata dinastia di ingegneri edili. A Louis i fari non interessano (vorrebbe semmai emulare il cugino Bob, l’artista della famiglia, che ha lasciato le brume scozzesi per unirsi alla comunità di pittori di Barbizon, in Francia) ma non ha la forza di opporsi al volere paterno e si iscrive all’università, facoltà di Ingegneria. Dura poco, la materia non fa per lui. Per non deludere il padre, con il quale ha un legame conflittuale ma profondissimo, si iscrive a Giurisprudenza e consegue la laurea (studiando il minimo indispensabile). I problemi di salute non lo abbandonano, e sarà proprio la malattia a permettergli di viaggiare alla ricerca di climi più adatti ai suoi polmoni, e a rivelare gli aspetti predominanti del suo carattere: il coraggio e la caparbietà, uniti a un disperato attaccamento alla vita, che nulla riuscirà a spegnere.
La consapevolezza di essere segnato da un destino ineluttabile lo porta a consumare voracemente ogni possibile esperienza, a cogliere le occasioni, a godere delle opportunità con l’entusiasmo fanciullesco che traspare nelle pagine dei suoi romanzi e nei capitoli straordinari della sua vita. Legge avidamente, alla ricerca di uno stile di scrittura che per sua stessa ammissione si forgia sull’imitazione: “E’ dagli altri che imparo”. Viaggia preferibilmente in solitaria, appuntando sensazioni e riflessioni sul mondo che via via si rivela ai suoi sensi. A vent’anni trascorre un mese sull’isola di Wight (cent’anni dopo si sarebbe sicuramente unito alle migliaia di ragazzi che affollarono il famoso festival…) poi si trasferisce per tre mesi su un’isola delle Ebridi (le isole, riferimento imprescindibile della sua opera e della sua vita). Incurante dei rischi per la sua salute, se ne va in Francia dove discende fiumi e canali in canoa, dorme all’aperto, e scrive. An inland voyage è il suo primo reportage di viaggio. La carriera di avvocato non si confà al suo spirito bohemien, tantomeno l’atmosfera opprimente della Scozia con i suoi inflessibili princìpi puritani: Robert Louis Stevenson è un hippy (meglio ancora sarebbe definirlo “fricchettone”) ante litteram, nemico delle convenzioni, e presto o tardi la famiglia dovrà rassegnarsi (anche se entrambi i genitori continuano a sperare in un ravvedimento). Per il momento quel figlio ribelle dipende ancora dal padre, le pubblicazioni hanno suscitato buone critiche ma nessun guadagno, e a casa c’è sempre una stanza per lui. Su invito del cugino Bob (complice e sodale, insieme hanno fondato il goliardico club Lgr, Libertà, Giustizia e Riverenza il cui motto era: “Disprezzare tutto ciò che i genitori insegnano”), Louis torna in Francia per unirsi al circolo artistico di Barbizon e lì, a venticinque anni, conoscerà l’amore della sua vita.
“Bruna come una gitana, agile come una lepre, donna nel corpo, uomo nel cuore”. Fanny Osbourne, americana, trentasei anni, sposata e madre di due figli, è l’unica donna del gruppo. E’ abituata a stare in mezzo agli uomini, ha vissuto nelle miniere del Nevada insieme al marito cercatore d’oro fino a quando la vita selvaggia del West e i continui tradimenti di lui non erano più tollerabili. A lei interessa l’arte, difficile condividere le sue passioni con dei bifolchi cowboys. La vincita di un concorso di pittura con in palio un viaggio in Francia è stata dunque l’occasione per mollare tutto. Fanny parte insieme ai tre figli (il più piccolo morirà di tubercolosi poco dopo il loro arrivo a Parigi) alla ricerca di nuovi orizzonti. Mettendosi contro tutti, proprio come Louis. Pur venendo Fanny dall’altra parte del mondo, da territori che Stevenson può solo fantasticare, e nonostante gli undici anni che li separano, lui riconosce in lei una folle forza vitale affine alla propria. Lei è affascinata da quel ragazzo magrissimo dalle gambe lunghe e i lunghi capelli, che si veste in modo eccentrico, scrive poesie e piange senza preavviso. E’ così che sono fatti gli artisti?, si domanda. Si frequentano per due anni, Louis fa su e giù con la Francia per stare con lei, poi, improvvisamente Fanny parte, richiamata in America dal marito. Louis è disperato, non sa cosa fare.
