Il ricordo
Rossana Banti Mattioli (1925-2021), sempre tremendamente ragazza
La staffetta partigiana che fece della vita un capolavoro di spavalderia
A novant’anni gli inglesi si sono ricordati di consegnarle tre medaglie al valore che le erano state assegnate settanta anni prima. Cerimonia con brindisi dall’ambasciatore Prentice, risate, brindisi, interviste, ebbra sobrietà di una donna che l’occupante conosceva come la ragazza con il cappotto rosso, un casentino vistoso e molto elegante che la spacciava per una chiazza di colore nelle finte coppie impegnate nel trasporto della stampa clandestina e delle armi. È morta a novantasei anni Rossana Banti, che poi era Rossana Mattioli, perché aveva sposato il partigiano arruolato con gli inglesi, Giuliano, figlio di Raffaele, con il quale concepirono due tipi umani meravigliosi, Luca e Raffaella. Nessuno ha mai celebrato un 25 aprile con il sorriso largo e sbarazzino che le era consueto, la spensieratezza e la manliness un po’ snob che le apparteneva. La sua accusa peggiore ai fascisti era che “mancavano di fantasia”.
Rossana, amica dei miei genitori, staffetta giovanissima, poi precipitatasi al sud, a Roma liberata, per continuare con gli inglesi (nei servizi speciali e segreti), la cui lingua parlava perfettamente per via della balia, era una bellissima donna affetta da finta e composta smemoratezza, non parlava quasi mai della guerra, e da un fanatismo allegro, che rendeva le ricorrenze e l’antifascismo, quello di chi “sta in campana”, come lei diceva, più una festa che un rito. Nella guerra aveva trovato tutto. Finzione: aveva fatto un corso non autorizzato di paracadutismo perché si era fissata con il nord da liberare. Esperienza e amore: un magnifico fidanzato e marito dalle ciglia folte e ricco di gusto per la vita, rampollo del banchiere umanista e abruzzese Raffaele, coraggio, incoscienza e un modo utile all’Europa e all’Italia di spendere la giovinezza. Le tre medaglie arriveranno sette decenni dopo, ma non importa, non quanto le feste fiorentine ubriache al Grand Hotel su invito di un conte ungherese mitico resistente. Non quanto una vita spesa nell’allegria dello scampato naufragio tra Roma e Londra, via del Governo Vecchio 69, e poi Ennismore Garden Mews nei roaring Sixties, fino al ritiro in campagna, nella Maremma del tufo, a Pitigliano, dove teneva casa, cani e cavalli, lei che era stata anche barcaiola nel suo Patito, un gozzone da favola.
Rossana Banti Mattioli era una donna modernissima, vitale, intelligente, frenetica e sempre tremendamente ragazza. La sua vita lunga dopo la guerra a vent’anni è stata un capolavoro tra soldi, occasioni, festeggiamenti dell’esistenza, modestia, eleganza, riserbo, andirivieni con i vecchi amici, trasmissione ai ragazzi di una cosa ancora più preziosa della sopravvivenza che è la spavalderia, un senso acutissimo del futuro. Era una che aveva vinto, lo sapeva, ne era serenamente orgogliosa, non ne faceva una lezione in senso pedagogico, esprimeva i fasti, i trionfi della nuova Europa percorrendola senza dottrina, senza spirito militante, senza ossessioni, con una gioia di esserci e di comportarsi che andava oltre ogni vendetta, oltre ogni chiusura mentale, accompagnata da quella cosa ambigua e pertinente che è il senso del futuro. Come succede a vinti e vincitori, la sua fu anche una vita difficile, ma Rossana non conosceva la lagna, e quelle tre medaglie se le era appuntate come preziosità e ricordi, senza parere.
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