Il Foglio Weekend
Un diluvio di biografie e autobiografie. Vite di santi e santoni
Prima servivano per consegnare all’eternità gli uomini illustri, oggi sono alla portata di tutti. Non si contano i documentari: da Scalfari alle “illuminate”. Attesa per il boom dei Ferragnez
È già un classico quella di Ilda Boccassini, da cui si sta facendo pure un film. Colpiscono dell’autobiografia della magistrata milanese (“La stanza numero 30”, Feltrinelli), soprattutto certi dettagli: un viaggio in Argentina, nel 1991, insieme a Giovanni Falcone, per interrogare un boss, ascoltando Gianna Nannini (“alcune canzoni mi facevano pensare alla nostra storia. In top class non c’erano altri passeggeri, eravamo soli in quel lusso rilassante, la nostra intimità disturbata solo dall’arrivo delle hostess. Rimanemmo abbracciati per ore, direi tutta la notte, parlando, ascoltando la Nannini, e dedicandoci di tanto in tanto ad alcuni dettagli dell’interrogatorio e ai possibili sviluppi dell’indagine… che notte”).
Qualcuno ha fatto notare che magari la povera moglie di Falcone morta con lui nella strage di Capaci non sarebbe tanto contenta, ma il Dio dell’autobiografia non perdona. O tutto o niente. L’autobiografia è tra noi, è il genere del momento, e certo ci sono stati in passato geniali biografi come Pietro Citati che nei suoi ritratti letterari, da Tolstoj a Proust, tra citazioni e descrizioni, creava raffinatissime opere utili anche come bigini per fingere di aver letto il libro (tipo gli “Invito alla lettura Mursia”, gialli). Altri che scrivevano biografie che erano meglio dei libri e delle vite dei biografati (Edmund White, Lytton Strachey, Stefan Zweig). Le biografie poi hanno spesso largo mercato perché non spaventano come un saggio né sono fru fru come un romanzo, dunque arrivano anche a un pubblico mai lambito dall’editoria, cioè i maschi eterosessuali. Che, leggendo di grandi uomini, proiettano. Così un grande classico sono sempre state biografie e autobiografie di attori e rockstar: da Jimi Hendrix ai Pink Floyd, e giù, giù, oggi non c’è cantante che non abbia anche due o tre biografie vendutissime: sono spesso vite di alcol e droga e belle donne, il maschio medio dunque sogna.
Il maschio medio, il sesso forte che è lettore debole, un tempo leggeva le biografie di Enzo Biagi, tipo “Il signor Ferrari”, o “il signor Fiat”, e c’era una famosa collana della Rusconi, per i maschi lettori di biografie, con opere sul cardinal Mazarino e il cardinal Richelieu. Ma a un altro livello erano le “psicobiografie” di Maria Bellonci, bestsellerista chic che indagava le corti medievali più prestigiose italiche - Borgia, Este, Gonzaga - traendone volumi di massimo successo e trasposizioni televisive siderali in tempi pre-Netflix. Co-inventrice del premio Strega, stregata lei stessa con quello che è considerato il suo capolavoro, “Rinascimento privato”, storia di Isabella d’Este, scritta in forma di romanzo autobiografico.
Però a un certo punto dalle biografie dei grandi si è scesi alle biografie di sé stessi e delle proprie piccolezze. Superati i diciott’anni di vita, prima della patente, si mette giù un memoir. In “Maledetto il giorno che ti ho incontrato”, film del 1992, Carlo Verdone, biografo di rockstar defunte, che sta scrivendo un definitivo volume su Hendrix, viene apostrofato da un rivale come “biografo di Rita Pavone”, come massimo insulto, ma oggi una biografia di Rita Pavone sarebbe un livre de chevet accettato anche nelle più sdegnose ztl (e comunque esiste davvero, si intitola "Tutti pazzi per Rita. La mia vita, i miei sogni, la mia voglia di cantare", Rizzoli, 2015).
E sarà che scrivere una biografia è più facile che scrivere una bibliografia; sarà che oggi manca la fantasia, ma tutti ci si butta sulle vite, di sé o degli altri. A partire dai 20 anni, tutti pubblicano autobiografie, che non risparmiano nulla. Saviano loda così il libro del momento, che inaugura il filone rogatoria e vecchi merletti; “Ilda Boccassini ha messo tutto, potrei dire che su queste pagine si è spogliata d’ogni cosa, nuda. Dovrei scegliere un termine più preciso: scorticata, perché va oltre la pelle, affronta tutto, l’osceno mondo del potere, il tenero spazio delle alleanze, il romantico slancio degli ideali”.