Poi decide, e quel che farà sarà una delle più alte e romantiche dimostrazioni dell’amore di un uomo per una donna.
Gli ci vogliono due settimane per capire. E’ la scelta che determinerà il suo futuro, la svolta esistenziale che la vita talora ci richiede e non sempre ci trova pronti: Louis ha l’età giusta per prendere una decisione e la sensibilità adatta per intuire che a certe conclusioni ci si arriva da soli. Lontani da tutto, e da tutti. Se avesse avuto fede in Dio si sarebbe forse rinchiuso in un monastero, ma Louis è ateo, e sceglie la solennità della natura. Compra un’asina, le dà il nome di Modestine, e insieme a lei percorre trecento chilometri attraverso le aspre Cévennes, nel Massiccio centrale. Un viaggio iniziatico alla scoperta di sé, che produrrà un libro bellissimo, Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, e la consapevolezza di voler rompere definitivamente con la famiglia, ritrovare Fanny, e sposarla (oggi quel percorso formidabile è diventato meta per escursionisti romantici, alcuni dei quali scrittori, che si avventurano a dorso d’asino sulle tracce di Stevenson). Si annuncia così un altro viaggio, stavolta molto più impegnativo: Monterey, California. E’ lì che vive Fanny.
I genitori accolgono la notizia con stupore e risentimento. Sperando di impedirne la partenza, il padre sospende il sostentamento del figlio che non recede di un passo, sbatte la porta e va a chiedere aiuto finanziario agli amici. Ottiene solo rifiuti (da quel momento la figura della divorziata e attempata Fanny, che veste senza corsetto, porta i capelli corti, fuma rollandosi le sigarette, spara come un cowboy e soprattutto osa sottrarre il giovane scozzese alla società a cui appartiene, verrà sempre osteggiata). Senza un soldo in tasca, il 7 agosto 1879 Stevenson si imbarca sul transatlantico Devonia, con in mano un biglietto di seconda classe. Non può permettersi di meglio. Ha la febbre e la solita bronchite, condizione meno adatta per affrontare un viaggio così lungo e disagiato, ma come gli altri passeggeri, perlopiù emigranti, ha un motivo (da alcuni chiamato sogno, da altri speranza) che lo aiuta a tenere duro. Durante la traversata prende appunti, la sua attenzione è rivolta agli ultimi, i passeggeri della terza classe: osserva i loro gesti, gli sguardi, prima con curiosità poi con partecipazione e vicinanza. Si fa raccontare le loro storie, insieme giocano a carte, si scambiano confidenze. Sbarca a New York dopo un paio di settimane, si riposa tre giorni, e riprende la corsa verso la California. Altre due settimane di viaggio avventuroso per attraversare l’America da est a ovest, salendo su treni affollati di gente in cerca di fortuna e pepite d’oro, trovando riparo in fattorie e alloggi improvvisati. Materiale che finirà in un nuovo libro.
Quando finalmente bussa alla porta di Fanny, lei stenta a riconoscerlo. Ha la barba e i capelli lunghi ed è magro da far paura. E’ febbricitante ma ciò che le chiede non è frutto di un delirio: “Vuoi sposarmi?”
Lei gli dirà di sì pochi mesi dopo, il tempo di ottenere il divorzio dal primo marito. Per la luna di miele scelgono il meno convenzionale dei luoghi. Solo due come loro avrebbero potuto considerare una miniera abbandonata nella Napa Valley, rifugio di serpenti e scorpioni, l’ideale nido d’amore. Gli accampati di Silverado è il resoconto dei due mesi vissuti lontani dal mondo, scelta esistenziale che condivideranno fino alla fine.
E’ tempo di riconciliarsi con la famiglia, Stevenson torna in Scozia con moglie e due figli acquisiti, Belle e Lloyd. I pregiudizi crollano all’istante, Louis non è mai stato così felice e questo basta ad accogliere Fanny a pieno titolo in seno alla famiglia. L’equilibrio raggiunto grazie al matrimonio coincide con la maturità artistica, il giovane scrittore di viaggi è pronto a lasciare un segno nella letteratura mondiale. Nell’arco di un biennio, malgrado il sempre più precario stato di salute, scrive saggi, novelle, e due fra i suoi capolavori più noti. Il primo, L’isola del tesoro, viene ispirato da una persona sulla quale, da questo momento, punterò il mio personale riflettore. Talvolta accade, quando si scrive un romanzo, che un personaggio secondario si imponga sugli altri e prenda il sopravvento. E’ il caso di Lloyd Osbourne, il figlioletto di Fanny.
