I “Disegni letterari” di Giacomo Leopardi, una lezione per una “vera prosa bella italiana”
La necessità di libri “dilettevoli e utili per tutta la nazione”. Arrivano in libreria, raccolti in volume per Quodlibet, i progetti letterari del poeta recanatese, un altro straordinario capitolo della sua avventura intellettuale
Quando ci si ferma appena un po’ sulle carte inedite di Giacomo Leopardi, lettere o appunti personali, è come entrare nel più appassionante romanzo intellettuale dell’Italia moderna. L’infelicissimo ragazzo e giovanotto, prigioniero dei genitori ma confortato dagli amati fratelli Carlo e Paolina, di uno e due anni più giovani, che cosa faceva? Studiava, traduceva, curiosava nella ricca biblioteca di famiglia, sognava amori, imprese gloriose o fughe. La sua vita restò però una non vita, prima un sogno continuo e poi una continua estenuante disperazione.
Già bambino mostruosamente erudito, diventò presto l’eccezionale poeta che conosciamo. Due delle sue poesie più famose, struggenti e supreme, L’infinito e La sera del dì di festa, le scrisse appena compiuti i vent’anni. Ma alla fine della sua breve vita dichiarò in una lettera che le sue non erano state vere “opere” ma solo “saggi”, prove, preludi e promesse. Il non aver concluso, il non aver realizzato e portato a compimento, Leopardi riconobbe che era stato il suo destino di scrittore.
Secondo, dopo Dante, dei nostri più grandi poeti-filosofi, Leopardi fu in questo il contrario del primo, che nei suoi cinquantasei anni di vita era riuscito a costruire il più gigantesco e perfetto poema della letteratura europea. Si dice “padre Dante”: perché Dante fu il padre e l’enorme super-Io originario della nostra letteratura. Il conte Giacomo, eternamente giovane, restò figlio, diventando fratello di ogni altro scrittore moderno. La sua modernità non permetteva di portare a compimento opere, troppe restavano un progetto, una promessa. Leopardi capì presto che gli antichi, i greci e i romani, erano stati uomini, mentre i moderni non riuscivano più a compiere, a realizzare maturità e percezione.
In questa idea come in tutte le altre, Leopardi fu filosofo per esperienza e necessità personale. I suoi “Disegni letterari” o progetti, ora pubblicati da Quodlibet (pp. 277, euro 20) a cura di Franco D’Intino, Davide Pettinicchio e Lucia Abate, pochi testi ampiamente introdotti, annotati e commentati esaurientemente, mostrano quanto l’immaginazione progettuale e la necessità mentale di formulare piani e programmi di opere non realizzate, abbiano occupato Leopardi. I suoi temi sono noti: l’amore di patria; il rapporto fra antichi e moderni; la condizione della letteratura italiana in versi e in prosa; la solitudine e la socialità; la necessità di operette satiriche che mostrino il ridicolo di abitudini, opinioni e convinzioni diffuse; la natura e i suoi invincibili poteri; la curiosità per mondi esotici e remoti nello spazio e nel tempo; l’umanità primitiva e quella civilizzata; le virtù politiche e gli uomini illustri; l’infelicità femminile e le morti, i suicidi precoci; la varietà dei caratteri umani; il proposito di raccontare la storia di un giorno della propria vita (quest’ultimo progetto, sorprendentemente identico a quello del giovane Tolstoj, che dedicò alla “giornata di ieri” il suo primo racconto).
Una delle idee fisse di Leopardi nel corso della sua vita fu “la necessità di libri filosofici elementari metafisici, istruttivi, di educazione, per fanciulli italiani, e non tradotti, né scritti alla straniera” e questo per “il bisogno di rendere qui com’è già totalmente altrove, popolare la letteratura vera italiana, la necessità di libri italiani dilettevoli e utili per tutta la nazione” (p. 95).
Più che la poesia, è dunque la prosa a preoccupare Leopardi patriota e pedagogo, intellettuale e filosofo. Il punto dolente è “insomma la totale mancanza di vera prosa bella italiana, inaffettata, fluida, armoniosa, propria, ricca, efficace, evidente, pura”.
Nella inusitata abbondanza di aggettivi che Leopardi spende per definire la futura prosa da elaborare in Italia, c’è tutta la sua passione e impazienza progettuale. Il Leopardi politico è soprattutto un analista dei costumi sociali, della poco morale moralità pratica degli italiani, e il teorico di una prosa di pensiero non elitaria ma efficacemente comunicativa, utile e dilettevole, profonda e bella. A distanza di due secoli, il conte Giacomo ha ancora molto da dire e da rimproverare ai nostri accademici e filosofi: calino le loro maschere e ricordino a memoria l’elenco di aggettivi che Leopardi usa per descrivere una “vera prosa bella italiana”.