È tutto uno scorticarsi, non c'è che dire: negli ultimi giorni siamo stati sommersi dai dettagli medici delle malattie di Francesca Neri: ha un film in uscita? No, peggio, ha un’autobiografia (“Come carne viva”, Rizzoli). “Ho accarezzato l’idea del suicidio. Ho passato mesi a giocare a burraco online di notte. Il mio lockdown è durato tre anni”, ma soprattutto ecco le pagine sulla “cistite interstiziale”, morbo che racconta senza omettere alcun dettaglio (“provoca un dolore sopra la vescica, alla pelvi o alla parte inferiore dell’addome. Causa un bisogno quasi continuo di andare in bagno e urinare e spesso si associa all’incontinenza. Si assottiglia lo strato protettivo della vescica e le sostanze irritanti che si trovano nelle urine ne aggrediscono le pareti e fanno scoppiare l’infiammazione. Le sue cause oggi sono sconosciute”, precisa “Il Messaggero”).
Problemi di incontinenza (non solo verbale) anche per Oscar Farinetti, il fondatore di Eataly che nella sua autobiografia appena uscita racconta pure la sua prima polluzione. “Avevo dodici anni. Stavo correndo per andare a servire messa da chierichetto per don Valentino, ero in affanno, agitato, e a un certo punto mi sono sentito bagnare i pantaloni. Ci ero arrivato vicino già qualche giorno prima, quando dovevo consegnare un compito in classe ed ero in ritardo. Quel giorno ho capito che l’inquietudine per me era piacere”. Farinetti è un produttore indefesso di volumi, tanto che su Amazon è definito “imprenditore e scrittore” (categoria molto più chic del classico “giornalista e scrittore”).
“Never Quiet”, questo il titolo per Rizzoli, consta di 560 pagine, e ben 1,38 chili di peso, ed è attualmente numero uno nella classifica “Storia della distribuzione” (un giorno bisognerà scrivere sul genio che ha inventato le classifiche di Amazon, altro che quelli che sostengono che l’algoritmo è stupido. Non si sa se è una funzione universale o solo italiana, ma si ha il sospetto che sia creata specificamente per il nostro mercato, dove nessuno legge ma ognuno prima o poi pubblica qualcosa. E chiunque abbia pubblicato è per qualche tempo primo o secondo o comunque nella top ten di classifiche le più disparate. C’è da scommettere che se anche le librerie fisiche introducessero queste classifiche, con scaffali dedicati, la crisi del settore sarebbe alle spalle).
Ma Amazon registra anche le biografie in uscita nell’ultimo mese: oltre alle suddette, c’è quella di Giacomo Poretti (il comico di Aldo, Giovanni e Giacomo), quella di Walter Zenga, quella di Franco Baresi, quella del figlio di Domenico Modugno che confessa d’esser figlio di Domenico Modugno, poi quella di Gabriele Muccino che già ha invaso i giornali con le anticipazioni: “Ho aperto ogni file della memoria in modo onesto”, dice al “Corriere”. Sì, perché il biografato va sempre in tv, o almeno sui giornali, dove appaiono ampi stralci e interviste (degli aneddoti migliori, dunque bruciandoli, o dei peggiori?). Anche Milo Manara si è appena autobiografato (“A figura intera”, Feltrinelli) però almeno ci mette dello humour: vale soprattutto il racconto di una cena dalle sorelle Giussani, le creatrici di Diabolik, “adoravo quelle due signore, così Milano-bene, così eleganti che, però, a tavola, facevano conversazioni tipo ‘ma come lo sgozziamo quello lì?'”.
Romano Prodi, in “Strana vita la mia”, appena uscito per Solferino, racconta d’essere nato il giorno di San Romano, il 9 agosto, di lì il nome, perché “con tanti figli iniziava a esserci penuria di nomi”, essendo 9 fratelli. E poi giù aneddoti e curiosità: l’accento emiliano che secondo Umberto Agnelli “viene usato come strumento di potere”, l’appartmento bolognese di proprietà del Pci (e il funzionario a cui versano la pigione sarà un giorno suo sottosegretario). E poi la famosa autobiografia di Giorgia Meloni, “Io sono Giorgia”, che ha guidato le classifiche per mesi gettando nello sconforto i librai riflessivi. Tutti insomma vogliono sapere delle vite degli altri: in questi giorni cadeva il decennale della morte di Steve Jobs, personaggio che avrà reso milionario il suo autore Walter Isaacson, specializzato in biografie (aveva al suo attivo già quella su Kissinger e quelle su Leonardo, Einstein, Beniamino Franklyn). Mentre il povero scrivente qui aveva prodotto un libello con un titolo che richiamava il fondatore della Apple, ma è stato spesso rimproverato: ma non è una biografia! (e in certe cene: lei che sa tutto su Jobs, ma con la figlia poi com’era andata? E che tumore era che aveva curato con le erbe? Quando dici che non sei biografo crolla immediatamente l’attenzione).
L’autobiografia poi è anche una specie di Pnrrr per il mondo editoriale, perché, oltre alle vendite, mantiene stuoli di ghost writer più o meno scoperti che aiutano i biografati a comporre i loro libroni. Il ghost che tutti vorrebbero è J.R. Moehringer, autore dell’autobiografia di Andre Agassi, “Open”, colossale successo, ma anche di quella del fondatore della Nike, e adesso all’opera su quella del principe Harry che contribuirà probabilmente a trasformare la Gran Bretagna in Repubblica. Ma non serve essere dei Reali (i Windsor hanno tenuto in piedi da secoli editoria e audiovisivo tra film e libri e giornali); se il biografato è abbastanza prestigioso, il passo successivo è il documentario.