Lloyd ha dodici anni ed è molto affezionato al ragazzo che ha sposato sua madre. Insieme non si annoiano mai, se ne vanno sempre in giro per il mondo inseguendo il sole, cambiano spesso casa, conoscono gente nuova. Ma c’è una cosa che a Lloyd piace sopra ogni altra: Louis, il suo patrigno, è un bravo raccontatore di storie. Un pomeriggio di pioggia e di noia gli chiede: “Scriveresti una grande storia per me?”. “Cosa intendi per grande storia?”. “Non so, l’importante è che ci siano barche, avventurieri, pirati, un ragazzo come me e soprattutto niente femmine!”. E così quel giorno, per ingannare il tempo, Louis e il piccolo Lloyd si mettono a disegnare una mappa…
Uno dei più grandi successi editoriali di tutti i tempi nasce dunque come intrattenimento per quel ragazzino tanto amato che le convenzioni definiscono figliastro ma che il patrigno Louis considera, senza esitazione, sangue del suo sangue. Oramai Stevenson è uno scrittore acclamato, stimato da pubblico e milieu letterario, credito che gli infonde un prodigioso vigore creativo in totale contrasto con i bollettini medici sempre meno incoraggianti. E’ piegato da influenze, bronchiti, dolori alla schiena, emorragie, e tuttavia non posa mai la penna, anche se costretto a letto (un giorno dirà a Lloyd: “Non sono un uomo di particolare talento, quel che di genio è in me è il genio del lavoro”). Il suo editore lo incoraggia a scrivere nuovi romanzi e nel giro di pochi mesi viene dato alle stampe La freccia nera. Seguiranno Il ragazzo rapito e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, scritto, quest’ultimo, in meno di una settimana, dopo che il giudizio negativo espresso da Fanny in seguito alla lettura della prima versione aveva spinto Stevenson a distruggere il manoscritto, lanciandolo nel fuoco. Circostanza che divise l’opinione riguardo all’influenza di Fanny Osbourne sulla produzione artistica del marito: i denigratori considerarono nefasta l’ingerenza di Fanny, mentre i sostenitori ne elogiarono le doti critiche, causa di una distruzione ma anche di una rinascita, il cui risultato positivo era stato confermato dal successo impressionante del romanzo.
E’ di questi tempi l’amicizia con Henry James, stilisticamente agli antipodi di Stevenson, nata da un raffinato battibecco letterario (bei tempi quelli…) sui differenti modi di intendere la scrittura romanzesca. Il primo, riferendosi a L’isola del tesoro, “rimproverava” a Stevenson la mancanza di realismo e la conseguente difficoltà a identificarsi con i suoi personaggi: “Per quanto mi riguarda io non ho mai giocato ai pirati da bambino né ho mai cercato tesori nascosti”. Nella sua risposta pubblica al collega, Un’umile rimostranza, Stevenson rivendica le intenzioni ludiche (ma tremendamente serie, come sempre lo sono i giochi dei bambini) e deliberatamente lontane dal cosiddetto realismo: “L’artista scriverà con molto più gusto ed efficacia intorno a quelle cose che ha soltanto desiderato fare, che non a quelle che ha fatto. Il desiderio è un telescopio meraviglioso”. Il romanzo esiste non per le sue rassomiglianze con la vita, ma per la sua incommensurabile diversità. “Se da bambini non si crede a un tesoro, allora non si è mai stati bambini”. Nonostante i diversi punti di vista i due scrittori stringeranno un profondo legame di stima e affetto, come traspare dal loro carteggio. Tra una lettera e l’altra emerge il trasporto di Henry James per l’amico più giovane, del quale invidia, senza mai confessarlo, la libertà.
E’ proprio in nome della libertà che Stevenson decide nuovamente di partire: “C’è una cosa in verità, che non si impara in Scozia, ed è come essere felici”. Nulla lo trattiene più, la morte del padre spezza le ultime catene che lo legano alla sua terra natìa. Si consulta con Fanny e con i ragazzi, Belle e Lloyd, e insieme, come sempre, si lanciano in una nuova avventura. A loro si unirà anche la madre rimasta vedova.
