Messaggio dalla Svezia
Il Nobel della Letteratura pol. corr. a Gurnah, da Zanzibar
Le parole chiave nella motivazione che ha portato lo scrittore africano al premio sono “uncompromising” e “colonialism”. L'ennesimo capolavoro di banalità
Ogni anno Alex Shephard allieta la vigilia del Nobel con i suoi elenchi, su New Republic. Scrittori europei che non possono farcela. Scrittori americani che non vedranno né l’assegno da 900 mila euro né la medaglia d’oro (per arrotondare, qualcuno pure se la vende all’asta). Poeti che il Nobel se lo possono scordare, non vi è bastata lo scorso anno Louise Glück? Ultima categoria: “Scrittori non europei che potrebbero vincere”. E giù una bella lista di nomi mai sentiti, dal Congo, dal Mozambico, dal Ghana, dal Vietnam e dalle Filippine. Più – testuale – “uno qualunque non nominato in questa lista, di un paese non nominato in questa lista”.
Risposta esatta: ha vinto Abdulrazak Gurnah, da Zanzibar. Le parole chiave nella motivazione (sempre un capolavoro di banalità) sono “uncompromising” e “colonialism”. Combinate insieme, producono: intransigente condanna del colonialismo, attenzione rivolta alla tragedia dei rifugiati, e mettiamoci la nostalgia per “l’isola spazzata dai venti che portano gli aromi di mille spezie” (così la copertina di una remota edizione italiana di “La riva del mare”: Garzanti 2002, e lì rimase, neanche un ebook per tentare un assaggio). L’ultimo Nobel africano era andato nel 2003 a J. M. Coetzee. Dal 1968 il premiato vive in Inghilterra, dove era andato per studiare. Così la nota biografica in apertura del saggio “The Fiction of Abdulrazak Gurnah” (grazie a Google Books, che lascia leggere qualche capitolo). La Tanzania da qualche anno non era un paese accogliente, per i cittadini di origine araba: la fuga da rifugiato risulta più romantica, in linea con i criteri letterari dei giurati svedesi. Finita l’università, cominciò a insegnare Letteratura post-coloniale all’Università del Kent.
Di lingua madre swahili, Abdulrazak Gurnah scrive in inglese come altri romanzieri arrivati dalle periferie dell’impero. Salman Rushdie, per esempio: uno che il Nobel difficilmente lo vincerà. O Kazuo Ishiguro, che il Nobel lo ha vinto nel 2017. Contrarissimo al cambio di lingua è invece il keniota Ngugi wa Thiong’o, sempre piazzatissimo (nei pronostici) e mai vincente. Sostiene che l’inglese è la lingua degli oppressori, e ha ricominciato a scrivere in kikuyu (una lingua bantu dell’Africa orientale, dài che lo sapevate).
Dieci romanzi e una trama ricorrente. Un ragazzino venduto come schiavo (poi si innamora dell’ancella che serve la padrona). Un giovanotto rapito e costretto a combattere per gli invasori (tedeschi). Un inglese che attraversa il deserto, e quando si riprende dalle fatiche quasi mortali – siamo sulla costa africana dell’oceano Indiano – perdutamente si innamora di una ragazza del luogo. Un uomo arrivato a Gatwick da Zanzibar con i suoi pochi averi cerca asilo (pensando alla patria lontana). Poco lontano, un professore e rifugiato politico ragiona sul fatto che l’emigrazione fa “vedere il mondo come se fossimo ancora in preda ai terrori infantili”. Messaggio: siamo tutti stranieri. Altro messaggio, dalla Svezia: anche stavolta vi abbiamo spiazzato, voi e le vostre sciocche scommesse.