I festival ne sono invasi. Alla festa del cinema di Roma sono attesi i biopic su Marina Cicogna, produttrice e socialite; su Eugenio Scalfari, fatto dalle figlie Enrica e Donata (in una scena, il nipote Simone, richiesto dal nonno su cosa voglia fare da grande, risponde: “procuratore di calcio”, e Scalfari quasi stramazza). Su Giorgio Strehler, su Monica Vitti, su Caterina Caselli e Susanna Tamaro. Grande curiosità per quello su Paolo Di Paolo, leggendario fotoreporter, con la regia del fotografo Bruce Weber, che si è innamorato della sua storia (a un certo punto chiude baracca e si inventa una nuova identità, e sarà la figlia a scoprirla dopo molti anni). Anche alla tv il documentario tira tantissimo: un genere peculiare è quello sulla famiglia disfunzionale. Britney Spears e il suo padre-tutore spopolano, con tutta la defatigante vicenda della ex bambina prodigio e della sua complicata tutela. Con tempismo migliore della giustizia a orologeria, il verdetto che finalmente l’ha liberata dal padre-padrone abusivo arriva proprio mentre il documentario nominato agli Emmy, “Britney vs Spears” sbarca su Netflix (il primo episodio si apre con lei che si innamora del suo primo ballerino, e durante una notte su un volo intercontinentale lui le chiede di sposarla, un po’ come nel romanzo boccassino).
Ma allo stesso tempo su Hulu ecco un altro documentario, “Framing Britney Spears”, e andranno ascoltate entrambe le campane? Come accade con famiglie i cui membri sono stati oggetti di biografie incrociate. In questo Philip Roth è una specie di nemesi della autobiografia: teorico del “solo l’opera parla”, ossessionato che altri si mettessero a scrutare la sua vita per trarne chissà quali interpretazioni del suo lavoro, come si vede benissimo nel "Fantasma esce di scena” (“Exit ghost”), il romanzo finale della saga di Zuckerman dove il male assoluto è un giovane aitante critico che vuole spiegare tutto della vita di Lonoff, lo schivo scrittore ebreo che Roth inventa mixando Singer e Malamud. E così Roth scriverà una prima autobiografia “tecnica”, rigorosamente “di lavoro”, insieme alla omonima ma non consanguinea Claudia Roth. Ma poi, una volta morto, usciranno altre due versioni, quella di Blake Bailey, e quella di Ira Nadel.
Anche se i veri rothiani sanno che bisogna piuttosto andare a leggere “Leaving a Doll’s House”, l’autobiografia di Claire Bloom, l’attrice inglese che fu seconda moglie di Roth, uscita nel 1996 subito dopo il divorzio, in cui lei descrive il marito come un orrendo narcisista e vampiro (lui risponderà nel 1998 con “Ho sposato un comunista”, romanzo dalla trama sgangherata ma che del resto aveva come solo obiettivo il mettere in scena un’attrice inglese presuntuosa e insopportabile e soprattutto la di lei figlia obesa e arrogante, chiamata per sovrappiù “Sylphid”, Silfide, ritratto sputato della vera figlia della Bloom, che oggi fa la soprano e si chiama Anna Steiger, figlia del primo marito, Rod. Lei incredibilmente non ha ancora scritto nulla).
Ma tornando in Italia una delle più celebri autobiografie del Dopoguerra fu “Vestivamo alla marinara”, di Susanna Agnelli, con l’editing prestigioso di Cesare Garboli. Ma oggi l’ex senatrice verrà biografata sia nella serie tv che sta facendo la nipote Ginevra Elkann dedicata alle donne Agnelli, sia in una puntata di “Illuminate”, sei episodi su Rai 3 dedicate a illustri femmine italiane. Del resto oggi le donne da biografare sono ambitissime, più che nei consigli di amministrazione: la serie Rai parte dalla Agnelli a Mariangela Melato a Marta Marzotto; per quest’ultima però c’è un ulteriore sfida di biografie, perché già al festival di Venezia è andata in scena “La Musa inquieta. Storia di una mecenate che visse più volte”, documentario con la regia di Massimiliano Finazzer Flory, già animatore di eventi culturali a Cortina ed effimero assessore alla cultura milanese della giunta Moratti. Il documentario è stato voluto dalla figlia Diamante Marzotto e osteggiato, pare dagli altri. Insomma è chiaro, chi trova una biografia trova un tesoro: poi ci sono i geni, quelli che sono riusciti a unire autobiografia e documentario, i due generi più appetitosi del momento. Ovviamente si parla dei Ferragnez, gli unici in grado di sostenere un triplice palinsesto: la narrazione instagrammatica, il documentario su di sé ("Chiara Ferragni-Unposted", 2019), adesso anche la serie tv che andrà su Amazon. Per la vita vera non rimarrà neanche un attimo, ma forse questo è il segreto della felicità.