“Niente bagaglio, ecco il segreto dell’esistenza”.
Prima tappa: gli Stati Uniti.
A New York l’accoglienza è trionfale. Il successo del Dottor Jekyll ha reso lo scrittore molto popolare: “Se fosse sbarcato Gesù Cristo avrebbero fatto meno chiasso”. Durante il soggiorno americano scrive un altro capolavoro: Il signore di Ballantrae, nel quale approfondisce ulteriormente il tema del doppio, lo scontro tra Bene e Male. Ma l’America è solo un transito, non è certo quello il mondo desiderato. L’isola del tesoro esiste, e lo sta aspettando.
La proposta di un editore americano giunge come un dono degli dei: una crociera nei mari del sud (Australia, isole Marchesi, Tahiti e Hawaii) per la realizzazione di un volume che racconti quel viaggio, pagato a peso d’oro. La risposta è scontata. La famiglia Stevenson si imbarca di nuovo. Ma lo spiritello ribelle torna ben presto a manifestarsi. A metà navigazione Stevenson capisce di non poter onorare l’impegno: un libro su commissione non fa per lui. Recede dunque dal contratto ma non rinuncia al viaggio, che prosegue a sue spese: gli esiti di un soggiorno a Honolulu sono stati talmente positivi per la sua salute che non vi è ragione per non eleggere un’isola del Pacifico a dimora definitiva. Samoa, in Polinesia, sarà la prescelta. E’ il 1889, Robert Louis Stevenson ha trentanove anni.
I cinque che gli restano da vivere saranno i più felici della sua vita. Il rapporto con Lloyd, ormai adulto, si consolida. Scriveranno insieme dei libri e condivideranno la lotta per l’indipendenza dei samoani, schiacciati sotto il giogo di una triade imperialista. La laurea in Giurisprudenza tornerà utile per la prima volta in vent’anni, Stevenson diventa un paladino per gli indigeni della sua isola.
Quando si sente troppo stanco per scrivere, Louis si sdraia sulla sua chaise longue di fronte al camino che ha voluto far costruire come unica nota nostalgica di casa, e che naturalmente non ha mai acceso (la guida che accompagna i turisti nella meravigliosa dimora diventata oggi museo, ci tiene a sottolineare che si tratta dell’unico camino esistente a Samoa). Accanto si siede Belle, e a lei detta le sue parole.
C’è un libro a cui lavora da tempo e al quale tiene in particolar modo. Racconta di un padre e un figlio, il primo integerrimo e intransigente, il secondo idealista e sentimentale, e non è difficile cogliere nei ritratti dei due personaggi, il Giudice impiccatore e suo figlio Archie, echi del tormentato rapporto che legò Stevenson al padre. A volte, dopo aver passato la giornata a scrivere, riunisce la sua piccola comunità e legge a voce alta dei capitoli del nuovo libro, Weir di Hermiston. In occasione di una di queste letture, ecco un aneddoto illuminante sul rapporto fra Stevenson e Lloyd. E’ quest’ultimo a raccontarlo in uno degli scritti più commoventi che io abbia mai letto. Stevenson ha appena terminato la sua lettura, Lloyd rimane talmente colpito che non riesce a dire una parola. Mentre gli altri presenti si complimentano con l’autore, Lloyd si alza e in silenzio si ritira nel suo cottage. Viene raggiunto poco dopo da Louis, “in uno stato di grande sovreccitazione, senza respiro, fuori di sé”, che lo afferra per un braccio e, tremando, gli dice: “Non una sola parola, neppure la cortesia di una bugia! Tu, l’unico il cui giudizio mi stia a cuore, tutto quello che sai dirmi è buonanotte Louis…”. Umiliato da quel silenzio, Stevenson continua a dolersene, fino a quando il ragazzo trova finalmente le parole per dichiarare la sua infinita ammirazione. “E’ il tuo capolavoro, Louis, non avevo mai ascoltato nulla di più bello”. I nervi di Stevenson cedono. “Mi accorsi che piangeva e anch’io non potei frenare le lacrime. Non l’avevo mai visto così commosso e mai ero stato tanto commosso io stesso. E nell’oscurità che tutto avvolgeva, fummo per una volta liberi di essere noi stessi”.
Sono gli ultimi giorni di vita dello scrittore. Il libro capolavoro resterà purtroppo incompiuto (e comunque bellissimo). Nell’aria si avverte un presagio di morte, Lloyd lo deduce dallo sguardo insistente che ultimamente Louis rivolge alla vetta del monte Vea, dove più volte aveva manifestato il desiderio di essere sepolto. Ripetutamente aveva chiesto a Lloyd di pianificare l’abbattimento della vegetazione per realizzare un sentiero, invito sempre disatteso. “Mi ritraevo perché vi associavo l’idea della sua morte”. Durante quella notte di confidenze Stevenson gli aveva rivelato l’entità delle sue sofferenze quotidiane, “il disonore fisico e la degradazione” che esse causavano. Non aveva più la forza di contrastarle. L’ultimo giorno, come spesso accade ai malati che stanno per lasciare questo mondo, Stevenson era allegro e inspiegabilmente in forma. Ma anche Fanny percepisce qualcosa di sinistro. E’ nervosa, sfuggente. Il marito cerca di distrarla, le propone di fare un solitario con le carte, prova a farla sorridere con l’umorismo che lo contraddistingue e che lei ama tanto. Ma il malumore non passa e allora Louis si fa venire un’altra idea: “Ti aiuto a fare la maionese?”.
E così, l’ultima azione compiuta da uno dei più grandi scrittori dell’Ottocento, fu un gesto domestico, un gesto gentile, come tutto ciò che aveva fatto durante la sua vita. Mentre versa l’olio goccia a goccia nel recipiente in cui Fanny amalgama le uova, improvvisamente poggia la bottiglia sul tavolo, si afferra la testa fra le mani e chiede: “Do I look strange?”. Quindi poggia il capo sul tavolo, come se volesse dormire. Lloyd accorre, una voce che non riesce a riconoscere lo chiama: “La tragedia ha sempre una sua nota propria, l’intonazione di quella voce bastò a farmi capire”. Trova il padre (esiste altro modo per definirlo?) privo di conoscenza ma ancora vivo, lo prende in braccio (“era pietoso quanto poco pesasse”) e lo adagia su un’amaca, poi sella un cavallo e corre al galoppo in cerca di un medico ma quando rientra “la mano della morte lo aveva afferrato”. Sono le otto di sera. Il medico si raccomanda di seppellire il corpo “entro le tre di domani”. Il pensiero di Lloyd corre alla cima del monte e a quel sentiero mai tracciato. Devo farcela, si dice. Devo esaudire il desiderio. Chiede aiuto ai capi indigeni e in men che non si dica più di duecento uomini, muniti di asce e picconi, si presentano spontaneamente per il loro tributo a Tusitala, il raccontatore di storie, il nome con il quale erano abituati a chiamare Robert Louis. Per tutta la notte fino all’alba “l’atmosfera fu squarciata dallo scroscio degli alberi, dal risuonare delle asce e dal tonfo rauco delle zappe”. Nessun altro suono, gli uomini al lavoro avevano la consegna del silenzio in segno di rispetto. Il corpo di Stevenson, camicia e cravatta bianche, calzoni neri cinti da una sciarpa di seta blu e scarpe di vernice, fu traslato in una bara coperta dalla bandiera inglese. I capi indigeni vestiti con i costumi caratteristici si susseguivano per omaggiarlo, fino all’ultimo saluto del più anziano: “Samoa finisce con te, Tusitala”.
Poi un lungo convoglio si arrampicò sul lungo, ripido sentiero che profumava di piante recise, gli uomini si alternavano a sostenere il feretro sotto un sole cocente. Arrivati in cima, Lloyd scelse il punto dove fermarsi: “Era tutto così solitario, così selvaggio, così incredibilmente bello. Davanti a noi il mare, la foresta primordiale alle nostre spalle, le rupi, i precipizi, le cateratte lontane che rilucevano in un paesaggio che l’uomo non aveva mai calpestato. Nessuna cattedrale avrebbe potuto avere un aspetto più nobile”.
Sotto il cielo vasto e stellato
Scavate la tomba e lasciatemi dormire
Lieto sono vissuto e lietamente muoio
E volentieri mi sono qui disteso
Questo sia il verso che inciderete per me:
“Egli riposa dove bramava di riposare
Dal mare è tornato alla sua casa il marinaio
Dalle colline è tornato il cacciatore”.
(Epitaffio scritto da Stevenson medesimo).